01082019 165928Chico Forti è in carcere a Miami da quasi 16 anni con l’accusa di omicidio. Ma si dice innocente. Secondo l’accusa nel 1998 avrebbe ucciso Dale Pike, figlio di Anthony Pike (dal quale stava acquistando il «Pikes Hotel» a Ibiza), e per questo è stato condannato all’ergastolo. Dietro a questa clamorosa e drammatica vicenda, però, potrebbe esserci anche l’ombra dell’omicidio Versace: Chico, pochi mesi prima dell’arresto, aveva girato un documentario-inchiesta (Il sorriso della Medusa) all’interno della casa galleggiante in cui viveva e in cui si sarebbe suicidato Andrew Cunanan, il presunto killer dello stilista italiano. E aveva messo in dubbio le conclusioni della polizia di Miami dando inizio così, secondo molti, ai suoi guai. Ora Chico, rinchiuso al «Dade Correctional Institution», lotta tutti i giorni per dimostrare la verità, per tornare un uomo libero. E dalla prigione, per la prima volta, racconta e si racconta. Come vive, cosa pensa, cosa sogna, quanto soffre, perché è in quell’inferno. Il telefono squilla alle 23.54 italiane, la voce è calda e pacata. Mette i brividi. Emoziona.

 

Chico, come sta?
«Bene, molto bene. Grazie».

Sempre ottimista e positivo dopo tanti anni di carcere. Dove trova la forza?
«Sono le persone che mi sostengono a darmi la carica e le motivazioni per resistere. In attesa di tornare da voi in Italia».

Nel frattempo ci porti con lei in carcere, ci faccia capire come si sta lì. Come è vestito? Dove è? 
«Indosso un paio di pantaloncini corti, una maglietta e delle scarpe tipo Crocs. Sono in una cabina e di fronte a me ho una parete blu con il telefono blu con dei quadrettini argento con scritti i numeri. Dietro ho una parete fredda, anche d’estate, una parete triste, brutta. A destra una porta chiusa, a sinistra una guardia dietro un vetro. Ci saranno 50 gradi».

Chiuda gli occhi: c’è un odore o un profumo che descrive il carcere?
«Provo. Ecco, l’odore è di una miscela di bustine di thè riciclato, pezzi di scacchi bruciati, sapone da doccia: un mix che qui si fumano 24 ore al giorno».

C’è invece un profumo che le manca? Magari di un cibo che non mangia più?
«Gli asparagi che preparava mamma. E la polenta».

Sedici anni di carcere. Una cella. Orari rigidi. Sempre sotto controllo. Esistono piccoli attimi di libertà anche nella prigionia?
«La libertà è in quei momenti che trovi dentro di te quando nessuno riesce a intromettersi nei tuoi pensieri. Qui non è facile, però».

Come è la giornata tipo?
«Sveglia alle 4.45. Poi si lavora: io sono nel dipartimento di educazione per i progetti speciali. Insegnare mi aiuta a passare il tempo in modo dignitoso. Rientro verso le 17.30, quindi dopo più di 12 ore».

E cosa fa?
«Chiamo mia madre se riesco a tornare prima di mezzanotte ora italiana, cioè le 18 di qui. Le do la buona notte e le faccio sapere che sto bene. Quando posso, anche se non è facile, chiamo gli amici più cari. Poi leggo la posta della gente che mi scrive. E rispondo».

A che ora andate a letto?
«Dopo vari conteggi, in cui viene verificato che non ci siano assenze ingiustificate, alle 22.30 vengono spente le luci. Gli altri dormono, io invece medito fino all’una e poi, per almeno due ore, mi sintonizzo sulla radio inglese per ascoltare le notizie dal mondo».

Dorme pochissimo!
«Due ore a notte. Ho imparato a concentrare il riposo del corpo e della mente in pochi minuti. Per la maggioranza delle persone qui il tempo non passa mai: per me invece ogni minuto, anzi ogni secondo, è importante».

Come lo impegna?
«Rifletto sul passato, ma soprattutto mi chiedo il perché di questa abominevole ingiustizia. Sedici anni di reclusione con restrizioni assurde rischiano di trasformarti in zombie. L’unico rimedio è riuscire a trovare se stessi all’interno di se stessi e trovare una ragione per vivere. Nel mio caso è dimostrare la mia innocenza totale».

Si affida mai a Dio?
«Sì. Sono sempre stato credente, anche se amante della scienza. Papa Francesco mi piace. Pensi che invece, nel 1982, ho avuto la benedizione di Papa Wojtyla per lo sport della vela».

Come è il suo rapporto con gli altri carcerati?
«La detenzione non mi ha cambiato, faccio amicizia molto facilmente. La gente tendenzialmente mi vuole bene perché do una mano a chiunque. Sa, qui non è facile chiedere aiuto, è un segno di debolezza soprattutto per chi non sa leggere, non sa scrivere e non sa dove è un paese nel mondo. Quando insegno aiuto tutti».

E lei chi l’aiuta, quando ha bisogno di qualcosa?
«Gli amici più cari e centinaia e migliaia di italiani che non mi hanno mai abbandonato».

Ha mai subìto violenze?
«Grazie a Dio mai fisicamente. A livello morale e psicologico è una cosa quotidiana».

