Retroscena negli studi di Non è l'Arena di Massimo Giletti. Su La7 Flavio Briatore ha svelato che Maria Rita Gismondo, la virologa che si vantava di non essere mai stata al Billionaire, è invece stata lì il 14 agosto a cena proprio con Briatore. La notizia non sarà gradita a Marco Travaglio, dal momento che la Gismondo è editorialista del Fatto Quotidiano.
E da Giletti sono venuti alla luce anche altri dettagli. Briatore ha svelato che aveva litigato con la Gismondo e che quella cena era stata organizzata proprio per fare pace. "Io avevo risposto di essere felice che gente come la Gismondo non era mai stata al Billionaire. Alla fine, invece, lei ha passato una bellissima serata", ha concluso Briatore.
«Il tiro peggiore che la fortuna possa giocare a un uomo (o a una donna) intelligente è metterlo alle dipendenze di uno sciocco», direbbe Giacomo Casanova. Un rischio che Giorgio Armani non ha mai voluto correre, consapevole del suo talento da quel lontano 1974, quando ha creato il suo marchio personale. Una sensibilità e un fiuto sopraffino che gli hanno permesso nel corso degli anni scelte giudiziose e sempre azzeccate. Non a caso lo stilista di Piacenza, milanese di adozione, è stato il primo tra i suoi colleghi a riconoscere la gravità del Coronavirus, nonostante i tanti negazionisti, e a decidere di sfilare a porte chiuse già lo scorso febbraio.
E mentre i maligni lo accusavano di aver fatto una scelta dettata dalla paura, lui, forte del suo senso di responsabilità, è andato dritto per la sua strada: «Un dovere morale per proteggere tutti, i miei collaboratori e il mio pubblico». E i fatti gli hanno dato ragione. Poi si è rimboccato le maniche con aiuti in favore della Protezione Civile e degli ospedali di Milano, Roma, Bergamo, Piacenza e Versilia, per un valore complessivo di 2 milioni di euro. E a partire dal 26 marzo i suoi stabilimenti italiani hanno iniziato a produrre camici per il personale sanitario. Quello stesso senso di responsabilità lo spinge a tenere ancora alta l'attenzione e la prudenza, infatti ieri sera ha sfilato nuovamente a porte chiuse, trasmettendo la sua collezione uomo e donna in televisione su La7.
Il Presidente del CIO Thomas Bach dà l’ultimatum all’Italia. A rischio le Olimpiadi di Tokyo, dove gli atleti italiani - per un’assurda legge dello Sport in via di approvazione - rischiano di dover partecipare sotto la bandiera del CIO: in caso di medaglia, nessun inno di Mameli. Il capo del dicastero dello Sport Spadafora, - anziché preoccuparsi della grave situazione - ha replicato al Presidente del CIO Thomas Bach rincarando la dose. Mai sfiorato dalla politica in oltre mezzo secolo, ora lo Sport è attaccato e deturpato dall’Esecutivo, pronto a schierarsi in prima linea per ottenere un facile riscontro come nelle peggiori dittature mondiali. ma in questo modo si mette a rischio anche l'organizzazione dell'Olimpiade invernale Milano-Cortina 2026. “Siamo molto preoccupati riguardo la situazione e il funzionamento del Coni. E questa preoccupazione sta crescendo. Abbiamo scritto una lettera al Ministro dello Sport Vincenzo Spadafora rappresentando la seria preoccupazione perché vediamo che - con questa legge - il Coni non è conforme alla Carta Olimpica. Siamo molto preoccupati sulla non funzionalità del Coni, e per la preparazione e l’organizzazione delle Olimpiadi invernali di MIlano-Cortina 2026”.
L’attuale testo unico sulla riforma dello Sport - se approvato - andrebbe a paralizzare il Comitato Olimpico Italiano. “Vediamo un rischio impattante sulla preparazione degli atleti olimpici dell’Italia per le Olimpiadi di Tokyo - continua il Presidente del CIO Thomas Bach - e questo può significare meno chance di medaglie per l’Italia. Il segretario generale del Coni ha bisogno di essere messo nelle condizioni di lavorare nel pieno delle sue funzioni. Ora è soggetto a istituzioni di società esterne al Coni (Sport e Salute ndr). Anche il marketing impatta su cerchi 0limpici e non può dipendere da società esterne.
Roma, 12 apr – Un fallimento su tutta la linea, quello del governo Conte nella gestione del coronavirus. Così la pensa il sociologo Luca Ricolfi, fondatore della Fondazione Hume ed editorialista presso la Stampa, Il Sole 24 Ore e, attualmente, il Messaggero. Di più: secondo Ricolfi, l’esecutivo giallofucsia starebbe tenendo nascosti i veri dati sui morti e i contagiati da Covid-19. «L’evidenza che suggerisce che i numeri non sono quelli ufficiali è frammentaria, ma molto convincente perché tutti gli indizi convergono nel farci ritenere che il numero di morti potrebbe essere il triplo dei morti rilevati dalla Protezione Civile, e che la mortalità al Sud potrebbe essere anche 10 volte quella ufficiale», ha dichiarato il sociologo in un’intervista al Giornale.
