Nella maggioranza dei casi, si è portati a considerare il razzismo una sorta di ottavo peccato capitale, praticato da persone per lo più rozze, con una scarsa se non nulla conoscenza della storia e del mondo, mosse da un profondo terrore del diverso e barricate all’interno di un perimetro delimitato da ignoranza e stereotipi duri a morire. Questa non è però assimilabile a regola universale, soprattutto se si considerano tutti coloro diorientamento liberal, dotati di un’istruzione universitaria, innegabilmente colti, che – appunto dall’alto di tale “supponenza culturale” – sempre più spesso si lasciano andare a battute razziste. La motivazione principale dietro alle loro freddure risiede nella convinzione si tratti appunto di innocue battute, o, meglio, di battute rese innocue dal retaggio dell’individuo che le pronuncia, che alla luce della sua educazione e del suo intelletto “non può essere preso sul serio”.

In casi come quelli sopracitati, più che di razzismo tout court è opportuno parlare di “razzismo hipster”, cosa di cui è stata per altro ultimamente tacciata anche Lena Dunham. La presa di posizione della creatrice di Girlsnei confronti di Aurora Perrineau, per metà afroamericana e a suo parere rea di appartenere al 3% di donne che muovono accuse di stupro false, ha avuto come effetto – oltre a un’onda di sdegno da parte della stampa di mezzo mondo – anche le dimissioni dal collettivo Lenny Letter della scrittrice e (ormai) ex amica Zinzi Clemmons. La quale ha argomentato i motivi della sua decisione in una specie di “lettera pubblica” su Twitter, divenuta virale, invitando tutte le donne di colore a staccarsi dalla Dunham e ricordando alcuni momenti di quando entrambe frequentavano l’università:

«Avevamo e ancora abbiamo conoscenti in comune. Molti di loro sono come lei: bianchi, ricchi, con genitori influenti nel mondo dell’arte. Al college li evitavo per il loro ben noto razzismo, quello che io definisco razzismo hipster, che tipicamente usa il sarcasmo come copertura e assomiglia molto alla manipolazione mentale. Nel gruppo di Lena c’era una ragazza che usava spesso la parola che inizia con la N per fare l’audace e ogni volta che glielo si faceva notare rispondeva: “È solo uno scherzo!”».

Clemmons mette in luce le due principali peculiarità del razzismo hipster:

  • la prima, come spiegato in un’intervista al Guardianda Rachel Dubrosky, esperta di comunicazione per l’University of South Florida, è la sua leggerezza. Esso costituisce infatti

«una prerogativa dei bianchi, spesso progressisti,con una forte consapevolezza in merito al tema del razzismo. Il che li porta erroneamente a credere di poter dire e fare cose razziste, senza però sentirsi razzisti».

Questa attitudine potrebbe essere sintetizzata come una sorta di auto-esenzione che, in virtù della cultura posseduta e dell’orientamento politico professato, è in grado di convincere chi se ne macchia di non essere davvero razzista.

  • La seconda è che il più delle volte il razzismo hipster è intriso di ironia e sarcasmo, e – classificato dunque come humour da strapazzo – tende a venire assai utilizzato nella comicità attuale.

Gli esempi non mancano, partendo da Tina Fey che lo scorso agosto – durante una puntata del Saturday Night Live a cui era stata invitata per parlare della manifestazione dei suprematisti bianchi a Charlottesville – scivola su una battuta a proposito di Thomas Jefferson e Sally Hemings, la schiava quattordicenne stuprata dall’ex presidente, definendola «quella ragazza sexy con la pelle chiara, vicino alla zangola per fare il burro».

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Anche la comica Amy Schumer si è dovuta difendere da diversi rimproveri causati da battute razziste che avevano come oggetto gli ispanici («In passato ho frequentato ragazzi ispanici, ma ora preferisco i rapporti consensuali»), per le quali si è successivamente scusata, assumendosi comunque piena responsabilità dell’accaduto.

