Vittorio Feltri e il ricordo di Oriana FallaciOgni anno il 15 settembre, anniversario della scomparsa della mia cara amica Oriana Fallaci, vengo assalito dalla nostalgia. Dai meandri del cuore emergono dolci e aspre memorie, come era lei. Per celebrarla ho deciso di condividere con voi il capitolo del mio libro "Il borghese", dedicato a questa donna straordinaria. Mi congratulo con Matteo Salvini per averla ricordata ieri a Pontida e per non averne dimenticato insegnamenti e moniti.Oriana la vidi, più che la conobbi, per la prima volta all' inizio degli anni '80, quando scriveva le sue interviste colossali e interminabili, che erano quasi dei romanzi, a personaggi come Khomeyni, capo spirituale e politico iraniano dal '79 all' '89, Gheddafi, l' allora primo ministro della Libia, e gentaglia simile. Fallaci, non essendo una giornalista ordinaria, non è che vergasse la dannata intervista e la mandasse attraverso gli stenografi o il fax. Il suo dattiloscritto non viaggiava mai da solo. Giungeva in redazione insieme alla sua autrice, che si fermava in via Solferino fintanto che il suo articolo non fosse stato impaginato con il titolo che decideva lei, nel modo in cui voleva lei, quando lo stabiliva lei. E noialtri tutti zitti e mosca.

 

A un dato momento compariva al primo piano di via Solferino, dove si creava una confusione da manicomio. "Oddio, c' è la Fallaci", si udiva riecheggiare nei corridoi, "Si salvi chi può". Mezza redazione era mobilitata: passare il testo, disegnare il menabò, scegliere i caratteri tipografici, mille verifiche e mille discussioni. Non andava mai bene niente. Oriana ribaltava anche ciò che era pronto. Roba da prenderla a sberle. "Avanti, ricominciamo daccapo". "Meglio così?". "Meglio un corno", protestava lei dando del bischero a chiunque. Un delirio. Perciò il panico serpeggiava già diverse ore, se non addirittura giorni, prima del suo ingresso. Fallaci si imponeva anche per i dettagli, i sommari, i titolini che servono per spaziare il testo. Non lasciava scampo. Arrivava come una dea ed una tiranna e metteva a soqquadro il giornale. Si scatenava la guerra una volta che Oriana varcava la soglia dello stanzone albertiniano, una copia di quello del Times, dove c' erano le postazioni dei giornalisti, alcuni dei quali dovevano dedicarsi esclusivamente a lei. Uno di questi era il malcapitato Sandrino Rizzi, capo-servizi degli esteri, la vittima prediletta di Oriana, la quale, forse non ricordandone mai il nome, gli aveva affibbiato un nomignolo alquanto mortificante, soprattutto per un uomo: "Cosino". Rizzi, da parte sua, non osava ribellarsi o protestare.

Non appena udiva la mitica sospirare: "Cosino, vieni qui", Sandrino trottava, si precipitava, accorreva, al fine di soddisfare qualsiasi capriccio di Oriana, che se la prendeva anche con le virgole, anche queste ad un certo punto ne avevano piene le palle dei girotondi a cui Fallaci le costringeva. Le impuntature della fiorentina facevano rabbrividire, si potevano perdere delle ore per un nonnulla, che per Oriana era tutto, perché era una perfezionista ossessiva, una maniaca della punteggiatura.
Dalla mia scrivania, muto, osservavo le grandi manovre fallaciane e queste scene un po' divertito e un po' sconvolto. "Questa donna è una calamità", pensavo. Lo spettacolo si protraeva fino alle 23. Per la redazione, in subbuglio per il pezzo di Fallaci, sembrava ad un certo punto arrivare la tregua quando l' articolo era ormai impaginato. Macché. Era tutta una diabolica finta. Mentre si rileggevano in religioso silenzio i bozzoni delle pagine umidi e odoranti d' inchiostro, all' improvviso si udiva un improperio.