I numeri non tornano
Sottostima dei numeri o precisa volontà di non scatenare il panico? «Non credo che le autorità sottostimino la diffusione, semplicemente non vogliono che anche noi sappiamo quel che loro sanno perfettamente», ha precisato Ricolfi. Che poi spiega: «Dopo il duplice lockdown del 5 e del 9 marzo (chiusura scuole + chiusura totale), il numero giornaliero di nuovi contagiati ha quasi immediatamente smesso di crescere (almeno secondo la ricostruzione della Fondazione Hume, basata sulla dinamica recente delle morti e delle ospedalizzazioni). Ma attenzione: meno nuovi contagi quotidiani non significa che si è fermato il contagio, ma solo che il numero di nuovi infetti cresce a un ritmo via via più lento. Giusto per darle un’idea: se fino all’annuncio della chiusura delle scuole avevamo 100 mila nuovi contagiati al giorno, dopo 10 giorni di arresti domiciliari (ultima settimana di marzo) si può stimare che i nuovi contagiati fossero scesi a solo 60 mila al giorno».
Lo scontro tra Grecia e Turchia sembra essersi momentaneamente placato. Le acque dell’Egeo sono meno bollenti rispetto ad alcune settimane fa, ma il conflitto non è stato definitivamente risolto.
La delimitazione dei confini marittimi e delle Zone economiche esclusive, il rapporto di forza tra gli Stati del Mediterraneo e la diplomazia che si è attivati in questi mesi sono tutti elementi su cui la Nato, l’Europa e l’Italia stessa devono riflettere. Perché le radici di questa “guerra” affondano nei fondali del Mar Mediterraneo ma anche in alcune questioni irrisolte, politiche, economiche e giuridiche, che rischiano di affiorare se i Paesi rivieraschi non cercheranno di mettersi intorno a un tavolo. Problemi che a Roma non devono essere dimenticati, visto che quello che interessa Ankara e Atene così come le cancellerie europee coinvolge tutti i Paesi del Mare Nostrum e in cui il nostro Paese è direttamente interessato. Per capire queste dinamiche, ne abbiamo parlato con l’ammiraglio Fabio Caffio, tra i massimi esperti di diritto marittimo.
Ammiraglio, iniziamo dalla domanda più importante: cosa vogliono Grecia e Turchia? E perché ora?
“La terra domina il mare” è il fondamentale principio del diritto del mare che Grecia e Turchia pongono a base delle loro rivendicazioni pur interpretandolo in modo differente: per Atene le isole vanno considerate come un continuum rispetto al territorio continentale, benché da esso molto distanti e prossime alle coste turche; per Ankara, queste isole rappresentano un’eccezione geografica di cui non tener conto per stabilire la delimitazione delle zone di giurisdizione tra le rispettive coste continentali. Il confronto tra i due Paesi si è radicalizzato negli ultimi mesi investendo, oltre al Mar Egeo, il Mediterraneo Orientale. Da notare, che da quando nel 2003, Cipro aveva stipulato con l’Egitto un primo accordo di delimitazione della Zona economica esclusiva (Zee) che disconosce le pretese turche nel Mar di Levante, si erano create le premesse per allargare la disputa oltre l’ambito dell’Egeo. All’inizio, Atene era però rimasta per così dire dietro le quinte, lasciando fare ai ciprioti.
A Formello il leader leghista rivela: "Sono febbricitante. Il medico mi ha detto di stare a casa". Poi su Facebook la foto con la flebo: "Sconfiggo mal di schiena, collo e spalla e riparto"
"Sono febbricitante". E ancora: "Il dottore mi ha detto di restare a casa". Sono bastate queste parole, pronunciate da Matteo Salvini durante un incontro pubblico a Formello (guarda il video), a far subito scoppiare un mezzo caso politico. Il gruppo Gedi (Repubblica e Stampa) lancia la notizia calcando la mano sul fatto che siano stati scattati "selfie senza la mascherina". Lo stesso fa il Messaggero. Tanto basta per far montare la polemica. Con l'ex ministro del Viminale che assicura di non aver "mai avuto la febbre" e, anzi, di aver "fatto il test sul Covid ieri mattina". Test che è risultato negativo.
