capture 105 09022021 105921Mario Draghi prepara il secondo giro di consultazioni e la formazione di un esecutivo di unità nazionale appare sempre più vicina. L’ampia convergenza dei partiti sull’ex governatore della Bce segnala la grande reattività di una classe politica in crisi strutturale dopo la fase del Covid-19 alle decisioni e agli inviti del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, alfiere di una soluzione politica rapida e sicura per il Paese. Mattarella, come più volte ribadito, ha anche voluto puntare sui forti legami internazionali di Draghi che, oltre a conoscere a menadito gli ambienti politici ed economici di Bruxelles, è estremamente apprezzato anche sull’altra sponda dell’Atlantico.

Forse Matteo Renzi aveva ragione quando, silurando il governo Conte II, immaginava che “Giuseppi” non godesse di sufficiente credito di fronte alla nuova amministrazione Biden. Ma ha fatto male i conti pensando di rappresentare il maggiore referente degli interessi dei progressisti Usa oltre Atlantico. Figure come Draghi, infatti, garantiscono un legame strategico con Washington che va oltre i cambi di colore delle amministrazioni politiche e che è legato alla comunanza di interessi, valori e “linguaggi” tra gli establishment occidentali.

Da navigato esperto della finanza internazionale, da banchiere impegnato sia sul fronte pubblico che in istituti privati (Goldman Sachs) Draghi conosce i linguaggi della politica e del mondo degli affari di Oltreatlantico. Da economista keynesiano parla sostanzialmente una lingua simile a quella di maggior parte dei decisori politici statunitensi, intenti oramai a sdoganare la potenza di fuoco della spesa pubblica contro la crisi del Covid-19; da figura apicale del nostro sistema-Paese, può dare agli occhi degli Stati Uniti l’immagine di un interlocutore di ben altro profilo rispetto a Conte, snobbato da Biden nel primo giro di chiamate agli alleati. Non a caso, scrive Formiche, la nomina stessa di Draghi può portare a un rafforzamento della posizione italiana a Washington, oggigiorno decisamente appannata: “il segretario di Stato Usa Anthony Blinken questo giovedì era impegnato in una chiamata con i colleghi di Francia, Germania e Regno Unito, non altri. Lo stesso giorno Biden ha tenuto al Dipartimento di Stato il suo primo Foreign policy speech, citando tutti i Paesi G7, dal Canada al Giappone, tranne l’Italia. Segnali che non vanno sopravvalutati ma neanche sono da ignorare. La carta Draghi però può fare la differenza”.

 

Draghi non ha espresso una visione organica in politica estera, ma con le sue mosse ha in più occasioni dimostrato di saper giocare di sponda con Washington, che ai tempi di Barack Obama vide di buon occhio la sua ascesa ai vertici dell’Eurobank. Dapprima il quantitative easing ha consentito all’Unione Europea di rompere l’accerchiamento dell’austerità di matrice germanica e ha segnato, sul lato più d’immagine che materiale va detto, una prima sconfitta simbolica per la linea perorata a lungo da Angela Merkel sul tema della risposta alla Grande Recessione. Linea che confliggeva con la volontà statunitense di espandere su scala globale la diffusione della liquidità in funzione anti-crisi. Bruno Tabacci ha recentemente ricordato il filo diretto che univa Obama a Draghi in quegli anni, e altrettanti attestati di stima sono arrivati nei suoi confronti da Donald Trump durante gli scontri tra l’ex presidente repubblicano e l’attuale governatore della Fed, Jerome Powell nel 2019. A maggio, inoltre, quando Conte iniziò a pensare di affidare la ripresa del Paese alla task force guidata dal manager Vittorio Colao, da più parti Draghi fu ritenuto il contraltare “euro-atlantico” del sodalizio Conte-Colao ritenuto eccessivamente aperturista nei confronti della Cina.

Con Draghi a Palazzo Chigi e, in prospettiva, al Quirinale gli Usa troverebbero dunque un importante interlocutore a Roma e un punto di riferimento europeo di primissimo lignaggio in una fase che vede la Cancelliera avviarsi agli ultimi mesi del suo mandato e Emmanuel Macron all’apice dell’ambizione autonomista sul fronte politico-strategico ma tutt’altro che certo di spuntare la rielezione all’Eliseo nel 2022. Inoltre, la mossa di Mattarella ha plasmato un ri-allineamento delle principali componenti atlantiste del Parlamento italiano e la prospettiva che partiti come la Lega, al cui interno i solidi riferimenti di Washington sono figure come Giancarlo Giorgetti e Raffaele Volpi, si trovino a governare in coalizione con il Partito Democratico, al cui interno l’ala atlantista è rappresentata dai ministri uscenti Lorenzo Guerini e Enzo Amendola, riducendo il peso relativo del Movimento Cinque Stelle e del depotenziato Conte è sicuramente vista di buon occhio.

A queste dinamiche politiche Draghi dovrà, chiaramente, offrire una sintesi: ma la questione della linea di politica estera del futuro esecutivo appare ben tracciata, e da alcune nomine di peso (come quella dell’autorità delegata ai servizi) trarremo ulteriori indicazioni sulle modalità con cui l’ex governatore della Bce interpreterà il mandato offertogli dal Quirinale. Che del collocamento italiano sul campo atlantico si è da tempo erto a garante.

di Andrea Muratore per https://it.insideover.com