italiano nei tempi giustiGran parte degli stranieri sono incompatibili e non integrabili. Eppure il fronte politico catto-comunista vuole accordargli la cittadinanza facile. A nch'io sono stato un immigrato. Nel 1972 arrivai a Roma con un aereo dell'Alitalia, con il passaporto egiziano e un regolare visto d'ingresso, grazie a una borsa di studio concessami dal governo italiano per aver conseguito la maturità scientifica italiana con il punteggio più alto presso l'Istituto Salesiano «Don Bosco» al Cairo. All'epoca erano sufficienti cinque anni di residenza per richiedere la cittadinanza. Avevo i requisiti per acquisirla: conoscevo bene lingua e cultura italiana, condividevo la civiltà italiana, ero autosufficiente economicamente. Era un'Italia radicalmente diversa, migliore da tutti i punti di vista. C'erano in tutto circa 130mila stranieri che solo vent'anni dopo li si indicò come «extracomunitari».

Eravamo perlopiù studenti di buona cultura che non creavamo alcun problema sul piano sociale, economico e della sicurezza. La parola «immigrato» non esisteva nel lessico politico, semplicemente perché noi stranieri non eravamo e non venivamo percepiti come diversi dai cittadini italiani.

Non è un caso che solo 14 anni dopo, nel 1986, chiesi e ottenni la cittadinanza italiana per potermi iscrivere all'Ordine dei giornalisti e sanare una situazione che da oltre dieci anni mi vedeva scrivere sulla stampa italiana come «collaboratore», con un trattamento economico inadeguato a fronteggiare le necessità della mia famiglia.

Ebbene, mentre quando gli stranieri erano pienamente compatibili con le leggi, le regole e i valori italiani non sentivano la necessità di acquisire la cittadinanza italiana, paradossalmente oggi che gran parte di loro sono incompatibili e non integrabili, il fronte politico catto-comunista vuole accordare la cittadinanza facile e celere.

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