Ma andiamo con ordine. Ieri sera, durante la manifestazione politico culturale "Itaca 20.20", intervistato dal direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano, Salvini racconta di non sentirsi troppo bene. Tutta colpa di un brutto mal di schiena che lo sta fiaccando da ore ma che non è bastato per rinchiuderlo in casa e bloccarlo a letto. "Innanzitutto grazie agli organizzatori che vale doppio perché io non ne posso più della vita a distanza, della politica a distanza, della scuola a distanza, dell’amore a distanza - ha esordito il leader leghista - scusate il ritardo, perché io odio arrivare in ritardo. Ma oggi è una giornata non partita benissimo". La giornata è infatti iniziata sul lettino, attaccato per due ore al cortisone. Quando si è alzato, il medico gli ha intimato: "Ovviamente lei adesso va a casa". E lui ha risposto senza batter ciglio: "Sì, stia tranquillo. Passo prima ad Anguillara Sabazia. Poi da Formello e finisco a Terracina ma alla sera arrivo a casa". "Ci tenevo troppo a essere qua - ha poi continuato - un po' dolorante, un po' febbricitante, però è bello esserci...".
Ha tentato di rapinare e ha molestato un’anziana di 89 anni a Medolago, in provincia di Bergamo, ma è stato fermato dai carabinieri. L’uomo è un cittadino marocchino di 38 anni, finito nel carcere di Bergamo. Un aggressione che arriva nelle ore in cui è stato arrestato lo stupratore di piazza Gae Aulenti a Milano.
Il marocchino ha colpito a distanza di una settimana
L’immigrato ha colpito in due occasioni, il 13 e il 20 settembre scorsi. Ha tentato di rapinare la donna in strada e l’ha palpeggiata, procurandole anche lesioni. Le aggressioni sono avvenute in entrambi i casi nella via dove abita la vittima. I militari lo hanno identificato e rintracciato a Solza, nella Bergamasca, e lo hanno fermato. L’uomo è stato portato nel carcere di Bergamo.
Medolago e la rapina da “Arancia meccanica”
Medolago, al di là dell’aggressione di questi giorni del 38enne marocchino, era stata teatro di un brutto fatto di cronaca, alcuni anni fa. Gianni Zamblera, autotrasportatore impegnato anche in politic con Fratelli d’Italia, aveva subito una rapina in casa. Gli autori sono sempre rimasti ignoti. La dinamica dell’aggressione, da Arancia meccanica, aveva fatto scalpore. Ecco che cosa aveva raccontato Zambler all’Eco di Bergamo.
C’era un tempo in cui per i leader della sinistra l’apparenza era quasi un peso: veniva prima il partito e poi le persone. Un tempo in cui la cura di sé e il mostrarsi in un certo modo avrebbe fatto storcere il naso ai ben pensanti dominati dall’ideologia che prima arrivava l’essere collettivo, la massa. Poi forse anche qualcosa di sé, dell’individuo e ciò che mostra.
La sinistra e l’immagine
I tempi sono però cambiati. L’apparire prima dell’essere. Così il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha completamente stravolto la sua immagine. Dalla scadenza elettorale ad oggi il governatore ha cambiato completamente look, ha intensificato la sua presenza sui social, ma soprattutto ha lavorato sulla sua immagine : barba definita, occhiale a goccia, testa rasata, cravatta quasi assente e camicia sbottonata ma non troppo ‘cafona’. De gustibus!
Il dettaglio inguardabile di Bonaccini
In questo clima di rinnovata positività esteriore, c’è però un dettaglio che non è scappato inosservato: negli ultimi eventi in cui è comparso con tanto di foto, sono immancabili i pantaloni stretti con risvoltini ‘imbarazzanti’ che lasciano il segno. Durante l’inaugurazione del ‘Part’ il nuovo museo d’arte contemporanea a Rimini, compaiono fieri i risvoltini stretti dei pantaloni insieme a lui. Un utente preciso sottolinea: ‘Contentissimo per il museo, ma scarpe modello inglese… con Jeans con risvolto… quando la vanità non trova pace!’”.
Sette anni e quattro mesi. Questo lo sconto di pena che la Corte d'Appello dell'Aquila ha deciso di concedere ai banditi romeni che, il 23 settembre 2018, torturarono e rapinarono i coniugi Niva e Carlo Martelli nella loro villa di Lanciano, in provincia di Chieti. I membri della banda, tutti ventenni, irruppero nella casa di notte, mentre marito e moglie dormivano. Una volta dentro, legarono e picchiarono tutti e due, in maniera così violenta da mandarli all'ospedale. Alla signora Niva fu reciso parte dell'orecchio destro con una roncola di 12 centimetri. E tutto questo per un bottino di pochissimo valore.
