Parlavamo tutti di perestroika (ricostruzione) e glasnost (trasparenza), parafrasando Gorbaciov. Platini si ritirò brindando con prosecco (tiepido). Cicciolina diventò onorevole. E in copertina, comunque, c’era sempre Madonna. Se nel 1987 (quando nacque 7) un’équipe di antropologi fosse venuta da Marte a studiare gli usi e costumi dei terrestri, avrebbe concluso che gli italiani erano dei maniaci sessuali. Frotte di compatrioti, infatti, si assiepavano davanti al palazzo del Parlamento a Roma richiamati dalla pornodiva Ilona Staller, in arte Cicciolina, che mostrava le tette ai paparazzi prima di andare a esercitare le sue funzioni di onorevole (eletta con ventimila preferenze, seconda nella lista dei radicali subito dietro il suo mentore Marco Pannella).

 

Io, all’epoca, non ero tra la folla vociante di fronte alla Camera dei deputati («A’ Cicciolì, e facce vedé le zinne pure a nnoi!»), ma ero un giornalista felice e sconosciuto che lavorava all’altro capo del corridoio dove nasceva 7. Il mio direttore del tempo (Lanfranco Vaccari all’Europeo) mi chiamava nella sua stanza e mi diceva: «Per il prossimo numero fammi una “perestroika” su Eugenio Scalfari». Oppure: «Mi scrivi una “glasnost” sul nuovo libro di Eco?».

Le parole d’ordine di Mikhail Gorbaciov, l’uomo che stava sciogliendo il ghiacciaio sovietico, erano entrate a far parte, mutate di senso, del lessico familiare dell’Europeo. Era un gioco, ma fa capire quanto il vocabolario delle riforme di Gorby fosse penetrato nell’esistenza quotidiana. Tutti capivamo di stare vivendo in diretta un cambiamento storico e ci domandavamo cosa ci aspettasse. Quello che Reagan, il Presidente americano, aveva chiamato l’Impero del Male stava davvero chiudendo i battenti? La Guerra Fredda stava per finire? Se lo chiedeva anche lo scrittore John le Carré, che di quel conflitto era stato l’Omero, e ora correva il rischio di restare disoccupato mentre, non credendo ai suoi occhi, leggeva e rileggeva la notizia di tale Mathias Rust, un giovanotto tedesco, apparentemente senza arte né parte, il quale, a bordo di un piccolo aereo da turismo, il Cessna 172, era atterrato, sfuggendo ai radar e ai Mig, sulla Piazza Rossa di Mosca alle sette di sera del 28 maggio 1987. La realtà, meditava le Carré, aveva superato la fantasia: un aviatore amatoriale di 19 anni non ancora compiuti era riuscito nell’impresa che le scafate spie dei suoi romanzi non avevano nemmeno osato immaginare.

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Una novità assoluta venne dal mondo del calcio. Il Napoli di Maradona vinse il primo scudetto della sua storia (vuoi vedere che trent’anni dopo... mister Sarri, si tocchi pure per scaramanzia). I tifosi impazziti e vogliosi di condivisione (in anticipo su Facebook) scrissero sul muro del cimitero di Poggioreale rivolgendosi ai morti ivi sepolti: ««Guagliù che vi site persi». Michel Platini abbandonò il calcio giocato. Ma non fu una cerimonia degli addii intensa e solenne in stile Francesco Totti 2017. Il fuoriclasse della Juve giocò l’ultima partita al Comunale sotto la pioggia (3 a 2 contro il Brescia, ma Le Roi restò a secco). Poi Michel rientrò negli spogliatoi. Le cronache del tempo raccontano un saluto mesto ai compagni di tante vittorie: si brindò in clima dopolavoro con prosecco tiepido in bicchieri di plastica. E il tanto celebrato stile Agnelli? Avvocato, almeno una magnum del suo prediletto Philipponnat il grande campione francese forse se la meritava.

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dall'articolo  di Antonio D’Orrico  per corriere.it/sette

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