Gli incontri a Ginevra sembrano sempre essere forieri di svolte epocali, tanto da tenere il mondo con il fiato sospeso: dallo storico vertice del 1955 tra i Big Four all’odierno meeting tra Joe Biden e Vladimir Putin. L’atmosfera è di quelle al fulmicotone, tra i due che, negli scorsi mesi, si sono interfacciati a suon di “macho da Hollywood” e “killer”. Troppe le reminiscenze, infinite le similitudini che ci portano, oggi, a parlare di una nuova Guerra Fredda tra Russia e Stati Uniti, concetto galvanizzato dal fatto che i due leader abbiano reciprocamente ammesso che, sulla carta, i rapporti non sono mai stati così bassi dal freddo cinquantennio.
No, non è la Guerra Fredda
Una narrazione alla quale ci siamo abituati ma che fa perdere il senso di quello che davvero sta accadendo. Innanzitutto, non siamo nel bel mezzo di uno scontro tra Est e Ovest, o tra liberismo e comunismo; secondo, non veniamo da un conflitto devastante ma siamo nel bel mezzo di una pandemia che ha ribaltato la geopolitica intera; terzo, in ballo non c’è l’Europa, ma decine di sfide e una gragnola di attori che non sono esclusivamente a Mosca o a Washington. Al netto del vaso di Pandora costituito dai diritti umani, che restano l’ultimo residuo bellico dello scontro ideologico tra due mondi opposti, in questa nuova cold war di ideologico c’è poco. C’è invece un nucleo fortemente pragmatico fatto di zone d’influenza, di risorse energetiche, Nato e controllo delle armi. Quello che di certo sappiamo è che, al termine del vertice, non ci sarà nessuna conferenza stampa congiunta ma dichiarazioni separate ai giornalisti. E stando al Cremlino, la scelta viene dagli americani.
Il G7 si conclude con un comunicato finale in cui sembrano chiari gli obiettivi, molto meno gli strumenti con cui essi devono essere raggiunti. È tipico della maggior parte dei documenti che concludono summit internazionali di questa portata: difficilmente un incontro internazionale con leader di diverse vedute e con paesi così differenti tra loro può terminare con un’agenda precisa e dettagliata. Mancano tempistiche certe, mancano linee sul raggiungimento di alcuni obiettivi di politica internazionale e per la risoluzione delle crisi. E anche sulle questioni più “globali”, come il cambiamento climatico e la transizione ecologica, non appare esserci una presa di posizione netta su cosa debba essere messo in atto e in quanto tempo.
Tuttavia, quello che si evince da questo summit è che l’idea di Joe Biden di mettere mano ai dossier internazionali blindando l’Occidente dalle sirene orientali sembra avere avuto un seguito. Quantomeno nei principi. E soprattutto rinnegando Donald Trump. Il documento, infatti, è costruito sull’idea che i democratici americani hanno del mondo. E al netto delle divergenze sulle azioni concrete da mettere in campo per compiere quanto proposto nel consesso, è chiaro che rispetto agli incontri dell’era Trump sia cambiato qualcosa. Quel senso di destino manifesto tipico della strategia Usa a guida dem è piombato di nuovo come un macigno sulla politica internazionale. Ed è la stessa logica evidenziata da Biden nel suo editoriale sul Washington Post prima del tour europeo, in cui non ha nascosto il desiderio che si tornasse a guardare all’America non solo come alleata, ma anche come potenza leader dell’Occidente. Un blocco composto dalle “democrazie”, questo il concetto espresso in modo più deciso da Biden, contro le potenze autocratiche e i regimi di tutto il mondo.