Nel 2018 la Procura generale aveva chiesto, per tutti i componenti della gang, pene complessive per 65 anni. In Appello le pene sono state ridotte a 57 anni e sei mesi di reclusione. In particolare, Alexandru Bogdan Colteanu, l'esecutore materiale della mutilazione, ha avuto 14 anni di reclusione con una riduzione di un anno e quattro mesi. Il capo banda, Marius Adrian Martin, dovrà scontare una condanna di 11 anni, con una riduzione di quattro mesi; Aurel Ruset otto anni e quattro mesi, con una riduzione di un anno e otto mesi; otto anni per Costantin Turlica e per il fratello Ion Turlica. Infine, per Bogdan Ghiviziu, palo e autista, sette anni, con la riduzione di un anno. Tutti sono accusati di rapina pluriaggravata, lesioni gravissime, sequestro di persona e porto abusivo di arma. Adesso si attendono le motivazioni della sentenza.
Fermare l’invasione di disperati con l’unica soluzione possibile, il blocco navale. Altrimenti il governo Conte farà diventare l’Italia «il più grande campo profughi d’Europa». Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, spiega quale sarà la strategia del suo partito e di tutto il centrodestra nei prossimi mesi. E promette che la coalizione darà battaglia all’esecutivo su tutto: dai progetti per il Recovery Plan alla legge elettorale. Discutendo ma restando sempre uniti. Al contrario del centrosinistra.
Presidente Meloni, il centrodestra è maggioritario nel Paese, ma l’impressione dopo le regionali è che manchi ancora qualcosa. Il direttore del Tempo Franco Bechis vi ha invitato a «cambiare spartito». Secondo lei esistono «note che non vanno»?
«Il centrodestra ha vinto queste elezioni e, grazie alla guida di FdI, ha strappato alla sinistra una storica roccaforte: le Marche. Il Pd di Zingaretti è calato in tutte le Regioni, i cittadini hanno sancito il loro “Vaffa Day” nei confronti del M5S che si è praticamente dissolto, e il partito di Renzi sarebbe da ribattezzare “Italia morta”. La sinistra è stata sconfitta, la maggioranza esce con le ossa rotte ma la stampa e le tv raccontano il contrario. Non cadiamo in questa trappola. Siamo e saremo sempre disponibili a metterci in discussione, dovremo ragionare su come fare meglio, ma non accetto di passare per sconfitta in una competizione che ci ha visto ottenere risultati inaspettati e ha confermato la distanza siderale tra popolo e Palazzo».
È da lunedì che il Pd esulta e grida tutta la sua soddisfazione per la vittoria schiacciante alle elezioni regionali. Il segretario Nicola Zingaretti lo ripete come un mantra. Peccato che i dati raccontino una realtà ben diversa. Bastava fare come ha fatto Giorgia Meloni per rendersi conto che, in realtà, il Partito democratico ha perso ovunque. Una realtà ribaltata completamente. Parlare di fake news è riduttivo. La leader di Fratelli d'Italia ha confrontato il risultato ottenuto dal Pd nelle 6 Regioni al voto nel 2015 con quello di lunedì scorso. Il Pd ha perso voti anche nelle Regioni dove ha vinto il centrosinistra.
Da giorni TV e giornali di regime parlano di vittoria PD alle regionali. Peccato i numeri dicano che sia calato in TUTTE le Regioni al voto. Ma la sinistra è così: piega la verità alla propaganda. Speriamo PD-M5S continuino a “vincere” elezioni come hanno fatto in questi anni pic.twitter.com/PWoqhsJXBQ
— Giorgia Meloni ن (@GiorgiaMeloni) September 25, 2020
In Puglia è sceso dal 19,8% al 17,2%, in Campania dal 19,4 al 16,9, in Toscana dal 45,9 al 34,7. Poi ci sono la Liguria (da 25,6 a 19,9), il Veneto (da 16,6 a 11,9) e le Marche (da 35,1 a 25,1). Proprio questa ultima Regione è stata l'unica a passare di mano, dal centrosinistra al centrodestra grazie al candidato di FdI Francesco Acquaroli. Eppure Zingaretti fa festa. La Meloni non ci sta: "Da giorni TV e giornali di regime parlano di vittoria PD alle regionali. Peccato i numeri dicano che sia calato in TUTTE le Regioni al voto. Ma la sinistra è così: piega la verità alla propaganda. Speriamo PD-M5S continuino a 'vincere' elezioni come hanno fatto in questi anni".
Sergio Mattarella difende l’orgoglio nazionale rispondendo come si deve a Boris Johnson. Il premier britannico aveva giustificato la difficilissima gestione del coronavirus nel Regno Unito rispetto a quella dell’Italia, che pure era stata la prima ad essere investita dall’epidemia, dichiarando che i suoi cittadini sono meno ligi alle regole degli italiani in quanto “da secoli amano la libertà di pensiero e la democrazia”. Quindi, per dirla alla Gramellini, se qui mettiamo la mascherina più che a Londra è perché abbiamo avuto Mussolini e non Churchill. “È difficile costringere il nostro popolo a obbedire in modo uniforme a delle linee guida”, ha insistito Boris Johnson attirandosi parecchie critiche in Italia. Compresa quella di Mattarella, che in qualità di presidente della Repubblica stavolta è sceso in campo in prima linea: “Anche noi italiani amiamo la libertà ma abbiamo a cuore anche la serietà”. Poche parole ma incisive, che rimettono il premier britannico al suo posto con una certa eleganza.
