capture 019 28062021 100110Dopo anni di staticità, grazie al recente cambio nell’amministrazione statunitense e ad un’Europa ora disposta ad ascoltare, può finalmente prendere forma l’idea del Giappone di una strategia di investimento in infrastrutture per rispondere a quella elaborata dalla Cina. Tuttavia c’è ancora molto lavoro da fare, e vari Paesi asiatici rimangono scettici all’idea di schierarsi dal lato opposto a quello cinese.

Durante la visita di questo giugno in Europa da parte del presidente degli Stati Uniti Joe Biden — dal G7, alla Nato, all’Unione europea — in mezzo al turbinio di dichiarazioni per cui la Cina sarebbe un avversario di cui preoccuparsi, una di queste frasi di Stati Uniti ed Europa ha catturato l’attenzione di una Cina in ascolto.

“Vogliamo lavorare insieme ai nostri partner per un Indo-Pacifico libero ed aperto”. Così recita la dichiarazione, e non è un caso che abbia menzionato proprio il nome della strategia sviluppata dal Giappone e dagli Stati Uniti come risposta occidentale alla Belt and Road Initiative cinese. Che i leader europei abbiano scelto di utilizzare tali parole è di estrema importanza, poiché l’Europa si era rivelata finora scettica di fronte al piano di Tokyo. Può essere che il presidente Joe Biden sia riuscito a mettere d’accordo l’Occidente sul Free and Open Indo-Pacific come risposta alla Bri?

 

L’idea del FOIP fu annunciata per la prima volta dal Giappone nel 2016, tre anni dopo che il leader cinese Xi Jinping ebbe annunciato la Bri durante una visita ufficiale in Kazakistan. La Bri si ispira alla Via della Seta, una rete di tratte commerciali attraverso l’Asia centrale che univano l’Europa e la Cina dal II secolo avanti Cristo fino al XVIII secolo. E la Bri mira proprio a riesumare quegli stessi antichi percorsi via terra, e nel frattempo anche a creare una nuova “via della seta marittima del XXI secolo” attraverso il sud-est asiatico, l’Asia meridionale, il Medio Oriente e l’Africa. Sin da quando venne annunciato per la prima volta, il progetto divenne un caposaldo della politica estera di Xi Jinping, al punto da essere sancito nel 2017 all’interno della costituzione cinese.

Gli Stati Uniti ed il Giappone hanno seguito questa iniziativa con forte sospetto, ritenendola un tentativo cinese di stabilire controllo economico sui paesi vicini, specialmente nel sud-est asiatico, nonché di espandere le proprie attività militari. Temono “bombe di debito” per cui la Cina presti denaro ad appetitosi tassi di interesse per progetti di infrastrutture a paesi in via di sviluppo, per poi prendere il controllo del progetto nel momento in cui il paese non può ritornare il prestito. Questo è già accaduto in Sri Lanka, dove il porto di Hambantota passò sotto controllo cinese dopo che il paese non era stato in grado di saldare il proprio debito per un accordo di prestito della durata di 99 anni.

Si teme inoltre che un destino simile tocchi anche ad altri progetti della Belt and Road, tra i quali una ferrovia ad alta velocità di 420 chilometri che unisce la città cinese di Kunming con Vientiane, la capitale del Laos. I costi di costruzione stimati ruotano intorno ai 5,8 miliardi di dollari, ovvero circa la metà del Pil laotiano, e per cui il governo locale si sta indebitando dei 4/5 di tale somma.

Ci si domanda con sospetto anche se la Cina stia modernizzando dei porti con l’intenzione di acquisire poi i diritti esclusivi ad utilizzarli e trasformarli in basi navali per l’Esercito Popolare di Liberazione. Tali sospetti sono particolarmente diffusi per i porti di Gwandar in Pakistan, Hambantota in Sri Lanka, Vanuatu nel Pacifico meridionale e Koh Kong in Cambogia. Le voci sulla costruzione di un canale attraverso la porzione tailandese della penisola malese, che permetterebbe alle navi cinesi di bypassare lo stretto di Malacca, hanno poi destato non poco scompiglio a Washington.

Il Giappone non convince

Il Foip è rimasto immobile ed immutato dal momento in cui l’idea fu avanzata dall’ex primo ministro giapponese Shinzo Abe nel 2016, e la maggiore sfida finora è stata quella di riuscire a carpire l’interesse degli Stati Uniti. Sebbene il presidente Trump avesse minacciato più volte di ricorrere ad azioni militari contro la Cina durante le sue visite ai leader asiatici, e fosse teoricamente anche d’accordo con il Foip, la sua amministrazione non intraprese però alcuna azione concreta in merito. Dal canto suo, il Giappone sembrò togliere il piede dall’acceleratore in vista del prossimo cambio della presidenza statunitense, forse affinché il progetto non venisse associato alla volatile amministrazione Trump.

Le parole belligeranti di Trump nei confronti della Cina, alle quali seguirono poi ben pochi fatti, sembrarono tuttalpiù rendere i paesi del sud-est asiatico ancora più restii ad entrare a fare parte del Foip. Nel 2018, un sondaggio svolto dall’ISEAS – Istituto Yusof Ishak di Singapore e rivolto ad importanti figure governative, accademiche, commerciali e media del sud-est asiatico, rivelò come oltre la metà degli intervistati ritenesse che la potenza e l’influenza americana fossero “deteriorate” durante l’amministrazione Trump. Oltre il 30% dichiarò di non nutrire alcuna fiducia o soltanto minimamente verso Stati Uniti come partner strategico e garante di sicurezza nella regione.

