capture 494 27112020 081410Oltre 250 milioni a cinque piccole aziende private. Per coprire solo una parte minima del fabbisogno nazionale. Ma non c'è trasparenza sul prezzo pagato dal governo. E neppure sui criteri di scelta dei fornitori, tra cui un produttore di pannolini e uno stampatore

Le mascherine? No problem, costeranno cinquanta centesimi e l’Italia farà da sé. Parola di Domenico Arcuri. Tra conferenze stampa e comparsate in tv, il commissario di governo per l’emergenza Covid da giorni dispensa il verbo della fase due, quella della ripartenza. Una ripartenza a prova di speculatori, garantisce il manager, perché il prezzo politico imposto per decreto ridurrà drasticamente il costo delle protezioni anti virus. C’è di più. Nella conferenza stampa di martedì 28 aprile, Arcuri ha annunciato che lo Stato è pronto a finanziare la produzione italiana di mascherine. Quante? Tanto per cominciare 660 milioni, ha spiegato il commissario, che ha rivendicato con orgoglio lo «straordinario» lavoro svolto dalla sua struttura «in soli 40 giorni».

La commessa è stata ripartita tra cinque aziende, ciascuna delle quali ha siglato un contratto con la presidenza del Consiglio. I nomi si conoscono. Eccoli: Fab, Marobe, Mediberg, Parmon e Veneta distribuzione. Nulla si sa, invece, del contenuto di quei contratti. Arcuri sostiene, per esempio, che lo Stato pagherà 38 centesimi le mascherine chirurgiche che poi saranno messe in vendita al dettaglio per 50 centesimi ciascuna. Vale la pena segnalare, però, che Marobe, una delle cinque società fornitrici, dichiara che incasserà dal committente pubblico 46,5 centesimi al pezzo, una somma sensibilmente superiore a quella indicata dal commissario. Interpellata in proposito da L’Espresso, Mediberg ha invece risposto che i suoi dispositivi saranno venduti al governo a un prezzo «sensibilmente inferiore» ai 38 centesimi da Arcuri.


A questo punto viene da chiedersi come verranno spartiti i profitti dell’operazione. Infatti, come detto, le mascherine saranno messe in commercio a 50 centesimi ciascuna. Sono invece destinati a variare, e di molto, i margini di guadagno, visto che in base al contratto con il commissario, ogni produttore venderà le sue mascherine a un prezzo diverso. A chi andranno questi profitti? Alle aziende? Ai distributori, cioè supermercati e farmacie? E quale sarà il ruolo dello Stato? Le nostre richieste di chiarimenti rivolte allo staff di Arcuri sono cadute nel vuoto. Restano quindi riservate una serie di informazioni che invece sarebbero molto utili per valutare, per esempio, con quali criteri il governo abbia scelto proprio quel gruppo di cinque aziende. E come si giustifichino differenze così ampie nei prezzi delle commesse.

Il business delle mascherine muove risorse pubbliche importanti. A un prezzo medio di 38 centesimi, i 660 milioni di pezzi di questa prima fornitura costeranno all’erario oltre 250 milioni di euro. Ed è solo l’inizio. Sembra verosimile, infatti, che nei prossimi mesi altri fornitori si aggiungeranno ai cinque fin qui indicati. Senza contare che da «metà giugno», dice il commissario, dovrebbe partire la produzione affidata alle macchine di Fameccanica, controllata dal gruppo Angelini, a cui si aggiungono altrettanti impianti per il confezionamento con il marchio Ima, società quotata in Borsa che fa capo alla famiglia emiliana Vacchi. Intanto, però, il governo ha scelto di non svelare i dettagli della prima commessa alle cinque aziende «eccellenze italiane», come le ha definite Arcuri. E strada facendo emergono altri fatti degni di nota.