Matteo Renzi lo dice da un pezzo, ma questa volta potrebbe davvero raggiungere "quota venti" a Palazzo Madama. "Sono pronto ad accettare scommesse" assicura, arrivando addirittura a prevedere "entro Natale" nuovi arrivi. Si tratterebbe, secondo indiscrezioni mosse dal Corriere della Sera, di Sandra Lonardo, niente di meno della moglie di Clemente Mastella, nonché ex azzurra. Come lei, tra i nomi spunta anche quello del senatore di Forza Italia Andrea Causin. Così come quello di alcuni grillini in sofferenza. Tiziana Drago, per esempio, che sembrava in procinto di passare alla Lega, dopo l'esito delle Regionali potrebbe invece unirsi al giglio magico.
Ingressi, se fossero confermati, che rappresentano per il fu rottamatore una manna dal cielo. Un aiutino che arriva dopo la batosta del 20 e del 21 settembre, dove Italia Viva non è andata oltre il 5 per cento alle elezioni, neppure nella Toscana del suo leader. Con i transfughi in suo favore, Renzi può tornare a dare del filo da torcere al governo e riaprire i giochi sul pallottoliere del Senato. Giochi che, dopo la fiammata di inizio anno, si erano chiusi a causa dell'arrivo del Covid-19, ma che ora sono più aperti che mai. Certo, stupisce il fatto che qualcuno ancora ambisca ad entrare in Italia Viva...
Le Regionali hanno seppellito il Movimento 5 Stelle. Il colpo di grazia arriva però da un ex pentastellato, Gianluigi Paragone. "Beppe Grillo - spiega in collegamento con Myrta Merlino a L'Aria Che Tira - non sa più che parte in commedia recitare, sembra quasi che io debba fare sempre il giudice del M5S, ma ormai è facile". I Cinque Stelle sono infatti a un punto morto e le cifre ottenute il 20 e il 21 settembre sono la riprova.
"Le critiche - prosegue Paragone su La7 nella puntata di venerdì 25 settembre - le ho fatte in tempo e speravo nel tempo utile. Ormai il giudizio avviene per via democratica, elettorale. I dati elettorali nelle zone produttive del Paese sono imbarazzanti". Ma ancora più imbarazzante - a detta del leader di Italexit - è il fatto che i ministri dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, sia di Trieste, il suo vice di Milano e la viceministra all'Economia è di Torino. Significato, questo, che nelle aree produttive dell'Italia, "il M5s non ha toccato palla".
La pagina del "bentornati a scuola" con il bambino nero che dice: "Quest'anno io vuole imparare italiano bene". Frase che scatena la polemica sui social: "È razzismo" E gli insegnanti chiedono di ritirare il manuale. Il testo è nel manuale di letture "Le avventure di Leo" per la classe di seconda elementare edito dal Gruppo Editoriale Raffaello.. "Un libro che entra in classi interculturali in cui bambine e bambini nati e cresciuti in Italia hanno colori diversi, famiglie miste, adottive, genitori che provengono da altri paesi ma vivono qui da anni o che sono a loro volta nati e cresciuti qui. Ma anche bambini arrivati da poco che portano con sé le loro culture d'origine. Bambini che continuiamo attraverso rappresentazioni come questa ad additare come stranieri, come altro rispetto a una presunta normalità italica e a scimmiottare con un linguaggio imbarazzante che sembra preso da un pessimo film degli anni Trenta", chiarisce l'organizzazione no profit Educare alle differenze nella sua pagina Facebook.
„Sondaggio, i presidenti di Regione oggi più apprezzati: la classifica“
„Il sondaggio dell'istituto Demopolis. Il presidente della Campania Vincenzo De Luca fa registrare la crescita più alta: al 37% nel dicembre 2019, al 62% a giugno 2020, con un aumento del 25% in sei mesi“
Chi sono oggi i presidenti di Regione più apprezzati dai cittadini? E quali sono gli effetti della gestione dell'emergenza Covid sull'opinione pubblica? I mesi dell’emergenza coronavirus hanno segnato in modo significativo il rapporto tra gli italiani e le istituzioni. Il 51% esprime oggi fiducia nel presidente della propria Regione: è un dato in crescita di nove punti rispetto al 42% rilevato nel dicembre scorso, ampiamente condizionato dalla forte centralità politica e mediatica assunta in queste ultime settimane da molti governatori.
