uccisione di Giovanni GentileIl 15 aprile 1944, intorno alle 13.30, Giovanni Gentile rientrava nella sua residenza, Villa Montalto al Salviatino. Mentre l’autista apriva il cancello sul viale, due gappisti appostati nei pressi si avvicinarono all’auto; quando il filosofo abbassò il vetro essi, chiesta conferma della sua identità, aprirono immediatamente il fuoco. Gentile morì poco dopo l’arrivo all’ospedale di Careggi per le gravi ferite riportate. Il giorno successivo la salma fu esposta nella sede dell’Accademia d’Italia a Lungarno Serristori; lunedì 17 un corteo funebre accompagnò il feretro fino a piazza Santa Croce, dove il segretario del partito Pavolini tenne una commemorazione secondo il rito fascista. Il 18 aprile il Consiglio dei ministri ne decise la sepoltura nella basilica di Santa Croce. La notizia dell’uccisione fu riportata con ritardo dagli organi di stampa: la radio italiana ne dette l’annuncio solo alle 20 del giorno successivo.

Tale lentezza si dovette molto probabilmente a ragioni prudenziali, sia perché si temevano gli effetti di simili avvenimenti sullo «spirito pubblico», sia perché era necessario fornire una versione ufficiale della dinamica dell’attentato, che ne dissimulasse la facilità di esecuzione.

Il capo provincia Manganiello dispose l’arresto di cinque universitari, indicati come mandanti morali dell’agguato: Ranuccio Bianchi BandinelliRenato Biasutti e Francesco Calassofurono rilasciati poche settimane dopo, mentre Ernesto Codignola ed Enrico Greppisfuggirono alla cattura. La condotta relativamente mite delle autorità fu dovuta ad una precisa richiesta della famiglia Gentile; essa si faceva interprete dell’orientamento del filosofo, che aveva più volte espresso a Manganiello la sua contrarietà a rappresaglie e ritorsioni.

Fu avviata un’inchiesta giudiziaria che non ebbe esiti significativi, nonostante le autorità avessero promesso un cospicuo premio ad eventuali informatori; le indagini non furono riprese dopo la Liberazione ed il procedimento venne archiviato il 18 gennaio 1945.

Giovanni Gentile negli ultimi annihttps://www.storiadifirenze.org/wp-content/uploads/2016/04/1-600x418.jpg 600w, https://www.storiadifirenze.org/wp-content/uploads/2016/04/1-150x105.jpg 150w, https://www.storiadifirenze.org/wp-content/uploads/2016/04/1-400x279.jpg 400w, https://www.storiadifirenze.org/wp-content/uploads/2016/04/1.jpg 700w" sizes="(max-width: 300px) 100vw, 300px" style="border: 0px none !important; margin: 0px !important; padding: 0px !important;">

Giovanni Gentile negli ultimi anni

Come si sa, Gentile aveva rivestito nel ventennio un ruolo centrale come ministro, ideologo del regime e organizzatore di cultura. Dopo l’8 settembre 1943 l’ala repubblichina più intransigente avviò un’aggressiva campagna di stampa, accusando il filosofo di aver accettato il «tradimento» del 25 luglio e additandolo come un esponente dell’establishment più moderato e «opportunista».

Fu il neoministro dell’Educazione nazionale Biggini ad avviare contatti con Gentile, nel tentativo di assicurare alla Repubblica sociale l’adesione di figure rappresentative della cultura italiana. Il filosofo incontrò Mussolini il 17 novembre ed accettò la nomina a Presidente dell’Accademia d’Italia, che alla fine del mese fu trasferita a Firenze. L’adesione alla Repubblica sociale va letta come l’ultimo atto, non privo di dubbi, di una vicenda politica e intellettuale profondamente legata alla parabola del regime ed alla stessa figura del duce.

In alcuni interventi pubblici Gentile si fece interprete di una linea tesa a ricercare la conciliazione nazionale, con l’obiettivo di isolare le forze sovversive. Tale programma interpretava i desiderata dell’ala più istituzionale e conservativa confluita nell’esperienza di Salò, ma non poteva che suscitare aspre reazioni nel campo avversario. Voci autorevoli della stampa antifascista ravvisarono nella proposta di conciliazione una copertura ideologica funzionale ad offrire una patina di rispettabilità al nuovo regime, occultandone il carattere violento e repressivo.