I momenti più duri in questi 16 anni?
«Tanti. La morte di mio padre, innanzitutto. Se ne è andato nel 2001 senza che potessi stargli vicino e dirgli “Ti voglio bene” e “Grazie per quanto mi hai insegnato con l’esempio”. Poi la lontananza dai miei tre figli. E gli abusi senza possibilità di replica: ho visto gente perdere la vita per cambiare il canale della tv. E ancora, il fatto di non poter vedere l’alba o il tramonto, o di sentire il vento sul viso e non poterlo cavalcare».

Chico, parliamo del processo e della condanna all’ergastolo. Cosa l’ha fregata?
«Per prima cosa l’uso di un informatore che ha barattato una sua possibile sentenza all’ergastolo per falsa testimonianza davanti al Grand jury, che è l’organo giudiziario che ha permesso e autorizzato il mio arresto. Poi una serie di bugie non ritrattabili dei vari responsabili della polizia del gruppo che mi ha arrestato. Se avessi saputo di andare incontro a un processo interamente basato su colpi sotto la cintura, avrei affrontato la situazione in modo diverso».

E come?
«Avrei dedicato io personalmente molto più tempo alla mia difesa, anziché fidarmi di gente che pensavo fosse preparata e invece non lo era. Avrei cercato di evitare un processo con giurati che erano stati inquinati dal giudice».

In che modo? 
«Il messaggio subliminale che il giudice ha dato è stato: “Se voi avete pensato che Chico Forti è innocente, io vi posso dire che non lo è”. Da quel giorno nessun giurato mi ha più rivolto lo sguardo. Tranne uno, un tecnico responsabile del reparto di radiologia dell’ospedale Mount Sinai che aveva detto che il processo era per frode e non per omicidio. Aveva detto anche che era convinto della mia non colpevolezza e la conseguenza è stata che lo hanno eliminato. Gli altri giurati avevano parlato tra di loro del mio caso, sostenendo la mia innocenza: il Prosecutor li ha sentiti e ha chiesto al giudice di fare un richiamo ufficiale ad ognuno di loro».

Il fatto di essere italiano potrebbe aver condizionato la sua condanna?
«A Miami esistono sciocchi stereotipi che associano l’italiano facoltoso a organizzazione malavitosa. Nel mio caso, sapendo che la frase non sarebbe mai stata riportata, i poliziotti me l’hanno detto in faccia dopo aver sputato sulla foto dei miei figli e averla stracciata».

È possibile riaprire il processo?
«Sono sicuro di sì. Non ho mai dubitato del fatto che io riottenga la libertà. L’unico problema sono i tempi e la voglia di farlo. Mi piace ricordare una frase di Steve Jobs: “ Se ti cimenti in un lavoro fallo con passione, altrimenti non farlo”».

Chico, lei si aggiorna costantemente su ciò che accade nel mondo. Cinque mesi fa Amanda Knox, rientrata negli Usa, è stata assolta definitivamente per l’omicidio di Meredith Kercher. Mai sperato in uno scambio?
«No. Sperare in uno scambio significava la sua condanna. Io non ho mai augurato alla Knox di essere condannata per poi essere merce di scambio. Certo, se lei lo avesse richiesto lo avrei accettato. Io non auguro a nessuno quello che sto vivendo».

E dei marò italiani sotto processo in India che pensa?
«Sono solidale con i due fucilieri della Marina detenuti ingiustamente come me. Spero che la stessa determinazione del governo italiano nell’affrontare l’aggressività degli avvocati indiani venga usata anche nel mio caso per riportarmi in Italia. Tutte le carte processuali dimostrano che è stata fatta un’ingiustizia gigantesca. Sono in carcere senza prove».

A proposito del governo, Renzi è in vacanza a New York.
«Da New York a Miami sono tre ore di aereo. Se vuole venirmi a trovare in carcere per sapere davvero come è la mia situazione, lo attendo».

Cosa gli direbbe?
«Presidente, la prego di dedicare 30 minuti al mio caso, le chiedo di incontrare i miei rappresentanti in italia. Lei capirà e saprà valutare. Grazie».

Chico. Se lo sarà chiesto chissà quante volte: perché tutto questo proprio a lei?
«A fine agosto del ’97 ho fatto uno speciale di due pagine su Repubblica con Vittorio Zucconi, che era venuto a visitare la house boat in cui si era suicidato Andrew Cunanan, presunto assassino di Versace».

Già, perché lei aveva realizzato il documentario-inchiesta («Il sorriso della Medusa») all’interno della casa galleggiante.
«Quando, finito di girare il filmato, ho visto che le reazioni erano forse un po’ più forti di quello che immaginavo, ho subito pensato che avrei rischiato qualcosa. Quello che mi è successo non è stata una sorpresa: non è che da un momento all’altro hanno scelto me tra mille, così a caso. Il mio rompere le scatole, il mio andare a cercare la verità in un momento in cui tutti volevano metterla sotto il tappeto è stato determinante. È stata una vendetta».

Chico, ultima domanda. Guardiamo avanti. Lei cosa vede?
«Il futuro non è lontano. Ogni secondo, ogni minuto, ogni attimo ho la sensazione di un imminente risveglio da questo incubo. E mi vedo finalmente mentre riabbraccio le persone a me care e le tante che mi stanno aiutando».

Alessandro Dell'Orto per liberoquotidiano.it