Secondo un sondaggio realizzato dall’Istituto Demopolis, sono sette oggi i presidenti di Regione più apprezzati, che ricevono una valutazione positiva dalla maggioranza assoluta dei cittadini residenti nella Regione. Al primo posto, con il 75%, il governatore del Veneto Luca Zaia, seguito al 62% dal presidente della Campania Vincenzo De Luca. Sul podio del gradimento dei cittadini, rilevato da Demopolis, anche il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini con il 60%. Al 54%, alla pari, Massimiliano Fedriga del Friuli Venezia Giulia ed il presidente della Toscana Enrico Rossi. Sesto posto, con il 53%, per il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci, mentre ottiene il settimo posto il governatore della Sardegna Christian Solinas al 51%.
Le urne sono ormai lontane e il Pd già torna all'assalto per far ripartire il business dei migranti: abolizione dei decreti Sicurezza, porti aperti alle Ong, ius soli e ius culturae
Ha messo al sicuro i voti e poi è tornata all'attacco. È la solita strategia adottata dalla sinistra: non tirare fuori i dossier spinosi sotto elezioni e scoprire le carte solo a urne chiuse. Prendiamo, per esempio, il caso della Alan Kurdi. Dopo aver recuperato 133 immigrati clandestini nel Mar Mediterraneo centrale ha puntato dritto al porto di Lampedusa. Domenica scorsa, mentre gli italiani andavano a votare, il responsabile della nave Gordon Isler chiedeva l'immediata evacuazione. "Hanno particolarmente bisogno di protezione - diceva - non devono diventare oggetto di negoziazione tra i Paesi dell'Ue". Per ore il governo giallorosso ha fatto finta di nulla. L'indomani, mentre le urne erano ancora aperte, i volontari della Sea Eye sono tornati a chiedere che gli venisse aperto il porto. "Nessuno vuole la responsabilità di coloro che vengono salvati", lamentavano. Ma, ancora una volta, da Roma nulla. Solo silenzio. Le ore sono diventate giorni. E, mentre Nicola Zingaretti gioiva di aver arginato l'avanzata del centrodestra e di aver conservato il potere in Toscana, Campania e Puglia, l'imbarcazione decideva di far rotta verso Marsiglia. È bastata la voce grossa del ministro dell'Interno francese Gérald Darmanin a rimettere in riga il governo Conte che, evitata la disfatta alle regionali, può tornare ad accogliere tutti quanti.
Non è solo sui porti aperti che i giallorossi stanno giocando sporco. Dopo aver salutato con devozione il nuovo Patto sulle migrazioni e l'asilo presentato dalla Commissione europea, eccoli tornare alla carica con il solito cavallo di battaglia: l'accoglienza senza se e senza ma. Eppure, non più di tre settimane fa, un sondaggio pubblicato da Affaritaliani aveva già seppellito l'esecutivo per la gestione strampalata degli sbarchi e per l'incapacità di mettere in quarantena i clandestini appena arrivati. "Una bocciatura netta, chiara e senza appello", aveva sintetizzato Roberto Baldassari, direttore generale di Lab2101 e docente di Strategie delle ricerche di opinione e di mercato all’università degli studi RomaTre. Non solo il 57% degli intervistati aveva detto di non condividere le misure adottate dal governo, ma quasi il 55%, considerando soprattutto la situazione drammatica che si è venuta a creare nei porti e negli hotspot siciliani, aveva chiesto le dimissioni del ministro dell'Interno Luciana Lamorgese. Il messaggio non deve essere arrivato forte e chiaro ai giallorossi e in particolar modo al Partito democratico. Nelle ultime ore si è, infatti, tornati a parlare di ius soli e di ius culturae. Non una sparata delle frangia più estremista ma una reale ipotesi di lavoro. "Ci rifletteremo", ha garantito il premier Giuseppe Conte. "Combatteremo per ottenere i voti necessari", assicura Zingaretti che solo una settimana fa si sarebbe ben guardato dal toccare un argomento tanto spinoso che aveva già fatto capitolare Paolo Gentiloni.
Avrebbe dirottato denaro delle elemosine verso fondi speculativi e favori alla famiglia. L'Espresso in edicola oggi, venerdì 25 settembre, svela in esclusiva la verità sulle dimissioni del cardinale Angelo Becciu ordinate da Papa Francesco. Dopo l'inchiesta sul caso dei fondi dell'Obolo di San Pietro usati per l'acquisto di un palazzo di lusso a Londra per 160 milioni esplode la bomba sul cardinale che avrebbe dirottato denaro delle elemosine verso fondi speculativi e favori alla famiglia.
Da oltre un secolo IBM si dedica al successo di ogni cliente e alla...
