murales parigi gillet gialliIl dibattito in Francia è molto più articolato e profondo delle analisi semplicistiche che sono circolate fuori. In questi mesi sono circolate molte analisi intorno alle rivendicazioni del movimento francese dei “gilet gialli”: alla loro organizzazione, al loro rapporto con i partiti, alla loro leadership o alla sua assenza e alle loro pratiche politiche conflittuali, in molte occasioni anche violente. In alcuni casi – soprattutto fuori dalla Francia – sono state analisi semplificatrici e caricaturali: sbilanciate solo su alcuni aspetti del movimento, per quanto rilevanti, e che ne trascuravano la complessità. In Francia, invece, il fenomeno è stato raccontato, analizzato e anche criticato in modo decisamente più articolato.

 La prefazione di un libro da poco pubblicato in Francia, che si intitola “La Victoire des vaincus” (“La vittoria dei vinti”, edizioni La Découverte) e che è stato scritto da Edwy Plenel, giornalista e presidente di Mediapart, comincia così: «La rivolta dei gilet gialli è un evento puro: inedito, creativo e incontrollabile. Come ogni insorgere spontaneo del popolo supera le organizzazioni già insediate, scuote i commentatori di professione, sconvolge i governanti al potere. Come ogni lotta sociale collettiva, si inventa giorno per giorno in una creazione politica che non ha un’agenda prestabilita e dove l’auto-organizzazione è l’unica misura del gioco». Lo sforzo che va fatto, si dice nel libro, è capire prima di giudicare.

...................

Ma mentre afferma che il tipo di società a cui aspira non possa essere creato «da ragazzi con le spranghe di ferro», la giornalista trova le condanne unanimi della violenza compiuta dai gilet gialli in qualche modo paradossali. Non perché in generale non si debba condannare la violenza, ma perché è necessario avere un minimo di coerenza. Il romanzo nazionale francese (ma vale anche per molti altri posti) parla di uno stato che è stato costruito sulla rivoluzione, sulle insurrezioni popolari, sulle immagini delle teste tagliate dalla ghigliottina che si vedono sui libri di scuola, sulla marsigliese, cioè sul fatto che la Francia nasca dal sangue e dalle barricate contro l’ingiustizia. Tutto questo per poi dire che nessuna ingiustizia presente giustifica l’uso della violenza? «Allo stesso tempo, poi, ci viene detto che l’uso della violenza da parte della polizia contro delle e dei liceali sarebbe normale: è il mondo alla rovescia. Non possiamo dire che il 1789 è stato meraviglioso e spaccare la mascella di un ragazzo a colpi di flash-ball perché avrebbe incendiato un bidone della spazzatura».

Altri ancora si sono spinti più in là di Lecoq: come è possibile, si sono chiesti, pretendere la normalizzazione del dissenso? Com’è possibile, soprattutto in alcuni momenti storici, invocare il contratto sociale come qualcosa di mitico?

Si ripete sempre, come in una specie di comandamento, che l’ordinamento democratico escluda e neutralizzi la violenza e che il moderno contratto sociale si basi sulla cessione della violenza e della forza dei singoli al monopolio statale in nome di una pacifica convivenza. E quando – ammesso che sia questo il caso, ma di questo si dovrebbe discutere – in nome di quel contratto sociale vengono commesse ingiustizie costanti, radicali e profonde? Il tacito ritiro del proprio consenso al contratto sociale può essere un esito possibile, e mette in discussione la banalizzazione della retorica sulla non violenza o la condanna (a volte strumentale) del conflitto quando si presenta, come se nascesse improvviso e imprevisto.

.....................

dall'articolo di IlPost.it

foto: Un murale dello street artist PBOY, Parigi, 10 febbraio 2019 (AP Photo/Christophe Ena)

Aggiungi commento


Codice di sicurezza
Aggiorna