Era Oriana, che era riuscita a ravvisare persino in questa fase qualcosa fuori posto, da rifare, da sistemare, da correggere seduta stante, mandando tutti in crisi psicomotoria. Tipografi che accorrevano con gli occhi sbarrati, correttori di bozze esausti e tremanti. Altro delirio. Alle due del mattino, cascasse il mondo, il giornale si chiudeva. Oriana Fallaci saltellante e vispa come un grillo, lanciata un' occhiata di commiserazione a noi poveri amanuensi, raccattava cappotto e borsetta, scendeva a passo svelto lungo lo scalone e, inghiottita da un' automobile, svaniva nella notte insieme ai nostri incubi. L' indomani il Corrierone con la perla di Oriana in apertura di prima pagina era preso d' assalto in edicola. Oltre un milione di copie vendute. La stampa di mezzo mondo che riprendeva la prosa della matta e ne faceva oggetto di dibattiti che duravano settimane. Allora i giornalisti, orgogliosi di avere partecipato alla costruzione del capolavoro di successo, e godendo di riflesso della gloria di Oriana, si davano di gomito: "Però, la matta ha colpito ancora".


NOTTI INFERNALI
Fu durante una di quelle notti infernali che Fallaci entrò nella mia vita. Nel 1981, o '82, una sera, saranno state circa le 22, dunque ancora nella viva fase di elaborazione di un suo articolo, mentre Oriana era indaffarata, intenta a cambiare un aggettivo, a togliere una virgola, a metterne un' altra, fumando come una ciminiera, ad un certo punto si accorse di avere finito le sigarette. Sul suo viso lessi per un istante un lampo di disperazione. Ma non si perse d' animo e, dopo essersi guardata intorno con una rapida occhiata per scorgere qualcuno che fumasse, come un falco pose i suoi occhi su di me, che avevo un pacchetto di Muratti sulla scrivania, poggiato accanto alla Olivetti portatile. Ed in un soffio me la ritrovai dinnanzi alla postazione di lavoro a me riservata: "O te, bel giovane, mi offriresti una sigaretta?". "Prego", risposi, porgendo un intero pacchetto che avevo estratto dal mio cassetto appositamente per lei. Oriana, risollevata, anzi contentissima come una bimba, tornò al suo meticoloso lavoro di cesello sul suo pezzo. Sennonché, fumando una cicca dietro l' altra, dopo un' ora e mezza aveva già prosciugato le ultime riserve che gli avevo procurato. Era un fumo nevrotico il suo. Rieccola lì, parata davanti alla mia scrivania. Sollevai lo sguardo dalle mie carte e vidi che mi fissava.


"Ne hai altre?", mi chiese. "Non ho più pacchetti, ma te ne do alcune delle mie". Ne estrassi tre o quattro per me e le lasciai il resto. Afferrò il tutto e, prima di girare i tacchi, commentò: "Le Muratti non sono buone, pizzicano in gola".
"Cambierò marca", replicai. "Bravo, vedo che le idee intelligenti non ti mancano". Mi sembrava una matta completa, ma ne ero affascinato, perché Oriana metteva nel suo lavoro una tale foga e concentrazione da suscitare ammirazione. Fallaci terrorizzava chiunque, faceva casini, urlava, non era mai paga di ciò che si stava creando. Non era considerata né era vista come una donna, bensì come una giornalista scassacazzi, una sorta di Attila della carta stampata. Alcuni anni dopo passai da Il Corriere della Sera alla direzione de L' Europeo, il settimanale che aveva lanciato Oriana. Chiamò in redazione chiedendo del direttore. Risposi. Fallaci mi salutò cordialmente, dicendo che le avrebbe fatto piacere incontrarmi per conoscermi di persona. Combinammo l' appuntamento presso il bar di un albergo, a Milano. Non appena mi vide nel luogo convenuto, Fallaci si alzò dalla poltrona e scoppiò a ridere. "Ma tu sei il bel giovane delle Muratti!". "Sì, sono io. Ma adesso fumo Philip Morris".
"Sei peggiorato". Da quel giorno la nostra tribolata amicizia si intrecciò con il lavoro. Erano più numerose le liti delle conversazioni. Oriana si divertiva a questionare, qualsiasi spunto era motivo di piccoli scontri, cui seguivano immancabili riappacificazioni, talvolta precedute da scambi di lettere piccate. Oriana mi chiamava, mi dava suggerimenti sulle tematiche da approfondire, mi segnalava le campagne da sostenere, i motivi per cui battermi. A volte le dicevo che in Italia ormai era cambiata la musica, che era arrivata la Lega, lei replicava: "Ma chi? Quei bischeri? Sono proprio dei campagnoli".

da articolo di Vittorio Feltri per liberoquotidiano.it