Becciu, 72 anni e sardo di Pattada, dal 29 giugno era stato “promosso” con la porpora Prefetto per la Congregazione della Causa dei Santi. Nel corso del suo mandato aveva affidato - come ricostruisce L'Espresso - l’intera cassa vaticana al finanziere Enrico Crasso, ex Credit Suisse: ma la gestione aveva anche un risvolto familiare. "Secondo le carte che abbiamo visionato - si legge - il Sostituto della Segreteria di Stato avrebbe chiesto e ottenuto per ben due volte dalla Conferenza Episcopale Italiane e una volta dall’Obolo di San Pietro un finanziamento a fondo perduto in favore della cooperativa “Spes”, braccio operativo della Caritas di Ozieri, provincia di Sassari, di cui titolare e rappresentante legale è il fratello Tonino".
«Rifarei tutto», assicura Massimo Giletti. E in quel tutto c'è davvero ogni cosa: la scelta di puntare su La 7, unico editore «che dopo la chiamata del politico di turno non ti blocca il programma»; le inchieste anti-mafia che lo hanno fatto finire sotto scorta e persino quelle sibilline dichiarazioni dello scorso febbraio, quando disse che il vero dramma era la crisi economica, non il virus. «Ma non chiamatemi negazionista», precisa Giletti che da domenica torna in onda su La7 con Non è l'Arena.
Da un po' è sotto scorta. Cosa replica a chi, come il presidente della Commissione Antimafia Fava, non ha gradito le foto dove lei ostenta il giubbotto antiproiettile?
«Ho troppo rispetto per il padre di Fava per rispondere. Con 35° cosa avrei dovuto fare? Mettere la giacca sopra al giubbotto? Questa che sto attraversando è una vera tempesta, dove mi sento onestamente molto solo. Mi aspettavo delle chiamate da alcuni colleghi ma non sono mai arrivate. Dal mondo politico ho ricevuto una solidarietà totale, tranne che dai 5 Stelle. Le uniche che mi hanno scritto sono state il sindaco Raggi e la Lezzi, ex ministro del Sud. Lo trovo gravissimo, tanto quanto il silenzio del magistrato Di Matteo che, peraltro, è un "dipendente" del ministero di Giustizia...».
Alcuni deputati dem hanno presentato una proposta di legge per inserire il canto partigiano nei programmi scolastici
Bello, giovane e leghista. Paolo Tiramani, classe 1983, è un deputato alla prima legislatura che si divide tra Montecitorio e Borgosesia, il suo paese natìo dove è sindaco dal 2017.
Laureato in economia dei mercati globali, Tiramani, nonostante la sua giovane età, ha già alle spalle una lunga carriera politica. Assessore comunale a Borgosesia dal 2006 per circa dieci anni, poi assessore alla provincia di Vercelli e consigliere regionale. Nel 2017 prende il posto del compianto Gianluca Buonanno, istrionico europarlamentare deceduto prematuramente dopo un incidente stradale, come primo cittadino di Borgosesia. Nel corso della campagna elettorale ha inserito il suo numero di telefono nei cartelloni come segno di piena disponibilità verso i suoi concittadini. L’anno successivo diventa un deputato della Lega vincendo il suo seggio col 47% dei consensi, più del doppio dei suoi avversari. È capogruppo della Lega in commissione di Vigilanza Rai, ma il suo principale settore di competenza è la sanità tant’è vero che è membro anche della commissione Affari Sociali della Camera.
Lo scorso 29 luglio, intervenendo in Aula, ha duramente attaccato il governo sul tema dell’immigrazione dichiarando: "Sono umanamente predisposto, in quanto padre di famiglia, ad accogliere bambini e madri, ma quando vedo che andiamo ad accogliere giovani palestrati con barboncino al seguito forse non ci facciamo una bella figura". È stato uno dei pochi leghisti a schierarsi contro il taglio dei parlamentari perché poco convinto della riforma "E poi, perché mai dovremmo assecondare Conte, Di Maio e Toninelli? #VotoNo”. Davanti a simili argomentazioni è veramente difficile controbattere...
Dal vizio di adottare due pesi e due misure alla convinzione di essere sempre dalla parte giusta della storia
Victor Hugo, nel suo “Les Miserables”, dedica un’intero capitolo a descrivere la differenza sottile che, secondo lui, intercorre tra la “sommossa” e “l’insurrezione”. In entrambi i casi si tratta di una rivolta di piazza: sono due collere simili, dice l'autore, ed entrambe prevedono la sollevazione del popolo, la guerriglia e la violenza. Eppure “una ha torto e l’altra ha diritto”. Perché? La sommossa è negativa perché è la guerra di una minoranza contro quella che l'autore considera la “giustizia”. L’insurrezione invece impugna le armi per rivendicare un diritto: è la difesa della massa contro chi vuole usurpare il potere. Dunque è legittima. Nella pratica per Hugo assaltare il Palazzo del governo è lecito se si vuole cacciare il Re, ma è un sacrilegio se la rivolta insidia un governo democratico. Allo stesso modo, sparare contro la folla è giustificato se lo si fa per difendere il “progresso” mentre è un crimine se ad aprire il fuoco sono i cannoni di un sovrano.