Definirlo un fenomeno recente si rivela errato, dato che già Carmen Van Kerckhove ne parlava su Racialiciouspiù di dieci anni fa, nel tentativo di inquadrare i trend socio-culturali del 2006. Uno di questi era appunto il “razzismo hipster”, una «tendenza che abbiamo già notato nel 2005, all’apice dei Kill Whitey parties». Ciò a cui l’autrice si riferisce erano feste particolarmente in voga nel quartiere di Williamsburg, Brooklyn, che all’epoca stava subendo una rapida gentrificazione: gli hipster che vi partecipavano – WASP, è quasi inutile specificarlo – incalzati dal deejay Tha Pumpsta, si divertivano a emulare e parodiare la cultura black e hip hop con lo scopo di “uccidere il bianco che è in te”, sperando così di scrollarsi di dosso il white privilege e di sfuggire al rigido condizionamento che questo comporta. Van Kerckhove include nelle sue argomentazioni anche Gwen Stefani, criticata dall’attrice e comica coreana Margaret Cho per utilizzare donne asiatiche (le Harajuku Girls) nei suoi video alla stregua di oggetti di scena, obbligandole sul set a parlare solo in giapponese, nonostante fossero americane. Di fronte alle accuse, la popstar reagì in modo piuttosto ingenuo, puntando il dito contro il razzismo altrui: «tutti fanno battute in merito alle ragazze giapponesi e agli stereotipi legati alla loro cultura. Non avrei mai pensato di finire lì in mezzo anche io».

Oggi i Kill Whitey Parties non esistono più, Gwen Stefani ha concluso da tempo il suo progetto con le Harajuku Girls, ma il razzismo hipster pare invece profondamente radicato nella cultura popolare. A tal punto che Noel Ransome ha stilato su Vice una guida, per capire se si appartiene alla categoria dei razzisti hipster, sottolineando la loro tendenza a usare persone o amici di colore come semplici oggetti per apparire più “cool” e ad appropriarsi indebitamente della cultura black per raggiungere determinati scopi o fare bella figura con determinate persone. Tra i vari segnali che vengono presi in considerazione, il più eclatante è rappresentato dal “parlare dei bianchi come se non si fosse bianchi“, che descrive in buona parte tutti coloro che si definiscono progressisti e non perdono un’occasione per elencare e dolersi dei mali che affliggono “la razza bianca” in generale, come se si trattasse di un problema che non li riguarda, sentendosi “liberi di offendere l’oppressore, perché troppo fighi per esserel’oppressore“.

L’altro lato della stessa medaglia è rappresentato dal numero sbalorditivo di persone bianche che si ostinano a non capire che non esiste un modo ironico per dire la N-word se non si è neri. Lo scorso novembre è stato chiesto allo scrittore Ta-Nehisi Coates se fosse giusto che i fan bianchi dell’hip-hop ripetessero le strofe dei rapper neri quando questi la utilizzano nelle loro canzoni. Come egli ha spiegato eloquentemente: no, non lo è. «Se sei bianco in questo Paese ti viene insegnato che tutto appartiene a te», ha aggiunto, «pensi di avere il diritto su tutto». In tal senso, ci si illude che un individuo di orientamento liberal – per di più con amici neri – abbia piena facoltà di usare la N-word senza risultare offensivo, ma, al contrario, quasi divertente, adducendo ad auto-giustificazione il fatto che, all’interno della comunità black, sia ormai “sdoganata”.

Il fil rouge che lega tutte le espressioni di razzismo hipster è – come fa notare la giornalista Arwa Mahdawi– la sua (finta) inconsapevolezza, e in particolare l’incapacità di ammettere il suo stesso razzismo; cosa che, per altro, è una delle caratteristiche connaturate al concetto originale di razzismo.

«L’espressione del razzismo consiste fondamentalmente nel negare la sua espressione», aggiunge Ibram X Kendi, professore all’American University di Washington DC: se si guarda infatti alla storia e all’evoluzione delle idee razziste, è facile vedere come queste siano accomunate dalla negazione da parte di ciascun gruppo o teorizzatore che la propria ideologia sia, appunto, razzista. La spaccatura avviene dopo: laddove il razzismo si illude di trovare la spiegazione delle sue convinzioni nella scienza, nei testi sacri o nella sociologia, il razzismo hipster invece sdrammatizza, riducendo ciò che a tutti gli effetti costituisce un insulto infamante a una “semplice” battuta.