Nel febbraio 1944 il latinista e militante del Pci Concetto Marchesi pubblicò sul quotidiano socialista di Lugano «Libera stampa» un articolo fortemente polemico con le posizioni gentiliane. L’articolo fu ripreso in marzo da «La nostra lotta», principale organo del Pci nell’Italia settentrionale; il finale del testo fu però modificato dal redattore Girolamo Li Causi, che ne accentuò il significato di perentoria condanna rispetto alla denuncia di Marchesi in questi termini: «La spada non va riposta finché l’ultimo nazista non abbia ripassato le Alpi, finché l’ultimo traditore fascista non sia sterminato. Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: morte!».

Un articolo su «La Nazione», 18 aprile 1944https://www.storiadifirenze.org/wp-content/uploads/2016/04/3-600x689.jpg 600w, https://www.storiadifirenze.org/wp-content/uploads/2016/04/3-131x150.jpg 131w, https://www.storiadifirenze.org/wp-content/uploads/2016/04/3-400x459.jpg 400w, https://www.storiadifirenze.org/wp-content/uploads/2016/04/3.jpg 700w" sizes="(max-width: 261px) 100vw, 261px" style="border: 0px none !important; margin: 0px !important; padding: 0px !important;">

Un articolo su «La Nazione», 18 aprile 1944

Velleitaria e fallimentare si dimostrò la ricerca di adesioni di esponenti del mondo intellettuale attorno all’Accademia d’Italia, che inaugurò i suoi lavori solo il 19 marzo 1944: nell’incipit del suo discorso d’apertura Gentile celebrò la risurrezione di Mussolini e della patria, «aiutata a rialzarsi dal condottiero della grande Germania», al cui fianco si combatteva «la battaglia formidabile per la salvezza dell’Europa». Tale tributo nascondeva il tentativo di facilitare la liberazione del figlio Federico, internato militare nel Reich; certo esso fu letto da parte antifascista come una dimostrazione inequivocabile della fedeltà di Gentile ai destini del regime.

Il 22 aprile venne diffuso in città un volantino dal titolo Il caso Gentile, che riproduceva l’articolo di Marchesi nella versione pubblicata da «La nostra lotta» e faceva esplicito riferimento alla vendetta dei cinque renitenti fucilati il 22 marzo a Campo di Marte. Il volantino, stilato su iniziativa del Pci, portava arbitrariamente la firma del Comitato di liberazione nazionale che, nella seduta del 23 aprile, votò la deplorazione dell’attentato con l’unica astensione del rappresentante del Pci.

Tristano Codignola ed altri esponenti del Partito d’Azione sottolinearono che le responsabilità di Gentile si dovessero collocare su un piano esclusivamente culturale ed ideologico e che dunque fosse stato un errore politico giustiziarlo alla stregua di un esponente della macchina repressiva della Rsi.

Valutazioni divergenti sulla legittimità e l’opportunità politica dell’uccisione tagliarono trasversalmente le varie appartenenze del campo antifascista, sia in sede locale che nazionale. Fu in ogni caso il Pci a rivendicare con forza la giustezza dell’operazione: nell’articolo La fine di Giovanni Gentile, pubblicato su «l’Unità» di Napoli il 23 aprile, Palmiro Togliatti espresse «la nostra riconoscenza di cittadini ai giovani combattenti che hanno compiuto quest’atto di risanamento della vita del nostro paese». Il numero datato 11 maggio de «L’Azione comunista», organo del Pci fiorentino, attribuì esplicitamente l’esecuzione ai Gap attivi in città.

Memorie e testimonianze rese nel dopoguerra hanno rimandato divergenti indicazioni sul numero e l’identità dei partecipanti all’agguato. Pare ormai accertato che fossero in cinque: Bruno Fanciullacci, Antonio Ignesti, Giuseppe Martini, Marcello Serni, Luciano Suisola. Furono Fanciullacci e Martini ad avvicinarsi al filosofo e a sparare, mentre gli altri dovevano fungere da copertura. Il ventiquattrenne Fanciullacci era il comandante di uno dei quattro gruppi che costituivano in quella fase i Gap a Firenze, ed era il più anziano ed esperto dei componenti.

Riguardo alle motivazioni dell’attentato e ai suoi possibili mandanti molteplici sono state le ipotesi formulate fin dalle settimane successive e riprese fino ad anni recenti da un’ampia pubblicistica, spesso venata da connotazioni dietrologiche.

