Le stragi partigiane del dopoguerra in ItaliaAlcuni storici che si sono occupati del fenomeno della guerra civile in Italia hanno preso in considerazione anche i fenomeni di violenze postbelliche, collocando il termine della guerra civile oltre la fine ufficiale della Seconda guerra mondiale in Europa. Pertanto, per costoro, non è facile identificare una vera e propria data finale del fenomeno, che tende a sfumare con il diradarsi delle violenze. Alcuni hanno proposto come data finale della guerra civile l’amnistia Togliatti del 22 giugno 1946. Immediatamente dopo che le forze della Resistenza partigiana riuscirono ad assumere il potere nelle città del nord, vennero istituiti tribunali improvvisati che, sulla base di giudizi sommari, comminarono condanne capitali ai fascisti catturati.

Nei due mesi successivi all’insurrezione un numero notevole di persone fu sottoposto a processi popolari e giustiziato, a volte anche senza processo, per aver militato nella RSI, aver manifestato simpatie fasciste o aver collaborato con le autorità tedesche. Gli atti di giustizia sommaria nei confronti di fascisti e collaborazionisti, compiuti nei giorni immediatamente successivi al termine della guerra, furono localmente tollerati dai comandi alleati:

« Fate pulizia per due, tre giorni, ma al terzo giorno non voglio più vedere morti per le strade » (Colonnello inglese John Melior Stevens al CLN piemontese)

Le esecuzioni degli esponenti della Repubblica di Salò avvennero in fretta e con procedimenti sommari anche perché – constatato il mancato rinnovamento dei quadri del vecchio regime nell’Italia regia – i capi partigiani temevano che il passaggio definitivo dei poteri agli angloamericani ed il ritorno alla “legalità borghese” avrebbero impedito un’epurazione radicale. Questa volontà di accelerare i tempi trova testimonianza in una lettera in cui l’azionista Giorgio Agosti scrive al compagno di partito Dante Livio Bianco, comandante delle formazioni Giustizia e Libertà, che «occorre… prima dell’arrivo alleato, una San Bartolomeo di repubblichini che gli tolga la voglia di ricominciare per un bel numero di anni».

Le condanne a morte per collaborazionismo in alcuni casi colpirono anche persone innocenti accusate senza prove, come nei casi degli attori Elio Marcuzzo (di fede antifascista) e Luisa Ferida. Nel clima di violenza insurrezionale si verificarono anche omicidi legati a fatti privati. Tra le vittime figurano infatti non solo personalità legate al PFR, appartenenti ai reparti armati della RSI (Brigate Nere, GNR, SS italiane,… ), delatori e collaborazionisti, ma anche funzionari e dipendenti pubblici, sacerdoti, appartenenti alla borghesia contrari al comunismo, semplici cittadini e addirittura aderenti alle organizzazioni partigiane (ad esempio Giorgio Morelli), vittime sia di radicali propugnatori della lotta di classe, ma anche di sconsiderati approfittatori e comuni criminali, che sfruttarono il momento di confusione per perseguire i propri scopi

. Il 24 giugno 1945, Ferruccio Parri stigmatizzò duramente questi episodi nel corso del primo radiomessaggio agli italiani tenuto dopo la sua nomina a capo del governo:

« Ed ancora una parola per gli atti arbitrari di giustizia, quando non sono di vendetta, e per le esecuzioni illegali che turbano alcune città del Nord, ci compromettono con gli alleati ed offendono soprattutto il nostro spirito di giustizia. È un invito preciso che io vi formulo. Basta: e siano i partigiani autentici, diffamati da questi turbolenti venuti fuori dopo la vittoria, siano essi a cooperare per la difesa della legalità che la nostra stessa rivoluzione si è data. »

Sulle dimensioni effettive delle violenze postbelliche si è sollevata un’aspra polemica in Italia fin dal dopoguerra. I due estremi parlano di 1.732 morti, secondo l’allora ministro Mario Scelba, e di trecentomila morti, secondo diverse fonti neofasciste. Studi scientifici più accurati e testimonianze hanno evidenziato cifre intermedie:

