capture 271 03042021 095139Mentre prosegue il braccio di ferro tra Stati Uniti e Iran su chi debba fare il primo passo per un ritorno ai negoziati, l’accordo sul nucleare iraniano sembra incontrare nuove ragioni per veder prolungata l’impasse attuale.

Il ruolo del Congresso americano

Si tratta di una delle clausole che istituisce il cosiddetto “transition day“, fissato per il 18 ottobre 2023 (punto 19, lettera D dell’Annex V del JCPOA): per quella data l’AIEA dovrebbe pubblicare un report che accerti la finalità esclusivamente pacifica del programma nucleare iraniano; in corrispondenza di tale verifica, la comunità internazionale eliminerà definitivamente le sanzioni verso l’Iran relative alle attività di proliferazione nucleare. In quella stessa data il parlamento iraniano dovrebbe ratificare un protocollo aggiuntivo per consentire un’ispezione più rigorosa dei suoi impianti nucleari, l’Unione Europea revocare tutte le sanzioni rimanenti, e il Congresso degli Stati Uniti fare lo stesso con un’azione legislativa (piuttosto che sospenderle tramite un ordine esecutivo).

Se l’amministrazione Biden decidesse di riportare gli Stati Uniti all’accordo in quell’anno, dovrebbe chiedere l’approvazione del Congresso per la revoca o la modifica di tutte le sanzioni statunitensi (per la sola questione nucleare) contro l’Iran. Una mission quasi impossible vista “l’animosità e il sospetto bipartisan degli Stati Uniti verso la Repubblica islamica”, come sostiene James M. Dorsey del Begin-Sadat Center for Strategic Studies in un suo report recente.

 

Questo dettaglio fa sì che Stati Uniti ed Iran, almeno nei prossimi quattro anni, negozieranno con due umori differenti e con obiettivi profondamente diversi. L’amministrazione Biden ha bisogno del supporto del Congresso per la ricostruzione post-pandemia e non può permettersi di pregiudicare gli equilibri domestici. Ecco che, dunque, l’escamotage sarebbe quello di procedere verso un “aggiornamento” del JCPOA che consenta di aggirare la clausola. L’amministrazione americana si “accontenterebbe” di contribuire a limitare il programma sui missili balistici dell’Iran e di pretendere nuove limitazioni al sostegno iraniano ad attori non statali in teatri complessi come lo Yemen, il Libano e l’Iraq.

“Spalmare” i tempi?

I Repubblicani su questo tema sono stati più volte categorici. Come il senatore dell’Oklahoma Jim Inhofe che, da strenuo sostenitore del ritiro dal JCPOA nel 2018, porta avanti la fronda repubblicana contro un certo modo di intendere l’accordo. Quest’ultimo, nella sua visione, dovrebbe essere infatti globale, includere cioè anche la questioni del sostegno al terrorismo internazionale; inclusivo, ovvero tenere conto dell’opinione e delle esigenze di partner come Israele; permanente, scevro cioè da rinvii o fasi che rimandando la soluzione finale sine die; ma soprattutto trasparente, cioè l’Iran dovrebbe garantire la propria disponibilità alle ispezioni e la massima verità sulle attività del passato. Un gioco al rialzo, insomma, che al Congresso si tradurrebbe in numeri molto amari.

Una misguided diplomacy, come l’aveva definita Meghan L. O’Sullivan su Bloomberg alcuni giorni fa? L’idea attuale è di procedere per step lunghi che facciano maturare i tempi, sia all’interno degli Stati Uniti (considerando anche l’eventuale scossone delle elezioni di medio termine) che all’esterno, esercitando una forza persuasiva verso la triade Arabia Saudita-Emirati Arabi-Israele che mai gradirebbe la distensione con Teheran. È forse in quest’ottica che possiamo spiegare anche l’attacco missilistico statunitense a una base di milizie sciite sostenute dall’Iran in Siria il 25 febbraio, il primo dell’era Biden: una rassicurazione alle regine mediorientali sull’intenzione americana di garantire comunque la loro difesa, e al contempo un segnale deciso verso Teheran, che non deve illudersi di una svolta wilsoniana della politica estera degli Stati Uniti.

Le difficoltà iraniane

Dal canto suo, il governo iraniano conosce bene la data fatidica del 2023. Ma al di là della partita a scacchi con gli Stati Uniti, deve tener conto delle grandi pressioni interne alla società iraniana. Dal maggio 2015 al febbraio di quest’anno, il malcontento del popolo è andato via via crescendo: se sei anni fa il 54% degli intervistati sostenevano che il Paese si trovi in pessime condizioni economiche, oggi quella percentuale è pari al 74% (Fonte: University of Maryland CISSM).

La maggior parte degli iraniani, inoltre, non sembra incolpare le sanzioni per questa condizione endemica bensì il governo della repubblica islamica, reo della miseria economica della nazione e di una cattiva gestione della pandemia: proprio nelle ultime ore, infatti, con l’Iran al culmine della quarta ondata di coronavirus, il ministro della Salute del Paese ha avvertito che “sono in arrivo giorni difficili”.

Longer and stronger” ?

Se la clausola del transition day è un deterrente tecnico ad un accordo rapido, vi è un caleidoscopio di altre vicende che potrebbero indurre Biden a spalmare i tempi dei negoziati per raggiungere un accordo “longer and stronger”, come ribadito da gennaio in poi. Fuori dal proprio cortile, l’amministrazione Biden è ancora “sotto esame” da parte sia dei suoi partner europei che asiatici che devono decidere che linea seguire con la nuova amministrazione; vi è poi anche l’atteggiamento complesso del mondo della finanza e del commercio, che seguono questo tit-for-tat infinito: di fronte ad un panorama in continua evoluzione, aziende e gruppi faticano a fidarsi di Teheran restando diffidenti; un atteggiamento che spinge l’Iran a fare poche concessioni.

E mentre Biden seguita a fare il temporeggiatore una domanda sorge spontanea: nel dialogo con l’Iran ha ancora senso iniziare a negoziare direttamente dall’accordo sul nucleare?

di Francesca Salvatore per  https://it.insideover.com