La voce di una responsabilità diretta di Mario Carità, esponente dell’ala fascista radicale avversa alle posizioni di Gentile, circolò immediatamente in ambito locale: nella temperie della città occupata essa era espressione del terrore diffuso per i metodi del reparto di Carità e per lo status di impunità ad esso accordato. L’ipotesi che i repubblichini conoscessero il progetto tramite un infiltrato ma che non l’avessero fermato pare inverosimile: in questo caso infatti Carità avrebbe avuto il tempo di scompaginare i Gap prima del 29 aprile, giorno in cui fu realizzato l’attentato contro il comandante provinciale della Gnr Italo Ingaramo, ben più rischioso di quello contro Gentile e tale da costituire un autentico smacco per le autorità repubblichine.

L’ipotesi di un intervento dei servizi segreti inglesi, ripresa fra gli altri da Luciano Canfora, si è dimostrata priva di fondamento: in primo luogo non è stato reperito negli archivi britannici alcun riscontro a sostegno di un coinvolgimento anche indiretto nell’attentato. In secondo luogo non si vede perché da parte britannica ci potesse essere uno specifico interesse a disfarsi del filosofo siciliano, né perché i servizi di informazione inglesi avrebbero dovuto scegliere di servirsi dei Gap, dato che non avevano alcuna diretta connessione con l’organizzazione comunista fiorentina.

Fra quanti hanno insistito sul ruolo del Pci, hanno preso forma due ipotesi: la prima ha attribuito la responsabilità della scelta ai quadri più alti del partito, dunque alle direzioni di Roma o Milano, la seconda ha insistito sulla genesi locale dell’attentato.

La supposizione che l’ordine provenisse da Togliatti, come tassello di un progetto di conquista dell’egemonia culturale nel paese, non pare verosimile: Togliatti rientrò in Italia il 27 marzo, quando con ogni probabilità il filosofo era stato già individuato come obiettivo dell’imminente azione gappista. Inoltre, il leader comunista tornava dopo diciotto anni di assenza con la sommaria convinzione che la cultura italiana fosse rimasta sostanzialmente dominata dall’egemonia crociana.

L’ipotesi più probabile è che la decisione di uccidere Gentile sia stata presa dai vertici locali del Pci, ovvero il segretario politico Giuseppe Rossi in accordo con Luigi Gaiani, delegato militare provinciale del partito dal 16 marzo.

La ricostruzione rimane indiziaria, ma risulta suffragata dal confronto fra le testimonianze più interne al contesto del Pci fiorentino svolto in un recente lavoro di Paolo Paoletti. Al di là dei limiti e delle imprecisioni delle fonti memoriali, le versioni fornite fra gli altri da Romano Bilenchi, Orazio Barbieri, Teresa Mattei, convergono nell’indicare il livello locale come determinante. Sono semmai plausibili (ma privi di riscontri) dei contatti con la direzione di Milano, anche se l’articolo pubblicato su «La nostra lotta» costituiva di per sé un avallo rispetto alla scelta di colpire Gentile. Dovette tuttavia avere un ruolo significativo anche il discorso tenuto il 19 marzo, perché si svolse a Firenze e perché egli rivendicò esplicitamente la vicinanza con l’alleato tedesco. L’esecuzione del 22 marzo a Campo di Marte fu un’ulteriore e potente motivazione per l’azione: dato che la propaganda del Pci aveva assicurato che l’episodio non sarebbe rimasto impunito, l’attentato aveva il duplice vantaggio di presentarsi come relativamente semplice e di colpire una personalità di grande rilevanza simbolica.

Va in ogni caso sottolineato che in quei mesi, in cui le comunicazioni clandestine fra le diverse zone del paese erano tutt’altro che rapide e agevoli, i comandi politici e militari locali furono chiamati a decidere in sostanziale autonomia su vari ordini di questioni e fra queste rientrava certamente l’individuazione degli obiettivi dei Gap.

Anche l’ipotesi più volte proposta che l’omicidio Gentile sia stato un «affare fra intellettuali» è sostanzialmente da respingere: è certamente verosimile che Giuseppe Rossi si sia consultato con vari interlocutori, quali Bilenchi e Bianchi Bandinelli, ma è da rilevare che nella dirigenza locale la componente intellettuale aveva un peso secondario rispetto a quella operaia.

Programmando l’attentato contro il filosofo, il Pci rimaneva fedele alla sua strategia volta a conquistare l’egemonia «sul campo» nella lotta resistenziale: essa prevedeva l’obiettivo di tenere alto il livello dello scontro e di agire in sostanziale autonomia rispetto al Ctln, anche a costo di provocare strappi con le altre componenti del fronte antifascista.

dall'articolo di Francesca Cavarocchi per https://www.storiadifirenze.org