Renato ZeroRenato Zero come non te lo aspetti in un’intervista all’Huffington Post. «Non possiamo continuare – dice l’artista al quotidiano online diretto da Lucia Annunziata –  ad assorbire l’arrivo di persone da altri Paesi non avendo le strutture adeguate per riceverle». Da una parte c’è l’Italia con i suoi problemi e con le sue angosce per il futuro di tanti giovani e di tante famiglie,  dall’altra – dice sempre Zero – c’è «questa Europa che fa tanto la signora, soprattutto, tedeschi e francesi, che però si defilano davanti al problema: perché non si accollano anche loro l’assorbimento di questi flussi migratori di extracomunitari?»

Non te lo aspetti un Renato Zero così politicamente scorretto e antibuonista. In realtà l’artista romano non è mai stato amato dall’establishment culturale della sinistra italiana, fin da quando, sul finire degli anni Settanta, l’improvviso e straordinario successo della sua musica e delle sue canzoni presso gli adolescenti di allora risuonò  come un campanello d’allarme tra gli apparati politici di sinistra e  tra i salotti radical chic, producendo anche fremiti di indignazione fra gli eskimi in redazione. La crescita del popolo dei sorcini era gabellata  come il segno di una sorta di “involuzione” politica, come l’avanzata di un “neoqualunquismo” che teneva lontani i ragazzi dall’«impegno» politico (naturalmente a sinistra, secondo quanto dettava il conformismo di quegli anni). Era inconcepibile, nel tempo in cui impazzavano la “musica ribelle” di Finardi,   le “bombe proletarie” di Guccini, “el pueblo unido” degli Inti Illimani e tutti gli altri insopportabili ritornelli di una colonna sonora generazionale pervasiva e tossica, era inconcepibile che qualcuno cantasse «tempo per piangere, no, non ce n’è/ tutto continua anche senza di te». E che ottenesse anche uno straordinario successo tra una nuova generazione di teen agers che cominciava a non essere più sedotta dagli slogan incendiari di una rivoluzione sempre più improbabile. Non c’era nessun  oscuro disegno di restaurazione capitalista o di controrivoluzione culturale nelle canzoni di Zero. C’era solo la capacità di parlare direttamente al cuore dei ragazzi  delle loro ansie, sogni e aspirazioni con una cifra poetica che non si preoccupava di aderire ai canoni dell’ideologia. Era “impolitico” il Renato Zero degli Anni Settanta, ma non era né disimpegnato né superficiale. Parlava di senso della vita con buon senso comune.

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dall'articolo di secoliditalia.it