migranti lavoroLe vecchie élite culturali non hanno saputo affrontare i problemi dell’integrazione con pragmatismo. Mentre il mondo cambiava, la società è diventata preda della peggiori pulsioni. E lo spazio vuoto a destra è stato riempito da chi ha cavalcato le paure e la sindrome da invasione. Se c’era qualche dubbio, le vicende di Riace, l’hanno dissolto in men che non si dica: l’ondata montante di xenofobia, sfociata in un razzismo non più strisciante, ha dei precisi responsabili. Anzi, una responsabile: la sinistra. Che ha una responsabilità doppia, quindi doppiamente pesante, perché è stata comunque la parte “pensante” della politica. Soprattutto, è stata la parte che ha goduto di un’egemonia fortissima nel mondo (anzi, nei mondi) della cultura e della comunicazione, che per decenni hanno inondato di “sinistrese” e di “sinistrismo” fasce importanti dell’opinione pubblica in maniera e con forme inedite nel resto dell’Occidente. L’attuale dibattito sull’integrazione ci dimostra in pieno la contraddizione curiosa tra un sistema della cultura ufficiale che pensa e parla ancora a sinistra e un’opinione pubblica che, al contrario, cede a pulsioni becere, a bassi istinti che solo in parte possiamo definire destrorsi.

 

Ecco alcuni esempi delle nequizie che allignano in questa fetta di opinione, purtroppo in ascesa: stuprano tutti, come rivelano le statistiche dei crimini a sfondo sessuale, ma gli immigrati di più. Le violenze tra le mura domestiche sono in ascesa, ma nelle case degli immigrati lo sono di più e, soprattutto, sono più esplosive.

Questo discorso può essere moltiplicato per cento quando si passa ai reati non solo “relazionali”, nei quali un italiano può essere vittima di uno “straniero” (e ovviamente viceversa): i neri e gli arabi “spacciano” e, se non spacciano, sono pericolosi jihadisti quasi a prescindere. Gli slavi, invece, hanno una propensione ai reati cruenti – Igor “Il russo” insegna – e alla rapina, con e senza stupro e omicidio. E si potrebbe continuare di porcheria in porcheria.

Ovviamente tutto ciò nasconde altre realtà che è giusto ricordare: arabi e africani sono un’importante forza lavoro, spesso sottopagata e supersfruttata, nell’agricoltura e nel terziario, come rivelano le baraccopoli ai margini delle nostre piantagioni meridionali, che evocano scenari degni degli Stati confederati prima della Guerra civile americana.

Di più: gli slavi e, più genericamente, gli esteuropei, sono determinanti nell’edilizia, nelle manifatture e in quel che resta del settore metalmeccanico, dove forse riescono a godere di qualche tutela sindacale in più.

È l’aspetto positivo, senz’altro maggioritario, del fenomeno migratorio, in cui si sono registrati non pochi casi di integrazione riuscita, più per merito della volontà dei migranti di integrarsi che degli italiani di accoglierli. E in cui i meriti di certo sinistrismo, che continua a farsi sentire con più chiasso che concretezza, sono minimi.

Allora, quali sono le colpe di questa cultura che ancora oggi esercita una consistente egemonia tra le élite culturali, accademiche e non, e nei media che contano? L’astrattezza, alimentata dai residui di quella visione universalista, un po’ terzomondista e decisamente antioccidentale, che è stata di gran moda fino a tutti gli anni ’70.

I segnali deboli del rigetto di questa – come ha ben documentato Paolo Morando nel suo “’80, gli anni della barbarie” – risalgono alla fine degli anni ’80 e venivano dalla pancia dell’Italia opulenta, con le prime polemiche antimeridionali della Liga Veneta e con le prime forme di becerume verso gli ambulanti nordafricani, i “vu cumprà”, oggetto di satira nel migliore dei casi e di intolleranza nel peggiore.

Quella sinistra, non seppe far altro che continuare a imporre i propri catechismi umanitari a una società che si apprestava a cambiamenti epocali.

Occorre a questo punto sfatare una simmetria che pure resiste nella riflessione politica, secondo la quale a una sinistra umanitaria e antirazzista corrisponderebbe una destra xenofoba e nazistoide. Non è proprio così, perché l’esperienza storica spesso si diverte a smentire categorizzazioni tanto tranchant quanto inconsistenti in cui le eccezioni finiscono per soffocare la regola.

È il caso di evitare le casistiche per ragioni di spazio e di soffermarci solo su un punto: sinistra e destra hanno affrontato entrambe i problemi dell’integrazione, sin dall’epoca coloniale secondo parametri propri, quello dell’egualitarismo umanitario o quello della “nazionalizzazione” e del rigore.

Quel che è invece accaduto a partire dagli anni ’90 è stato il frutto di un abbaglio culturale senza precedenti. Quella élite culturale, vittima del suo stesso catechismo, si è quasi rifiutata di analizzare il fenomeno migratorio e di comprendere che l’integrazione tra culture è un processo storico concreto che deve essere governato su presupposti pragmatici. Il più importante, che è tuttora inalterato, riguarda la fragilità delle culture occidentali che sono comunque più progredite e progressiste, anche nelle loro manifestazioni più conservatrici, dei sistemi tribali o teocratici, in cui i diritti dell’individuo occupano uno spazio minimale.

L’esigenza di un filtro all’ingresso che limitasse i conflitti culturali e la richiesta di strumenti di integrazione più adeguati non ha neppure sfiorato la maggior parte di questi predicatori di umanità. Ma l’abbaglio umanitario è andato oltre, perché le istanze di accoglienza a prescindere non hanno tenuto conto di un’altra fragilità, quella del sistema del lavoro, inondato per più di un ventennio da manodopera a basso costo, che ha letteralmente messo in ginocchio le tutele sindacali a danno di tutti, italiani e migranti.

di  per indygesto.com/dossier/