massimo giannini militante sinistra 300x199Non che sia rimasto sorpreso, questo no, ma certo un filo di inquietudine ha fatto capolino quando ho letto sul Corriere la prima intervista di Massimo Giannini, nuovo conduttore di Ballarò, ventotto infiniti anni passati a Repubblica. Soprattutto quando ha voluto dare i contorni al mestiere: «Credo nella militanza giornalistica e non vi rinuncerò». In certi casi, assalito da un dubbio, affido le mie incertezze al vocabolario, compagno che non tradisce. Alla voce “militanza” dice: «Adesione, partecipazione attiva a un partito, a un’associazione, a un movimento politico, religioso, culturale». Sulla base di una “militanza”, dunque, Giannini poi aggiunge: «Intendo dire come la penso sui vari argomenti. Ma basandomi su dati, fatti, numeri, non su pregiudizi ideologici».

 

Presa per buona la seconda parte del ragionamento, sarebbe difficile se non impossibile costruirci sopra una militanza. Al massimo, da quel brodo ci esce un buon giornalista, sereno, equilibrato, in grado di farsi sorprendere e di sorprendere il lettore. Chi è infatti il giornalista militante? Quello che non sorprenderà mai chi ha ventura di leggerlo con una certa consuetudine, quello che scriverà solo e soltanto quel che il lettore – il suo lettore – è preparato a leggere, secondo quel “contratto” storico che un bel giorno lontano lettore e quotidiano stipularono. Sono proprio quei contratti, a cui la cattiva politica riesce a dare i suoi cattivi contorni, che cristallizzano i rapporti, che creano dipendenza e, dopo la dipendenza, una sottile ma costante e crescente, persino cronica, mancanza di autonomia da parte del lettore. Che si traduce tutti i giorni nel malinconico e burocratico acquisto del tuo quotidiano di riferimento.

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dall'articolo di Michele Fusco per IlFattoQuotidiano.it del 2 Settembre 2014

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