OROGoldfinger, il cattivo che dà il titolo a uno dei più famosi film di James Bond, mette sotto assedio Fort Knox: con una piccola bomba nucleare vuole rendere radioattive e quindi inutilizzabili, le riserve d'oro americane. I funzionari della Bundesbank entrati negli ultimi mesi nei caveau della Federal Reserve Usa avevano motivazioni più pacifiche: riportare a casa l'oro tedesco immagazzinato nei forzieri statunitensi. Nel corso del 2016 a lasciare l'America e a prendere la strada di Francoforte sono state 111 tonnellate di metallo giallo: per la precisione 8880 lingotti da 12,5 chili l'uno. Tutti, anzichè a Fort Knox, erano in realtà custoditi nel pieno centro di Manhattan: nei sotterranei della Fed di New York in Liberty Street, a due passi da Wall Street.

L'operazione fa parte di un progetto di razionalizzazione delle riserve avviata dalla Bundesbank tra il 2012 e il 2015, ma per completare l'opera la Banca centrale si era data fino al 2020. Poi, più di recente, ha deciso di stringere i tempi. E volendo basta questo per fare dell'oro tedesco riportato in patria una sorta di simbolo. Nell'era di Donald Trump, delle nostalgie sovraniste, delle polemiche sul possibile ritorno ai dazi doganali, è il segno di un altro ponte levatoio che si alza a separare aree economiche fino a poco tempo unite e convergenti nel nome della globalizzazione.

L'oro tedesco in Germania è un pezzo di storia dell'economia. Nel sistema monetario nato dagli accordi di Bretton Woods, firmati nel 1944 e incaricati di gestire la rinascita economica del dopoguerra, le banche centrali regolavano in oro i saldi tra i diversi Paesi. E dagli anni Cinquanta il surplus della bilancia commerciale tedesca è un classico dei rapporti internazionali.

Anno dopo anno i tedeschi hanno sempre venduto più di quanto comprassero e accumulato così veri e propri tesori nelle casseforti delle principali banche centrali: negli Usa, in Gran Bretagna e Francia. In tempi di guerra fredda, e tenendo presente i possibili pericoli di invasione russa, il governo di Bonn decise che i tesoretti andavano lasciati dove stavano e che, anzi, rappresentavano una specie di polizza assicurativa. Così le montagne d'oro detenute all'estero sono cresciute.

Il sistema di Bretton Woods crollò nel 1973, e l'oro perse molto del suo valore pratico, pur mantenendo quello simbolico. Tenere diversificati i depositi sembrò comunque una scelta saggia e nessuno tocco i lingotti. Di più: la questione rimase praticamente dimenticata fino al 2012, quando un politico dell'ala destra della Csu bavarese, Peter Gauweiler, imbastì sulla questione una campagna d'opinione.

Non solo non sappiamo più esattamente dove è finito il nostro oro, era il suo slogan, ma in periodi di incertezza valutaria sarebbe bene poterne disporre senza ritardi riportandolo sotto il controllo della Bundesbank. Così la polemica sull'oro ha finito per mescolarsi, almeno agli occhi dei «falchi» teutonici, con quella sulla moneta unica.

Anche perchè sul tema hanno iniziato a circolare fantasiose teorie complottistiche. La Fed non rispose a una prima richiesta della Bundesbank. Un disguido burocratico, pare. Ma in Rete si diffuse la spiegazione che in realtà l'oro non c'era più. Alla fine, per mettere a tacere le voci, la Corte dei Conti ordinò un'inchiesta.

Oggi la Germania è vicina al suo obiettivo: riportare in patria la metà delle 3400 tonnellate di sua proprietà (solo gli Stati Uniti con 8mila ne hanno di più). Oltre alle 111 tonnellate arrivo da New York nel 2016 (che si aggiungono alle 190 trasferite tra il 2013 e il 2015) si sta completando il trasloco di quelle custodite a Parigi (374).

Non tutto l'oro dei Nibelunghi volerà però a Francoforte. Come da programma resteranno attivi i depositi dei due maggiori centri finanziari internazionali, dove almeno potenzialmente, in caso di cataclisma valutario, sarebbe necessario mobilitare delle riserve. In America resteranno 1236 tonnellate, a Londra 436. Ancora molte. Ma con qualche lingotto in più sotto il materasso di casa, i nostalgici del vecchio marco si sentono oggi più tranquilli.

Articolo di Angelo Allegri per “il Giornale”  da dagospia.com

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