Montano le proteste elettorali in Kirghizistan dopo le contestate elezioni dello scorso 4 ottobre. Un morto e quasi seicento feriti è il bilancio provvisorio delle manifestazioni. La commissione elettorale centrale ha annullato i risultati delle elezioni parlamentari dopo che i manifestanti hanno preso il controllo del principale edificio governativo in quel di Bishkek. Il presidente Sooronbay Jeenbekov ha fatto appello alla calma annunciando il tentativo di colpo di Stato: le persone scese nelle strade della capitale kirghiza hanno sequestrato un camion dei pompieri con cui sono riuscite a sfondare il cancello del palazzo del Parlamento, facendo irruzione all’interno dell’edificio. Le parole di Jeenbekov sembrerebbero confermare quanto mostrato in un video dell’agenzia di stampa Sputnik, che ritraeva alcuni reparti delle forze antisommossa unirsi e solidarizzare con i manifestanti.

Le controverse elezioni

A denunciare lo stato delle cose in Kirghizistan era stata l’Osce, la cui missione di osservazione aveva rivelato una serie di irregolarità, denunciando soprattutto la diffusa pratica della compravendita dei voti. A seguire, “in relazione a numerose violazioni durante il voto e il periodo pre-elettorale, in una riunione dei membri della Commissione elettorale centrale è stata presa la decisione di dichiarare le elezioni non valide”, ha dichiarato l’ufficio stampa della commissione elettorale (Cec) all’agenzia di stampa russa Tass. L’annullamento dell’esito elettorale arriva dopo che i manifestanti hanno fatto irruzione nelle sedi del Governo e del Parlamento e liberato l’ex presidente Almazbek Atambayev (che si trovava in un centro di detenzione del Comitato di Stato per la sicurezza nazionale dall’agosto 2019), l’ex primo ministro Sapar Isakov e alcuni altri politici.

 

Secondo quanto comunicato in precedenza dalla stessa Cec, solo quattro partiti erano riusciti a superare la soglia di sbarramento del 7 per cento per accedere al Consiglio supremo, il parlamento monocamerale nazionale, tra cui solo una forza politica dell’opposizione, ovvero il Butun Kirghizistan di Adakhan Madumarov.

Un nuovo governo ad ogni costo?

Proprio Madumarov in conferenza stampa ha invitato il Parlamento uscente a riunirsi e a nominare un nuovo governo. “Abbiamo un Parlamento. Che ci piaccia o no, è legittimo. Lo esortiamo a riunirsi e a nominare un nuovo governo. Dobbiamo agire secondo la legge”, ha tuonato.

Il presidente Jeenbekov, nonostante le rivolte ed il numero di feriti in crescita ha ordinato alle forze di sicurezza di non aprire il fuoco, in modo da non mettere in pericolo la vita di qualsiasi singolo cittadino. Intanto, i manifestanti sono riusciti a liberare anche l’ex capo dell’amministrazione presidenziale Farid Niyazov, sospettato di aver organizzato rivolte di massa e l’ex primo ministro Zhantoro Satybaldiyev. Con loro, inoltre, sarebbe stato liberato anche Kanat Sagynbaev, una guardia del corpo di Atambayev, una figura con cui Jeenbekov ha avuto diversi attriti nel recente passato. Niyazov e Sagynbayev sono sospettati di aver provocato le rivolte di massa scoppiate nell’agosto del 2019 nel villaggio di Koy Tash.

A breve, peraltro, sono attese le parole proprio dell’ex presidente Atambayev: l’annuncio degli interventi di Atambayev e Isakov confermerebbero i rumors sulla possibile nomina di un primo ministro ad interim. Il politico dell’opposizione Sadyr Japarov, precedentemente liberato dalla prigione dai manifestanti, è uno dei nomi possibili.

Nel frattempo si infiamma anche il resto del Paese: secondo i media locali, numerosi governatori avrebbero rassegnato le loro dimissioni: altro quartiere generale dei manifestanti sarebbe la città di Osh, nel sud del Pease, ove il fratello di Jeenbekov, Asylbek, ha chiesto unità e ordine.