Si scopre per esempio che Riccardo Maria Monti, manager coinvolto in prima persona nella definizione della fornitura assegnata a Marobe, siede sulla poltrona di vicepresidente della Fondazione Italia-Cina. Un ente, quest’ultimo, che ha tra i suoi scopi statutari anche quello di proporsi come «riferimento per le imprese cinesi che hanno investito o sono interessate all’Italia», si legge nel sito istituzionale. Se si considera che uno degli obiettivi dell’operazione gestita da Arcuri è proprio quello di dare un taglio alla dipendenza italiana da Pechino nel settore delle mascherine, riesce difficile non notare il doppio ruolo di Monti. Il quale peraltro, può sfoggiare un curriculum di tutto rispetto. Dapprima in qualità consulente strategico di grandi aziende, poi come dirigente pubblico a partire dal 2012, quando Corrado Passera, all’epoca ministro dello Sviluppo economico, lo chiamò al vertice dell’Ice, l’Istituto per il commercio estero. Monti, che conosce bene Arcuri, è in seguito approdato al gruppo Ferrovie dello Stato come presidente della controllata Italferr fino a quando a dicembre del 2018 ha traslocato sulla poltrona di consigliere delegato di Triboo, società quotata in Borsa che vende servizi digitali: pubblicità, marketing, commercio, tutto in Rete.

In aprile, nel pieno della pandemia, l’azienda guidata da Monti ha importato dalla Cina una partita di 500 mila mascherine poi rivendute ad aziende associate alla Piccola industria di Confindustria. Il prezzo, non esattamente di favore, era stato fissato a 83 centesimi più Iva al pezzo. La stessa Triboo si è poi associata con Marobe, che è una piccola azienda tessile, per aggiudicarsi la commessa del governo. L’inedita coppia si è impegnata a fornire entro novembre 174 milioni di pezzi per un importo complessivo, a carico dello Stato, di 81,1 milioni di euro. Una somma rilevante se si pensa che Marobe nel 2018, anno a cui si riferisce l’ultimo bilancio pubblicato, non ha superato i 12,5 milioni di ricavi, mentre Triboo nel 2019 è arrivata a 77 milioni. Prima d’ora nessuna delle due aziende ha mai avuto nulla a che fare con la fabbricazione di mascherine. E neppure Parmon, produttore siciliano di pannolini e assorbenti femminili. Stesso discorso per Veneta distribuzione, che fa parte del gruppo Grafica Veneta controllato dallo stampatore Fabio Franceschi. Per Mediberg, sede non lontano da Bergamo, e la bresciana Fab della famiglia Grazioli, i dispositivi di protezione per il volto rappresentano invece, ormai da molti anni, una parte del tutto marginale dell’attività.

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Il governo si è trovato con le spalle al muro. Deve ricorrere al Made in Italy nel tentativo di coprire almeno una parte del colossale fabbisogno nazionale. Difficile fare stime precise in proposito, ma a settembre, quando anche le scuole dovrebbero riaprire, l’Italia potrebbe arrivare a consumare oltre 500 milioni di mascherine al mese. Nei giorni scorsi Arcuri ha garantito che per quell’epoca lo Stato sarà in grado distribuire fino a 30 milioni di pezzi al giorno, buona parte dei quali dovranno essere importati, con tutti le incognite del caso. In questi mesi, infatti, i dispositivi di protezione sono diventati qualcosa di simile a un asset strategico, protetto da blocchi doganali e divieti all’export. C’è il rischio concreto di restare esposti ai venti della speculazione. Oppure di dipendere in tutto e per tutto dalla Cina, che è di gran lunga il maggior produttore mondiale. Ecco perché il governo si è mosso per incentivare la nascita di una filiera italiana.

Si parte da zero, o quasi, visto che prima dell’epidemia la produzione nostrana, schiacciata dalla concorrenza a prezzi stracciati dell’Asia, era stata quasi completamente abbandonata. Non per niente, delle cinque imprese selezionate dal governo solo Fab e Mediberg, come detto, possono vantare una qualche esperienza specifica nel settore dei dispositivi di protezione. La prima produce abbigliamento antinfortunistico destinato a fabbriche, officine, cantieri. Mentre Mediberg, che fa capo a Rossano Breno, già presidente della Compagnia delle Opere di Bergamo, rifornisce soprattutto cliniche e ospedali. Il contratto siglato il 21 aprile scorso con il governo impegna Mediberg a vendere al committente pubblico 648 mila mascherine a settimana fino alla fine di giugno. Circa 7 milioni di pezzi in tutto, quindi. Una piccola frazione rispetto ai 660 milioni annunciati da Arcuri.

