capture 008 30062020 150434«Ottimista riguardo al futuro? Io non lo sono mai stato in vita mia, si figuri se lo divento ora. Sono portato a sottolineare gli aspetti di difficoltà e mi tengo su posizioni sempre più pessimiste del necessario. L'unico mio motivo di sollievo, guardando la situazione attuale, è non essere più al governo».

Quindi è d'accordo con le previsioni negative del Fondo Monetario Internazionale, per il quale l'economia italiana crollerà quest' anno del 13% e non dell'8% come auspicato da Gualtieri, uno dei suoi successori al ministero dell'Economia?

«La previsione dell'Fmi coincide con quella più pessimista di Bankitalia. Io mi auguro che andrà meglio, ci sono i primi segnali di ripresa industriale, ma i consumi non ripartono. Il problema è strutturale: l'economia, da vent' anni, funziona sempre peggio».

Guarda caso c'era lei...

«Nel 2000, quando ero all'Economia, in Italia il prodotto interno lordo salì del 3,6%. Fu il canto del cigno, poi siamo sempre finiti all'ultimo posto in termini di crescita». Non avevamo ancora l'euro «Ma avevamo già fatto la convergenza verso la Ue, il rapporto euro-lira era stabilizzato. La verità è che vent' anni fa l'economia era flessibile, avevamo ancora della grandi imprese, la Fiat era in Italia e non in Olanda. Il Paese ha perso il treno quando il tessuto produttivo non è riuscito ad adeguarsi alla globalizzazione, alle nuove tecnologie digitali e ai mutamenti strutturali dell'economia mondiale. Abbiamo perso le grandi imprese, emigrate all'estero o comprate dagli stranieri, e non siamo riusciti a tutelare e dare forza alle piccole».

 

Colpa della classe politica o di quella imprenditoriale?

«A livello politico manca perfino la consapevolezza dei problemi. Si continua a dibattere su cose improbabili e a spendere in direzioni sbagliate. Diamo bonus per i monopattini, creiamo incentivi alle vacanze, ci inventiamo detassazioni insensate e poi ci troviamo a dover tagliare gli investimenti per ricerca e scuola, e ultimamente anche per la sanità; con risultati sotto gli occhi di tutti».

Che cosa ne pensa di tagliare le tasse?

«Io l'ho fatto, ma al tempo stesso recuperavo l'evasione, e per questo in premio mi sono guadagnato il soprannome di Dracula. L'anno scorso ho scritto un dossier accademico sulla riforma fiscale che servirebbe al Paese. Se qualcuno si prendesse la briga di consultarlo».

Il soprannome Dracula se lo guadagnò quando decise di rendere pubbliche le dichiarazioni dei redditi degli italiani; cosa che poi gli fu impedita dall'Authority per la Privacy. L'iniziativa rispondeva alla logica del pagare tutti per pagare meno, risultato ottenibile solo se lo Stato si dimostra attento e inflessibile in materia fiscale.  Oggi Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze di Prodi e D'Alema e del Tesoro di Amato e poi viceministro alle Finanze nel Prodi bis, non ha più velleità di raddrizzare il Paese. «Non ho neanche più la tessera del Pd», tiene a precisare. «Ma poi cos' è il Pd oggi, quello liberal socialista, che mi piace, che vorrebbe occuparsi ancora della povera gente? O invece è quello liberal democratico, che si è perso lungo la cosiddetta terza via blairiana e ha regalato il voto popolare alla Lega di Salvini?». Visco si dedica alla sua associazione accademica, il Nens (Nuova Economia, Nuova Società) e osserva con raffinato disgusto il panorama politico attuale. «Siamo all'improvvisazione. Una politica à la carte, su ordinazione. Non contano più competenza e serietà. Ma lei si immagina De Gasperi in un talk show di oggi? Lo massacrerebbero, gli farebbero fare una figuraccia, anche se vale più lui di tutti i politici attuali messi insieme».

Parliamo di problemi pratici: teme anche lei lo scoppio della bomba sociale a settembre?

«Dipende molto da quello che fai da oggi a settembre».

Scommetterei che non sarà fatto alcunché

«Qualcosa invece si potrebbe fare. La crisi ci ha insegnato che il sistema del welfare italiano non è più al passo con i tempi. Abbiamo visto settori protetti e altri nudi, come il lavoro autonomo, e siamo stati costretti a inventarci interventi estemporanei. Nel periodo di clausura l'approccio assistenziale era inevitabile ma ora dobbiamo scongiurare il pericolo che diventi perpetuo. Dobbiamo cambiare registro. Dieci euro spesi per sostenere i redditi danno un ritorno economico di 5 euro. Se invece si spendono in investimenti, il moltiplicatore sale da 0,5 a due e ogni dieci euro ne ritornano venti».

Per investire bisogna avere una politica economica e questo governo non sembra avere una direzione chiara e concordata...

«Il governo attraversa una lunga fase di transizione. Gli Stati Generali, la commissione Colao e le altre iniziative sono state un modo per guadagnare tempo di riflessione. Siamo ancora agli indirizzi, etichette su scatole vuote, che ora andrebbero riempite. Non c'è più tempo, i dossier aperti vanno chiusi, ma vedo l'esecutivo diviso e alla paralisi, e questo mi preoccupa molto».

Il governo non sa cosa fare?

«Quello che bisogna fare lo sanno tutti: digitalizzazione, banda larga, una riforma che renda efficiente la giustizia. E poi vanno finanziati i Comuni perché facciano opere pubbliche: questa è la prima cosa da realizzare, perché è la più semplice e avrebbe una resa immediata. Il punto è che non si fa nulla perché non si sa come farlo e perché qualsiasi soluzione proposta provoca dissidi interni alla maggioranza».

