C'è un dubbio che mi passa per la testa, in questo cinquantenario dei «fatti» d'Ungheria, nello scoprire quanti dissentirono senza peraltro avere il coraggio di uscire dal Pci. Quanto può avere giocato, nella scelta di restare fedeli a Mosca, il pensiero delle rimesse in dollari che Stalin puntualmente faceva pervenire ai partiti del Cominform? Per non dire delle società import-export di comodo e della imponente organizzazione turistica che giocava sui prezzi politici. A ben vedere si trattava di una pesante tassa, mai deprecata dai beneficiati, che gravava sulle spalle di popoli che facevano la fila per il pane.

Sarà un caso che la folgorazione seguita alla caduta del muro di Berlino, e conseguente svolta della Bolognina, sia avvenuta solo quando fu chiaro a tutti che i quattrini non sarebbero più arrivati?

Renzo Pocaterra  Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Caro Pocaterra, 
sui finanziamenti dell'Urss al Partito comunista italiano conosciamo ormai, se non tutto, parecchio. In un libro del 1993 apparso presso Baldini e Castoldi («L'oro di Mosca»), Gianni Cervetti racconta di essere stato per un certo periodo il procuratore del partito, incaricato di bussare ogni anno alla porta dell'ufficio di un omino magro, taciturno, con la testa pelata e la vivacità espressiva di un busto di marmo (la descrizione è mia) che si chiamava Boris Ponomariov. Cervetti gli rappresentava le esigenze del Pci e, dopo qualche considerazione sull'entità della cifra, incassava un assegno in dollari. La pratica durò sino alla fine degli anni Settanta quando Enrico Berlinguer, allora segretario del partito, decise di mettervi fine. Vi sarebbero stati altri contributi del Pcus (Partito comunista dell'Unione Sovietica) negli anni successivi, ma destinati al «membro della direzione del Partito comunista italiano compagno Cossutta» e sarebbero serviti ad ammonire il Pci che la definitiva rottura con Mosca avrebbe comportato un rischio di scissione. L'informazione su questi ultimi finanziamenti è in un altro libro, «Oro da Mosca» di Valerio Riva, pubblicato da Mondadori qualche anno dopo l'apparizione del libro di Cervetti. Dalle ricerche di Riva negli archivi sovietici sappiamo che la somma complessivamente ricevuta dal Pci dopo la fine della Seconda guerra mondiale ammonterebbe, se calcolata nelle lire degli anni Novanta, a 989 miliardi, vale a dire a un quarto, grosso modo, della somma elargita dall'Urss nello stesso periodo (3.900 miliardi) ai «partiti e alle organizzazioni operaie di sinistra». Riva sostiene altresì che il Pci poté contare, prima e dopo lo «strappo», su altri finanziamenti meno diretti. Sin dagli anni Sessanta, infatti, appare nella documentazione sovietica il termine di «ditta progressista» con cui viene definita, ad esempio, Italturist. Sono ditte che svolgono in alcuni casi un utile lavoro di intermediazione tra la economia italiana e il mercato sovietico. Ma servono altresì per fornire finanziamenti indiretti al gruppo di Cossutta e probabilmente, a giudicare dalla documentazione di Riva, al Pci. Basta che la ditta ottenga dall'Urss un prodotto (petrolio, ad esempio) a prezzo di favore, ed ecco che il maggior profitto consente di dirottare una somma verso l'Italia. Su un punto tuttavia, caro Pocaterra, non sono d'accordo con lei. Non credo che l'oro di Mosca abbia avuto una influenza determinante nei rapporti tra il Pci e l'Urss. Vi fu nel partito italiano e nei suoi militanti una carica di idealità che sarebbe ingiusto sottovalutare. Lo scandalo non fu la venalità del partito, ma il fatto che esso accettasse denaro da una potenza straniera, potenzialmente nemica del nostro Paese, contro la quale governo e Parlamento avevano contratto gli impegni politici e militari della Nato. Quello scandalo divenne nazionale quando la Democrazia cristiana e i suoi alleati accettarono di chiudere un occhio e di considerare il Pci alla stregua di un partito con cui era possibile stabilire accordi per la condivisione del potere. So che fu una decisione realistica, dettata dalla dimensione del fenomeno comunista nella vita politica italiana. Ma fu anche la dimostrazione che il sentimento dell'unità e della coscienza nazionale si era pericolosamente incrinato, e che l'Italia aveva smesso di essere la patria di tutti i suoi cittadini.

da letterealCorriere risposta i Sergio Romano