Se per magia l'indebitamento si azzerasse di colpo, il Paese scoprirebbe che le cause della debolezza dell'economia sono altrove: nel fisco, nella burocrazia e nella scuola.

Sopito dai bassi tassi di interesse, il problema del debito pubblico italiano tornerà prepotentemente alla ribalta non appena la politica monetaria espansiva della Bce dovrà ridimensionarsi.

 

Ma il debito pubblico è causa o effetto dei problemi italiani? Facendoci condizionare dal periodo natalizio, immaginiamo per magia che il nostro debito sparisse. Ebbene l'Italia avrebbe comunque grosse difficoltà a ripartire per via di ritardi strutturali e di competitività internazionale che ne ostacolerebbero la ripresa. La produttività del lavoro oggi è praticamente pari a quella di 10 anni fa. E questo è inconcepibile se si pensa che, rispetto a 10 anni fa, oggi un'ora media di lavoro contiene più tecnologie, più capitali e più preparazione. Ha poco senso quindi pensare di ridurre il debito pubblico, se non agendo su quelle che sono le reali distorsioni del sistema Italia.

Innanzitutto, una pressione fiscale ingiustificatamente più alta di quella di quasi tutti i nostri competitors internazionali, che scoraggia i consumi, gli investimenti e quindi deprime la crescita e la cui riduzione dovrebbe essere finanziata da un processo di riforme strutturali che non abbia timore di colpire privilegi acquisiti, lobby e rendite di posizione. Occorre poi ridurre i costi della burocrazia per le imprese. Aprire un'attività economica in Italia costa molto di più che avviarla in Usa, Francia o Inghilterra per via di un'enormità di regolamenti inutili, costosi e nocivi per la crescita che non perseguono neppure il loro fine, non garantendo maggiori tutele per gli stakeholders delle imprese italiane rispetto a quelle dei nostri competitors. Secondo un indicatore internazionale che misura la semplicità in un Paese nel fare attività economica (Easy in doing business), l'Italia è al 45esimo posto ed è dietro tutti i Paesi industrializzati dell'Ocse e tutti i Paesi emergenti. In Italia inoltre non abbiamo più le grandi imprese, avendo subito lo scippo di molti dei nostri gioielli nazionali.

Per effetto di tali inefficienze, investire in Italia, nonostante il nostro invidiabile patrimonio culturale e paesaggistico, non è più attraente; e assieme agli investimenti volano via anche i profitti e le tasse correlate, le competenze di base e i servizi ad elevato valore aggiunto, in un circolo vizioso che contribuisce inevitabilmente ad abbattere la nostra competitività.

Per provare ad invertire questo trend occorre aprire una nuova stagione di investimenti in infrastrutture, formazione e ricerca. Non è pensabile per le imprese italiane competere avendo a disposizione un patrimonio tangibile (ovvero infrastrutturale) e intangibile (ovvero umano) su cui a livello pubblico si investe in misura largamente insufficiente. L'Italia negli ultimi 10 anni ha tagliato gli investimenti in ricerca e formazione universitaria del 22%, mentre la Germania nello stesso periodo li ha aumentati del 23%.

Questa differenza è anche figlia dello spread ingiustificatamente elevato degli anni passati fra il costo del nostro debito pubblico e di quello tedesco, dovuto principalmente alle distorsioni nella governance politica ed economica europea. In altri termini e semplificando un po', noi abbiamo finanziato gli investimenti in infrastrutture, innovazione e ricerca di nostri competitors, come la Germania, sacrificando probabilmente per i prossimi 30 anni il futuro del nostro Paese.

Inoltre, è oramai improcrastinabile l'avvio di un articolato processo che miri realmente a combattere il più grave fenomeno che ostacola la ripresa e abbatte l'appeal per gli investitori esteri: la corruzione e il clientelismo nella gestione del potere. Questo malcostume, sin troppo diffuso in molti ambienti sociali, politici e professionali, alimenta (e in qualche modo giustifica) tra l'altro il fenomeno dell'evasione fiscale e rappresenta un danno irreparabile per le future generazioni e quindi la reale peggiore eredità che le generazioni passate di amministratori pubblici (e non) hanno lasciato alle nuove generazioni.

Oggi si parla moltissimo di ridurre i costi della politica, ma il reale costo della politica, inteso in senso lato, è intangibile ed è rappresentato da un modello clientelare di gestione del potere, assolutamente dissociato dal talento, dalle capacità e dal merito (che in alcuni casi sembrano essere una colpa in Italia) e che contagia anche i giovani, perché li impigrisce mentalmente, li disincentiva a fare sacrifici, a perseguire l'eccellenza, ad impegnarsi e a studiare e fornisce un alibi per l'ignavia di molti.

E ciò genera mediocrità diffusa, pressappochismo e decadenza morale. È questo quindi il costo maggiore, il vincolo più grave e quindi il limite principale da scardinare per il futuro se si vuole recuperare realmente produttività, competitività e quindi credibilità internazionale.

di Vincenzo Pacelli  per ilgiornale.it 
Università degli Studi Foggia

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