Se dunque la radice è comune, perché preoccuparsi e “qualificare” il razzismo odierno con il termine hipster?

Come spiega Rachel Dubrosky, tale definizione è importante perché «ci costringe a guardare ai molti modi in cui funziona il razzismo e ad andare oltre la semplice dichiarazione di intenti. Chiamarlo razzismo hipster ci permette di capire che, anche se qualcuno non avrebbe voluto essere razzista, in realtà lo era. E tale dinamica rende evidente che il razzismo non è il risultato di una mancanza di educazione formale e non è solo una prerogativa del presunto ignorante».

Il razzismo hipster è quindi legato al tempo che stiamo vivendo, ma è pure indiscutibile che da secoli molti individui professanti una fede progressista “inavvertitamente” perpetuino stereotipi razzisti mentre fingono di sfidarli. Nel suo libro The Definitive History of Racist Ideas in America, Kendi racconta la storia delleidee assimilazioniste, che – sebbene si considerino mosse da buone intenzioni – rifiutano una gerarchia biologica, preferendo una gerarchia culturale o comportamentale. L’autore a tal proposito porta l’esempio degli abolizionisti, i quali ritenevano che la schiavitù fosse sì sbagliata, ma al contempo credevano che questa avesse trasformato le persone di colore in bestie, e di conseguenza raccomandavano e sostenevano la loro civilizzazione.

Nel 1965, The Negro Family: The Case For National Action – noto anche come il Moynihan Report, scritto dall’omonimo sociologo sotto la presidenza di Lyndon Johnson – patologizzava con clamore le famiglie nere, sostenendo che i problemi affrontati da molti afroamericani dipendevano appunto dall‘instabilità delle loro strutture familiari. L’idea che nuclei problematici o “spezzati” siano la causa della disuguaglianza razziale negli Stati Uniti persiste ancora oggi, come è stato dimostrato da un articolo del 2015 uscito sul New York Times in occasione delle rivolte a Baltimora, nel quale David Brooks scriveva: «i veri ostacoli alla mobilità derivano da questioni di psicologia sociale, dalla qualità delle relazioni in una casa e un quartiere».

Analizzare così a fondo un fenomeno che di recente ha ricevuto parecchia attenzione da parte dei media (e qui c’è da ringraziare Lena Dunham) permette a chiunque di comprendere le motivazioni legate all’ipocrisia e all’ambiguità di quelle che sulla carta sembravano battute inoffensive, e di riflettere con cognizione di causa sulle loro implicazioni, ma non mancano all’appello coloro che, per puro spirito polemico, tendono a bollare l’intera faccenda come una rischiosa tendenza che mira a esacerbare il problema dell’accresciuta sensibilità razziale.

È di questa opinione Fraser Myers, che sul magazine Spiked definisce il razzismo hipster «un’altra espressione dell’ipersensibilità odierna che tende a definire razzista ogni interazione, espressione o atto», riducendolo alla mera demonizzazione di un humour (un po’ troppo?) tagliente o di «sinceri tentativi di apparire gentili e amichevoli con qualcuno».

L’articolo si conclude con una riflessione sul nuovo pensiero razziale, che secondo l’autore «si presenta come una forza progressista e antirazzista, quando in realtà sta riaccendendo vecchi, cattivi pregiudizi trattando i neri come bambini. L’accusa di razzismo hipster è semplicemente l’ultima arma a disposizione di insidiose guerre culturali, un’arma che deve essere rapidamente resa inoffensiva».

Il tranello dietro a tali affermazioni è che si potrebbe essere tentati di ritenere il razzismo hipster non così grave come il razzismo professato dai suprematistibianchi.

di Marianna Tognini  per it.businessinsider.com