Uno snodo caldo tra Russia e Cina

Il Kirghizistan, nonostante sia un Paese fortemente enclavato non è affatto geopoliticamente irrilevante. Condivide, infatti, il confine orientale con la Cina ma, essendo politicamente connesso alla Russia è stato a lungo una piattaforma della competizione geopolitica tra Mosca, Washington e Pechino. Nonostante non disponga di risorse economiche o strategiche significative, l’importanza geografica del Kirghizistan deriva dalla //www.google.com/maps/place/Valle+di+Fergana/@40.7407146,69.2554049,7z/data=!3m1!4b1!4m5!3m4!1s0x38bb3e601945a455:0xcfe47f648e385923!8m2!3d40.7397815!4d71.5723953" style="box-sizing: border-box; color: rgb(102, 102, 102) !important; text-decoration: underline; background-color: transparent; font-weight: 700;">valle di Fergana e dalla circostante catena montuosa del Tien Shan. Il controllo del Kirghizistan sulle montagne circostanti gli conferisce la potenziale capacità di controllare la valle che, a sua volta, consente il controllo di gran parte dell’Asia centrale. Tale avamposto risulta oggi vitale sia per la Russia che per la Cina.

La vicinanza a Pechino si è estesa negli ultimi anni a numerosi campi come energia, trasporti, agricoltura, medicina, commercio elettronico e intelligenza artificiale. Punto cruciale delle relazioni bilaterali è il famigerato corridoio Cina-Kirghizistan-Uzbekistan. Il Kirghizistan, però, sembra ancora essere l’anello debole di questo tratto fondamentale della nuova Via della Seta. Mentre l’Uzbekistan, con l’assistenza della Cina, ha completato il tunnel Angren-Pap nel 2016 per collegarsi al futuro progetto ferroviario, l’accordo finale in Kirghizistan ha continuato a subire ritardi a causa di instabilità politica, cambi di leadership, disaccordi politici interni sui finanziamenti e disaccordi sugli aspetti tecnici della ferrovia. I fatti di queste ore non potranno che avere un ulteriore effetto procrastinatore sull’evolversi di questo ramo della Belt and Road.

Dall’altra parte c’è la Russia, che desidera rivendicare la sua influenza internazionale in parte riprendendo il controllo sugli stati ex sovietici e sul suo cuscinetto nell’Asia centrale. Oltre al significato strategico dell’Asia centrale, Stati come il Kirghizistan sono importanti per l’Unione economica eurasiatica (Eeu) guidata dalla Russia. In effetti, Mosca ha investito molto sul Paese per accelerare la sua integrazione nel blocco economico: ha cancellato miliardi di dollari di debiti, si è impegnata a fornire attrezzature militari e si è impossessata della rete di approvvigionamento di gas interna.

Rivolte o Rivoluzione?

Non è la prima volta che in Kirghizistan vanno in scena proteste simili (due presidenti sono stati estromessi allo stesso modo dal 2005). Appena conquistato il palazzo presidenziale, numerosi media asiatici (tra i quali la russa Novaya Gazeta) hanno immediatamente scomodato la memoria delle precedenti rivoluzioni colorate: un chiaro riferimento alla rivoluzione dei Tulipani nel 2005 e ad altri episodi simili nei territori dell’ex URSS. In quelle occasioni, dal Cremlino erano piovute accuse di presunti complotti occidentali in funzione anti-russa. Questa volta però si tratta davvero di rivoluzione, figlia tardiva della caduta della Cortina di Ferro, o dell’ennesima baruffa tra oligarchie corrotte?

Qualora non si verifichi un’ulteriore escalation di violenza è possibile che i disordini rientrino spontaneamente senza alcun tipo di intervento esterno, semplicemente attraverso l’ennesima rinegoziazione politica tra gruppi di potere. Se invece le proteste non dovessero portare ad un governo ad interim, ma montare ulteriormente, potrebbe profilarsi l’ennesimo caso di conflitto scongelato: come in Bielorussia, in Ucraina e in Nagorno Karabakh. Oggi, però, il lontano Kirghizistan non è più solo un territorio simbolico da un punto di vista etnico, storico e linguistico, ma un tassello fondamentale nel domino asiatico: né Pechino né Mosca potranno permettersi la caduta di Biškek.