Guido Crainz, in base ad un’analisi delle varie fonti, tra cui i rapporti della polizia del 1946, indica come realistica la cifra di 9.364 uccisi o scomparsi “per cause politiche”, aggiungendo poi – tuttavia – un lungo elenco di violenze ed uccisioni a carattere di vera e propria jacquerie, secondo l’autore solo debolmente collegate ai fatti della guerra civile, ma piuttosto legate ad una lunga tradizione di scontri sociali e di «durezza estrema, settaria», risalenti addirittura al secolo precedente, o al ritorno ad una ferocia ancestrale;

Secondo lo studioso tedesco Hans Woller dell’Università di Monaco, le vittime furono 12.060 nel 1945 e 6.027 nel 1946;

In un articolo pubblicato nel 1997, il giornalista Silvio Bertoldi asserì di aver saputo da Ferruccio Parri (durante un colloquio con quest’ultimo avvenuto in epoca imprecisata) che le vittime fossero state circa 30.000;

Il reduce della RSI Giorgio Pisanò giunse a stimare il numero dei morti fascisti, o presunti tali, in 48.000, comprendendo però nel computo anche le vittime dei massacri delle foibe in Istria e Dalmazia.

Il 24 giugno 1952, durante una discussione parlamentare relativa alla legge n. 645/52 (la quale, molti anni dopo, fu modificata dall’attuale Legge Mancino), l’onorevole Guglielmo Giannini rivelò di essere stato lui stesso, tramite il proprio giornale, a diffondere quella che egli definì «menzogna bene architettata» secondo cui i morti fascisti sarebbero stati trecentomila:

« Fui io a diffondere la notizia dei 300 mila morti. Avevo lo stesso giornale che ho adesso (…) E diffusi la notizia di questi 300 mila morti, – fascisti o presunti tali-, con tutti gli effetti politici che una notizia di tale gravità poteva comportare (…). Questo può suggerire ironiche considerazioni sulla fortuna dei giornali che fino a quando pubblicano panzane trovano lettori a centinaia di migliaia e quando pubblicano invece la verità vedono calare il numero dei loro lettori » (Guglielmo Giannini)

Nel libro “Il triangolo della morte” gli autori Giorgio Pisanò e Paolo Pisanò riportano l’elenco nominativo di circa 4.500 vittime della frenesia giustizialista scatenatasi alla caduta del regime nazi-fascista nell’area compresa tra Bologna, Ferrara e Modena.

Ma anche Torino (1.138), Cuneo (426), Genova (569), Savona (311), Imperia (274), Milano (610), Bergamo (247), Piacenza (250), Parma (206), Treviso (630), Udine (391), Asti (17), la Toscana (308) e il Lazio (136) ebbero le proprie vittime della cosiddetta resa dei conti.

« Da parecchi giorni le esecuzioni capitali avvengono all’alba, lontano dagli sguardi dei curiosi. […] Nei primi giorni della liberazione dall’odiata espressione fascista repubblicana, il cuore sanguinante di chi era stato colpito negli affetti più cari ha chiesto altro sangue ed ha voluto vederlo scorrere. La cosa era spiegabile. Dopo 48 ore di reazione ho avuta l’impressione che la massa non volesse più il «pubblico spettacolo». […] E’ stato deciso allora che l’esecuzione capitale fosse compiuta lontano dagli occhi della folla » («Gazzetta d’Asti», 4 maggio 1945)

Da un documento del Ministero dell’Interno, non firmato, datato 4 novembre 1946 e che all’epoca non fu reso pubblico, risulta che «il numero delle persone uccise, perché politicamente compromesse, è di n. 8.197 mentre 1.167 sono state, per lo stesso motivo, prelevate e presumibilmente soppresse». Secondo Nazario Sauro Onofri, l’iniziativa di redigere tale statistica venne dall’allora ministro dell’Interno Alcide De Gasperi, il quale però non rese noti i risultati dell’inchiesta e non ne informò neppure gli altri membri del governo; non si conoscono i metodi attraverso cui il Ministero ottenne tali numeri totali.

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dall'articolo di ideadestra.org By  ideadestra  - 

 

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