capture 006 14042021 155724"Articolo Uno" più che il nome di un partito sembra essere l'esito di un sondaggio politico. Nomen omen: Articolo Uno per cento. Da tempo gli smacchiatori di giaguari non si schiodano più dalla colonna destra dei sondaggi, dedicata ai movimenti con pochi elettori, eppure per una sorta di maledetta congiunzione astrale si trovano tra le mani il più importante dei ministeri del governo Draghi. Magie della politica: alla guida del dicastero della Salute, croce e delizia degli italiani in pandemia, c’è ancora lui, il sornione Roberto Speranza, bravo ragazzo con l’indole da anzianotto, volto pulito di una politica (di carriera) vecchio stampo che purtroppo non sempre riesce a produrre i migliori amministratori. Come in questo caso.

Classe 1979, potentino, cravatte noiose e capelli da monaco, Speranza di sé dice di essere un uomo che ama “abbattere” muri o almeno “scavalcarli”. Cosa significhi, non è chiarissimo. Ma quello che il ministro della Salute è riuscito a scalare con indiscutibile rapidità è il cursus honorum della politica nostrana. Ragazzino di liceo quando si combattevano battaglie a prescindere contro Berlusconi, diventa segretario Regionale e Presidente Nazionale della Sinistra Giovanile del Pds prima e dei Ds poi. Del movimento guidato negli anni anche da Nicola Zingaretti Gianni Cuperlo, giusto per dare un’idea dell’imprinting culturale, Speranza viene eletto l’ultimo presidente prima della nascita del Partito Democratico. Ed è proprio la nuova creatura di Veltroni a trasformarsi nella vera rampa di lancio per il roseo futuro politico di Roberto: assessore a Potenza, membro della costituente del Pd, segretario regionale finché, ad appena 33 anni, Pier Luigi Bersani gli cambia del tutto la vita.

 

Nel 2012 infatti lo chiama a coordinare la campagna nazionale per le primarie del centrosinistra e l'anno dopo lo "nomina" capogruppo alla Camera. Sono gli anni in cui a sinistra si affaccia pure Matteo Renzi, praticamente l’alter ego di Speranza, due personalità agli antipodi benché vicini per carta di identità. Istrionico il primo, pacato il secondo. Rottamatore Matteo, fedele alla “Ditta” Roberto. Il democristiano versus il post-comunista. Il carismatico contro il burocrate. Le loro strade si incrociano quando Speranza e la sinistra Pd tradiscono Letta invitando Renzi a salire a Palazzo Chigi. Amore di breve durata. Pochi mesi dopo l'idillio politico si sfalda e la rottura diventa insanabile, a partire dal voto contrario di Roberto al referendum costituzionale renziano. “Non sono una primadonna”, disse nel 2016 Speranza candidandosi alla segreteria del Pd proprio contro Matteo. Ed è vero. C’è un aneddoto che dipinge meglio di ogni altra cosa l’effetto che fa questo prodotto della “Ditta” su chi lo osserva. Nel 2013 le delegazioni di Pd e Forza Italia si incrociano al Quirinale in occasione delle consultazioni per la formazione del governo. Bersani presenta il “giovane capogruppo” dem al nemico di sempre, Silvio Berlusconi, il “grande avversario del movimento giovanile della sinistra”. Il Cav guarda Speranza “con curiosità”, poi esclama: “Lei ha una faccia così pulita, da bravo ragazzo, ma che ci fa con questi comunisti?”.

Ecco. In realtà di quei “vecchi” comunisti, o del loro modo di fare politica, Speranza è il prototipo perfetto. Uomo di partito, mai una parola fuori posto, schivo al punto giusto, buono per ogni tipo di ruolo il leader gli chieda di occupare. Non gode di slanci particolari, dimostra poca verve, la capacità di scaldare le masse è prossima allo zero. A parte le dimissioni da capogruppo nel 2015 (in dissenso - guarda caso - con le scelte del premier Renzi) e la successiva fondazione di Articolo 1, Speranza forse non avrebbe lasciato grandi ricordi di sé nell’almanacco della politica se non fosse stato per Sars-CoV-2. A viale Lungotevere Ripa infatti ci arriva per mancanza di alternative, diciamo per occupare una casella lasciata libera nel traballante scacchiere del Conte II e assegnata a uno dei più piccoli dei partiti della nuova coalizione. Ed è qui che gli italiani imparano a conoscerlo.