Mentre sul Foip si accumulava la polvere, nel frattempo emersero altre idee per contrastare la Belt and Road. Nel 2019 gli Stati Uniti, il Giappone e l’Australia lanciarono insieme il “Blue Dot Network”, ideato per fornire valutazioni e certificazioni per trasparenza finanziaria, sostenibilità ambientale ed impatto sullo sviluppo economico di progetti infrastrutturali in tutto il mondo, con l’obiettivo di mobilitare capitale privato in alternativa al debito cinese. Ma si tratta di un’idea molto meno ambiziosa del Foip.

L’appoggio di Biden

Quando Biden sconfisse Trump alle elezioni americane del novembre 2020, il primo ministro giapponese Yoshihide Suga — che aveva ereditato il Foip dal suo predecessore — si prefisse di dare nuova vita al progetto e di convincere l’amministrazione Biden del suo valore. Dopo la loro prima telefonata il 28 gennaio, i due leader pubblicarono una dichiarazione congiunta per cui avrebbero “lavorato fianco a fianco per fare fronte alle sfide della regione e creare un Indo-Pacifico libero e aperto”. Parole di sollievo per il Giappone, dove gli ufficiali governativi temevano che durante le comunicazioni con il team di transizione di Biden questi potessero erroneamente interpretare che si trattasse di un’idea della precedente amministrazione Trump. I giapponesi ci tenevano infatti a precisare che si trattava di una loro idea concepita alla fine dell’amministrazione Obama.

Da allora sembra che il team di Biden abbia accolto l’idea. Il Foip è stato nuovamente menzionato a marzo, durante l’incontro del “Quad”, in cui i quattro paesi — Giappone, Australia, India e Stati Uniti — hanno dichiarato l’impegno comune a “favorire un ordine libero, aperto e fondato su delle regole, con le proprie radici nel diritto internazionale per promuovere la sicurezza e la prosperità e rispondere alle minacce sia nell’Indo-Pacifico che oltre”.

Il fatto che ora Biden stia promuovendo l’idea anche in Europa, e che abbia utilizzato certe parole nella conclusione di un summit in cui il Giappone non c’entrava affatto, ha ovviamente deliziato Tokyo. La domanda è, ora che il Foip ha di nuovo il suo momentum in Occidente, a quali risultati può davvero puntare?

È chiaro che c’è molto lavoro in arretrato da portare a termine prima di arrivare a rappresentare una vera e propria minaccia per la Belt and Road, non solo in termini di investimenti ma anche di fiducia. Il cavallo di battaglia del Foip è che, a differenza della Bri, dovrebbe fornire investimenti per infrastrutture senza esercitare alcun controllo politico: libero scambio e miglioramento delle infrastrutture andranno a braccetto con la garanzia di mantenere l’ordine regionale e la libertà di navigazione. In altre parole, il Foip è compatibile con il mondo in cui viviamo oggi e non richiede un mutamento geopolitico a favore della Cina.

Il problema è che finora i paesi del sud-est asiatico non hanno visto il Foip da questa prospettiva. L’Asean, l’ente che li rappresenta, ha più volte sottolineato che il suo principale obiettivo geopolitico è “l’equilibrio”. Ciò significa che non vogliono essere costretti a dover scegliere tra Stati Uniti e Cina. Singapore, il paese più sviluppato della regione, si è dimostrato particolarmente scettico verso il Foip, accogliendo invece con entusiasmo le opportunità di business offerte dalla Belt and Road. Anche l’amministrazione Duterte nelle Filippine si è mostrata a favore della Bri.

Ma l’entusiasmo per la Bri varia di paese in paese. Il Vietnam, a causa di dispute territoriali con Pechino nel Mar Cinese Meridionale, si è mostrato decisamente restio ad aumentare la propria dipendenza economica dalla Cina, rivolgendo lo sguardo piuttosto verso il Giappone. Anche Brunei e Cambogia sembrerebbero più a favore del Foip.

Shoji Tomotaka, direttore della divisione Asia e Africa dell’Istituto Nazionale per gli Studi di Difesa in Giappone, ritiene che al momento l’Asean veda il Foip troppo esplicitamente conflittuale. Nel 2018 il gruppo di nazioni presentò la propria contro-strategia “Indo-Pacific Cooperation”, che Tomotaka crede stia cercando di attrarre il Foip verso una posizione più neutrale. Il primo ministro di Singapore Lee Hsien Loong, presidente dell’Asean al momento dell’adozione della strategia, espresse questo desiderio quando dichiarò: “Non vogliamo finire con la formazione di blocchi contrapposti e paesi che devono scegliere da che lato stare”. Ha poi aggiunto che spera di assistere ad una trasformazione del Foip che tenga in considerazione le preoccupazioni dell’Asean.

Come può il Foip del Giappone competere con la BRI della Cina senza essere in aperto conflitto con Pechino? Questo è il rompicapo che i governi giapponesi ed americani devono risolvere se intendono portare avanti l’iniziativa nel 2021. Ciò che risulta chiaro è che, finora, l’Indo-Pacifico non sta credendo alle favole raccontate da Tokyo e Washington.

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