Il grosso della commessa pubblica toccherà alle altre aziende che per cavalcare l’onda del nuovo business si sono affrettate a riconvertire almeno in parte le loro produzioni, a volte con qualche incidente di percorso. Ecco, allora, le mascherine targate Grafica Veneta, fatte di carta opportunamente trattata e plastificata. «Schermi filtranti», le ha definite Fabio Franceschi, il patron del gruppo travolto da dubbi e sospetti dopo che un video diventato virale in Rete metteva in dubbio l’efficacia dei suoi prodotti. Il decreto legge di metà marzo sull’emergenza sanitaria consente infatti la fabbricazione e la vendita al pubblico di mascherine prive di valutazione da parte dell’Istituto superiore di sanità e dell’Inail, che invece è prescritta per quelle chirurgiche vere e proprie, le uniche utilizzabili in ambiente ospedaliero o assistenziale, secondo quanto prescritto dal ministero della Salute. Le altre, comprese quelle di Grafica Veneta, possono essere messe in commercio, si legge nel sito del ministero, «sotto la responsabilità del produttore».

Nei giorni scorsi, in risposta alle critiche, un comunicato dell’azienda padovana ha precisato che gli schermi filtranti di Grafica Veneta erano stati comunque sottoposti ai test di «primari laboratori di analisi» che ne avevano certificato, tra l’altro, «la capacità di barriera microbica». Franceschi, del resto, si era mosso per tempo. Già a fine marzo aveva adattato una maxi rotativa del suo stabilimento alla nuova specialità della casa. «Siamo pronti a produrre fino a 100 milioni di mascherine al mese», ha garantito l’imprenditore. I primi quattro milioni avevano ben visibile il logo della regione Veneto. Era un gradito dono di Franceschi al presidente Luca Zaia, che tramite la Protezione Civile ha poi provveduto a distribuire ai cittadini le mascherine dell’amico stampatore. Risale al 21 aprile, invece, il contratto con il commissario di governo. Non è chiaro quanti siano gli schermi filtranti che Grafica Veneta si è impegnata a fornire e neppure il costo a carico delle casse pubbliche. Interrogato in proposito da L’Espresso, Franceschi non ha riposto alle domande inviate via mail.

Con la Parmon di Belpasso, in provincia di Catania, si cambia decisamente materiale. La logica è la stessa, però. Anche i macchinari dell’azienda siciliana sono stati in parte riconvertiti alla nuova produzione: dai pannolini alle mascherine. In fondo la materia prima è praticamente la stessa: tessuto non tessuto, ovviamente con caratteristiche diverse in base al prodotto finale. La famiglia Fronterrè, azionista unica della società etnea, non si è fatta sfuggire l’occasione e fin dalle prime settimane ha cercato di aprirsi un varco in un mercato per loro del tutto nuovo. Dopo un primo stop da parte dell’Istituto superiore di sanità, i dispositivi col marchio di Parmon hanno infine ottenuto la certificazione CE per la vendita come mascherine chirurgiche.

A metà aprile il governo ha quindi dato via libera alla fornitura dell’azienda siciliana in base a un contratto con scadenza ottobre 2020. Un contributo pubblico di 720mila euro sotto forma di finanziamento agevolato sarà destinato a finanziare in parte (il 75 per cento) l’investimento necessario a riconvertire le linee produttive. L’obiettivo dichiarato è quello di riuscire a produrre entro metà maggio almeno 200 mila mascherine al giorno. A quel ritmo, la fornitura complessiva destinata allo Stato dovrebbe raggiungere almeno i 30 milioni di pezzi entro i cinque mesi previsti dalla commessa.
Ben più ambiziosi sono i piani di Marobe.

La prima fase della riconversione risale a marzo, nelle prime settimane dell’epidemia, quando l’azienda tessile con base a Vanzaghello, alle porte di Milano, ha cominciato a produrre camici ospedalieri. Adesso tocca ai dispositivi di protezione. «Puntiamo a un milione di mascherine al giorno entro metà luglio», dichiara Christian Cagnola, esponente della seconda generazione della famiglia azionista. Ci vorrà tempo, però. Al momento Marobe è in grado di garantire non più di 250 mila pezzi al giorno, ma sono in pieno svolgimento i lavori per installare nuovi macchinari in un capannone non lontano dalla fabbrica. L’azienda potrà dare lavoro almeno a 250 persone, dice Cagnola. Un bel salto, visto che i dipendenti di Marobe fino all’anno scorso non arrivavano a 30. I soldi di Stato finanzieranno il boom. Finché durano. Perché non è detto che alla scadenza, da novembre in poi, il contratto con la presidenza del Consiglio venga rinnovato. E allora anche le mascherine Made in Italy dovranno confrontarsi con il mercato.

DI VITTORIO MALAGUTTI per https://espresso.repubblica.it/