Conte accusa l'opposizione di non essere collaborativa

«In parte condivido, perché un dibattito politico onesto è impossibile, il condizionamento di breve periodo e la ricerca ossessiva del consenso fanno aggio su tutto. Però bisogna ammettere che questo vale anche quando governa il centrodestra. La politica è diventata solo conflitto e chiunque sia all'opposizione sceglie la via della contestazione anziché quella del dialogo».

Secondo lei l'alleanza Pd-M5S dovrebbe diventare organica?

«Il centrodestra, al di là delle rivalità interne, si presenta sempre compatto. Il Pd, se vuol sperare di vincere, deve portare M5S dalla sua parte. Certo, prima i dem dovrebbero capire chi sono e cosa vogliono e verificare il loro tasso di compatibilità con i grillini, che non è affatto scontato. La pandemia però può aiutare a cementare l'alleanza».

Quanto è dura per il Pd?

«Deve riprendere il proprio elettorato, e non è facile, perché la politica si è radicalizzata, come dimostra il fatto che Forza Italia è al 7% mentre Fdi e Lega sono al 15 e al 25. A furia di radicalizzare però, la gente si spaventa e dalla protesta passa al domandarsi come uscirne, come dimostra l'attuale crisi grillina».

Volando più basso: cosa possiamo fare?

«Per lo meno dobbiamo cercare di non ostacolare il lavoro quando riprenderà. Insomma, la prima regola per far ripartire l'economia è tornare a lavorare».

Stiamo esagerando con il cosiddetto smart working e le tutele a lavoratori già garantiti?

«Il lavoro da remoto è una bella suggestione, però non bisogna dimenticare che il lavoro fatto socialmente ha irrinunciabili caratteristiche positive nell'impostazione, nella comunicazione, nell'apprendimento, nella correzione in corsa».

Come commenta la frase del professor Ichino, per il quale per molti nella pubblica amministrazione lo smart working è stato una lunga vacanza retribuita?

«Non posso esprimere un giudizio in termini di produttività. È ovvio però che il lavoro da fuori va controllato e, se cambia il modo di lavorare, bisogna cambiare anche i contratti. Non si possono applicare le regole attuali del lavoro allo smart working, che è legato a un risultato e non a una presenza».

Professore, torno a bomba: e se per ripartire tagliassimo le tasse?

«Il taglio delle tasse ha un moltiplicatore dello 0,7-0,8 nei momenti in cui l'economia tira, oggi sarebbe dello 0,5. Non può essere la leva principale per il rilancio. Diciamolo: con tutte le spese che dobbiamo affrontare in tema di sanità, istruzione e ammortizzatori sociali, ipotizzare oggi una riduzione delle tasse non sta né in cielo né in terra».

E poi si stupisce ancora se la chiamano Dracula?

«Perché la gente spenda bisogna instaurare un clima di fiducia nel futuro. Nei mesi della pandemia i conti in banca sono cresciuti di oltre 100 miliardi: le persone hanno paura della ripresa del virus e di perdere il lavoro, quindi non consumano anche se si trovano con una maggiore disponibilità».

Però la riforma fiscale è un tema sul tavolo

«Servirebbe, dopo vent' anni dalla mia. Ma ora non ci sono neppure le condizioni per farla. Basta pensare alla boutade del premier sul taglio dell'Iva per capire che domina l'approccio della riduzione delle imposte a prescindere, come se i soldi poi cascassero dall'albero. Ma per tagliare le tasse, bisogna esserne capaci. Prima andrebbe cambiato il peso fiscale sui settori dell'economia. Oggi i redditi da lavoro costituiscono il 47% del Pil ma abbiamo meccanismi di welfare basati su logiche contributive nate quando essi rappresentavano il 70% del Pil. Ciononostante l'erario per ogni euro prelevato alle rendite da capitale ne prende tre dai redditi da lavoro».

Scommetto che la flat tax non le piace

«La flat tax comporta una società all'americana, con sanità, previdenza e istruzione private. Non mi pare rientri nel nostro modello sociale ideale; e certo non rientra nel mio».

Oggi cosa farebbe per riformare il fisco?

«A parte spostare maggiormente il prelievo dal lavoro ai patrimoni, bisogna risolvere a livello europeo il problema delle multinazionali: non possiamo accettare che i nostri partner Ue ci facciano concorrenza tributaria. E poi è ora che le multinazionali americane paghino in Italia per i profitti che realizzano sul nostro territorio. Serve un'azione diplomatica forte. Si possono far pagare le tasse senza essere Dracula».

E come?

«Dando l'impressione che il fisco sia presente, e si fa anche semplificandolo, ovverosia eliminando l'attuale pletora di detrazioni, bonus e tasse preferenziali. Purtroppo vedo che il governo non è su questa strada, il che significa che il prelievo fiscale non scenderà. Ma quella fiscale non è la sola riforma per la quale mancano le condizioni».

Adesso il governo parla di semplificazione della PA

«Il punto è riorganizzare le procedure interne, fare un piano industriale per ogni settore della pubblica amministrazione, come si fa nelle aziende, dando ai dirigenti responsabilità e autonomia: bisogna passare da una logica giuridico-formale a un approccio produttivo. Ma ci vuole collaborazione da parte del settore, nessuna riforma si può fare contro chi deve subirla».

Per questo non riformeremo mai la giustizia?

«La grande difficoltà e la crisi di reputazione nella quale versa la magistratura potrebbero aiutare. Servirebbe che dalle toghe emergessero interlocutori credibili che capiscano che guidare un cambiamento virtuoso dall'interno è interesse per prima cosa dei giudici, che non possono screditarsi in lotte di potere».

di Pietro Senaldi per www.liberoquotidiano.it