capture 133 23092020 090041Ci sta che ognuno pensi a casa sua, ma prima o poi il centrodestra dovrà riflettere sul pezzo che manca per consolidarsi come alternativa vincente – e duratura – nel bipolarismo che inevitabilmente si aprirà con i Cinque stelle tra le braccia del Pd. Se la traversata nel deserto dura fino al 2023, guai a sciupare il tempo che passerà nel rincorrersi a chi è più bravo.

 

Ogni partito dice che bisogna aprirsi all’esterno, ma poi concretamente sono poche le occasioni in cui ti fanno restare a bocca aperta.  Eppure, nella società delle leadership non ci sono più solo quelle di partito. E le regionali lo hanno testimoniato a sufficienza. Luca Zaia e Giovanni Toti a destra, Michele Emiliano e Vincenzo De Luca a sinistra ne sono la rappresentazione pratica. Tutti e quattro confermati con alti consensi personali. Era successo anche a Nicola Zingaretti e a Stefano Bonaccini. 

Discorso a parte riguarda Francesco Acquaroli e Eugenio Giani, entrambi alla loro prima performance (positiva) alla guida di Marche e Toscana. Ma dai partiti sembra esserci uno sguardo distratto a quello che succede nei territori. A volte geloso della “concorrenza”. I dati elettorali paiono utili solo al bilancino del giorno dopo, ma la forza dei governatori eletti dal popolo vale cinque anni. Il tempo di un paio di congressi per i partiti che si ostinano a farli ancora.

Eppure, si parla solo dell’immediato, mai della prospettiva. Restiamo nel campo del centrodestra. Matteo Salvini ha insistito nel dopo voto sul primato nazionale della Lega – anche se Nicola Zingaretti glielo contesta – e scansandosi dalle sconfitte di Puglia e Campania; Giorgia Meloni e larga parte di Fdi hanno sottolineato la vittoria marchigiana e il sorpasso sui Cinque stelle. Ma poi? Se per gli osservatori il governo Conte si consolida tanto da puntare alla fine della legislatura, l’opposizione – a partire dai partiti più forti fino a Forza Italia pur con tutte le difficoltà che attraversa quello di Silvio Berlusconi – ha il dovere di organizzare la sua presenza politica nel Paese.

 

Serve il “partito” dei governatori, il loro impegno diretto nelle forze politiche che ci sono. Perché se manca sempre l’ultimo miglio, c’è bisogno di qualcosa che abbia già dimostrato di rappresentare larga parte della società nazionale. E’ la gamba che non c’è ancora. Un tempo si parlava della parte moderata della coalizione. Oggi si dovrebbe avere il coraggio di proporre credibilità politica e non più solo istituzionale a quindici importanti signori che rappresentano larga parte dell’Italia e che sono tutt’altro che pericolosi estremisti.

Lega e Fratelli d’Italia, congiuntamente, e magari anche Fi, farebbero bene a chiamare nei rispettivi organi direttivi – senza distinzioni di partito – i protagonisti più autorevoli del territorio. Un tempo ci furono i sindaci, che diedero una spinta alla sinistra che annaspava; oggi la destra non è certo in quelle condizioni, ma fatica ad affermarsi strutturalmente.

I governatori non vanno chiamati solo per gli assessorati “che ci spettano”, ma per offrire loro un progetto Italia da costruire per davvero assieme. Esempio. Da un minuto dopo l’esito del voto il centrodestra dice di voler proporre a Conte progetti per il Recovery fund. Ma è un compito dei partiti o delle istituzioni? Andateci pure a palazzo Chigi, leader del centrodestra, ma per ricordare al premier che quei 200 miliardi non sono soldi suoi. E che gli inviti – ricattatori – agli elettori per votare a sinistra per farli gestire a “regioni amiche” valgono anche se le istituzioni locali stanno a destra per democratica volontà popolare.

Caro Conte, sono le 15 regioni del centrodestra che la Costituzione chiama a concorrere alle politiche della Repubblica italiana. Ed esse hanno il diritto dovere di concorrere a decidere che fine devono fare le palanche europee.

Da Zaia a Toti, da Cirio a Fontana, da Fedriga ad Acquaroli, da Fugatti a Tesei, da Marsilio a Santelli, da Toma a Bardi fino a Solinas e Musumeci è un elenco impressionante di personalità che rappresentano e governano il popolo italiano. Messi insieme al momento dell’elezione di ciascuno di loro, totalizzano oltre 8 milioni di voti. I cinque scudieri di sinistra, De Luca ed Emiliano, e prima ancora Zingaretti, Bonaccini e Giani, si fermano a meno di 6 milioni. Non è solo il 15 a 5 che richiamava Salvini l’altra sera; è la rappresentanza reale del 59 per cento del popolo italiano contro il 41 sui 14 milioni di voti conquistati dai governatori di tutte le parti. E’ la dimostrazione pratica di quanto sia minoritario l’esecutivo che ora staziona a Palazzo Chigi.

Altro che ridurre i delegati regionali per l’elezione del prossimo Capo dello Stato…. Aprite le porte dei tre partiti a tutti e quindici per ciascuna forza politica; fate portare da loro al vostro interno quello spirito coalizionale che serve a radicare sempre di più un’offerta politica in grado di garantire libertà e sviluppo agli italiani tutti.

I partiti non saranno più visti come leadership capaci di circondarsi di cerchi magici, ma garantiranno agli italiani che vogliono rappresentarli davvero con chi hanno scelto nei territori. Certo, qualche apparato locale avrà il mal di pancia, ma il bene dell’Italia è più importante di qualche ambizione capace di maturare solo senza concorrenza…

di Francesco Storace per www.iltempo.it