Nella prima ondata veste i panni del fantasma. Se ne sta nascosto, parla poco, non va molto in tv e scarica ogni responsabilità comunicativa su Conte che infatti ci rimette la faccia. Speranza intanto instaura un buon rapporto con le Regioni (pure quelle leghiste), dialoga con gli scienziati, sembra aver fatto la scelta giusta: mentre gli altri brancolano nel buio e alternano richieste di aperture con decreti di chiusura, lui resta in disparte. Faccio mea culpa: ad aprile dello scorso anno lo giudicai il migliore dei ministri in quelle tragiche fasi, ma la sua prudenza nascondeva un segreto inconfessabile. O meglio, un “piano segreto”.

Uno tra i pochi a conoscere i numeri del contagio calcolati dai matematici, infatti, Speranza può facilmente vantarsi di essere stato l’unico, dopo le prime zone rosse di Codogno e Vo’, a non chiedere subito le riaperture. "Grazie al c...", direbbe qualcuno. Il suo istinto rigorista e la linea della “prudenza” non erano infatti il frutto di un sopraffino fiuto politico: poche ore prima il Cts gli aveva presentato proiezioni catastrofiche che lui si era guardato bene dal rendere di dominio pubblico. Paura di scatenare il panico? Forse. Decisione del Cts? Chissà. Quel che è certo è che il vertice politico del ministero della Salute, deputato ad avere la responsabilità su cosa dire e cosa celare, ha preferito non gettare in pasto all’opinione pubblica le previsioni di Merler&co. Anzi. Il 27 febbraio Speranza è andato in Parlamento a rassicurare tutti che “nella stragrande maggioranza dei casi” il virus “comporta sintomi molto lievi” e “si guarisce rapidamente e spontaneamente nell’80% dei casi”. Ed è vero, per carità. Ma sentirselo dire da chi oggi detta i tempi delle chiusure a oltranza fa un certo effetto. Soprattutto se si pensa alle allarmanti informazioni contenute nel “Piano” che solo lui e pochi altri avevano avuto l’onore di leggere.

Molti oggi gli imputano questi silenzi, ma lui non fa un frizzo. Di interviste continua a rilasciarne poche, si espone il meno possibile, parla solo quando costretto. E così gli scandali sulla gestione della pandemia, benché in parte lo riguardino, alla fine non ne hanno ancora scalfito davvero l’immagine politica. Non è servita la bufera sul piano pandemico inspiegabilmente lasciato in un cassetto. Non sono bastate le querelle sul report dell’Oms ritirato dal sito, le rivelazioni sull’Organizzazione usata come “foglia di fico” del governo o i tentennamenti sulla zona rossa in Val Seriana. I suoi fan ricordano che fu lui a chiudere per primo i voli dalla Cina, dimenticando però che non si occupò di fare lo stesso con gli scali intermedi. Non hanno avuto eccessivo effetto neppure i pronunciamenti del Tar sul piano segreto o lo scivolone di scrivere un libro ottimista (“Perché guariremo”) mentre il virus si apprestava a ri-esplodere. Speranza alla fine è ancora là: per un inspiegabile desiderio di continuità politica, Draghi lo ha confermato alla Salute. E lui da diversi mesi a questa parte non fa che interpretare un ruolo tutto sommato semplice, quello che più gli si addice: cavalcare la prudenza, sempre e comunque, restando il più possibile in disparte. Poco importa se l’economia arranca, se i cittadini sono esasperati, se le nuove regole appaiono ormai più incomprensibili: la mano di Speranza affoga le speranze di ripartenza del Paese. Dall’alto dell’1% di Articolo 1, determina le sorti dell’Italia nonostante tutto. Nonostante lui stesso dicesse: il virus “nella stragrande maggioranza dei casi comporta sintomi molto lievi”.

di  per www.ilgiornale.it