Direte: ma che c’azzecca tutto questo con i radical chic? C'entra. Perché il modo di ragionare di Hugo sulle insurrezioni somiglia a quello utilizzato dalla sinistra italiana, europea e globale per perorare la causa della propria superiorità morale e politica. Sia chiaro: non stiamo dicendo che l’autore francese era un radical chic. Non sia mai. Ci serve solo come esempio. Hugo relativizza la violenza e la giustifica sulla base della propria lettura della storia: etichetta quindi con il bollino dei “buoni” tutto ciò che gli aggrada e con quello dei “cattivi” ciò che non apprezza. Lo stesso sono soliti fare - ma con molta meno intelligenza - i protagonisti di un certo pensiero progressista, radical nei contenuti e chic nelle movenze. Il riassunto può essere questo: se la pensi come me sei nel giusto, altrimenti vai demonizzato. E non importa se a volte pur di difendere le equazioni progressista=giusto e populista=sbagliato l’intellighenzia radical usa "due pesi e due misure" con tanta sfacciataggine da apparire imbarazzante.
Alcuni deputati dem hanno presentato una proposta di legge per inserire il canto partigiano nei programmi scolastici
Il risultato delle Regionali deve aver dato alla testa al Partito Democratico. Già, perché ora i dem tornano alla carica su una questione a loro molto cara: affiancare Bella ciao all’Inno di Mameli, facendo sì che il canto simbolo dei partigiani e della resistenza entri di diritto nei programmi scolastici di tutto il Paese a decorrere dall'anno scolastico 2020/2021.
La pensata non è nuova e anzi risale alla scorsa primavera, quando l’Italia era in piena emergenza coronavirus. In data 30 aprile, infatti, un gruppo di parlamentari dem – tra cui Piero Fassino, Michele Anzaldi, Stefania Pezzopane, Patrizia Prestipino e Gian Mario Fragomeli – presentano a Montecitorio una proposta di legge per inserire nei programmi scolastici lo studio della canzone "rossa" per eccellenza, così da ottenere il riconoscimento ufficiale della canzone simbolo della lotta partigiana come canto ufficiale dello Stato italiano, quasi alla pari dell'Inno di Mameli.
Oltre all’idea in sé, stupiscono anche le tempistiche, visto che in quelle difficili e durissime settimane l’Italia era in ginocchio e terrorizzata dalla pandemia di coronavirus, che continuava a mietere vittime. Con il Paese congelato dalla serrata e dalla paura, alcuni deputati del piddì hanno però pensato bene di badare ad altro e di interessarsi a Bella ciao.
Washington chiama, Roma risponde. Mike Pompeo sarà a Roma la prossima settimana e, in vista dello sbarco del Segretario di Stato degli Usa il governo italiano si prepara sui dossier che Pompeo vorrà affrontare in un viaggio che lo porterà ad incontrare sia le autorità del nostro Paese che quelle del Vaticano.
Il tema più caldo sarà quello tecnologico, e l’arrivo in Italia di Pompeo porterà certamente a un vertice decisivo per capire come, sul lungo periodo, l’Italia si posizionerà nella guerra del 5G combattuta dagli Stati Uniti contro la Cina e, in particolare, Huawei. Gli Stati Uniti chiedono il bando totale del colosso di Shenzen dal 5G nazionale e non sono soddisfatti delle misure prese dal governo Conte dopo aver consultato servizi segreti e Copasir: l’esclusione de facto di Huawei dai bandi per il 5G di Telecom Italia non cancella una situazione che vede l’azienda cinese fortemente presente e radicata sul territorio nazionale. Gli Stati Uniti chiedono una svolta “britannica”, ovvero che l’Italia si adegui alla decisione presa dal governo di Boris Johnson, dopo diverse resistenze, di dismettere gli asset Huawei dalla rete di ultima generazione entro il 2027.
Il contenimento “pompeiano” della Cina è a dir poco aggressivo, e investe anche gli alleati transatlantici degli Usa. Giuseppe Conte lo sa bene dai tempi in cui il National Security Council, nel marzo 2019, avvertì sulla firma del memorandum della “Nuova via della seta“. L’avvicendamento della Lega col Partito Democratico a fianco dei Cinque Stelle nel governo non ha cambiato il livello di allarme di Washington per i legami sino-italiani. Dunque alla conferma della visita di Pompeo il governo ha convocato a Palazzo Chigi un vertice ad hoc sulla rete di ultima generazione.
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