Papa Francesco xNel mese di marzo Papa Francesco ha celebrato il suo sesto anno al soglio pontificio. Dal momento della successione a Benedetto XVI, le modalità di gestione della Chiesa Cattolica e dell’apparato politico del Vaticano messe in campo da Bergoglio sono state contraddistinte da numerosi elementi di discontinuità, uno dei quali sicuramente legato al campo della politica estera della Santa Sede. Ratzinger ha messo in campo un ampio, coraggioso e profondo progetto di rafforzamento morale, pastorale ed umano della Chiesa e della Santa Sede. Troppo spesso frainteso da un complesso mediatico pregiudizialmente ostile, e sovrapposto a una scelta “introversa” per quanto riguarda gli affari internazionali. Paradigma ribaltato dal successore di Ratzinger al soglio pontificio, che ha messo in campo una strategia comunicativa forte, basata sulla più profonda disintermediazione, e puntato sul rafforzamento del ruolo politico-diplomatico del Vaticano come strumento di sostegno agli affari pastorali.

 

Forte dello status di primo Papa non europeo dai tempi dell’Impero Romano, Francesco ha messo al centro del suo messaggio ecumenico il tema delle periferie, evocato dal Papa, appena eletto, dalla loggia di San Pietro (“Sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo”) ma accompagnatosi a una scelta di realpolitik che ha portato la Santa Sede, in una proiezione post-europea, a esprimere la propria voce in buona parte dei dossier internazionali.

Lo si è visto a pochi mesi dall’elezione di Francesco, nel settembre 2013, quando assieme a Vladimir Putin Francesco risultò il leader decisivo per scongiurare un attacco statunitense alla Siria di Bashar al-Assad; o, in un altro scenario riguardante Washington, nella grande mediazione per il riavvicinamento tra la superpotenza e Cuba, tentativo di rottamazione di un residuo della Guerra Fredda andato in porto durante l’era Obama. Con il grande obiettivo, sullo sfondo, dell’incontro tra Cristo e Confucio: l’appeasement tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare, che ha avuto il primo stadio nell’accordo sulle nomine episcopali del settembre scorso e potrebbe svilupparsi nel lungo periodo se Oltretevere riuscirà a colorare di porpora l’ingresso dell’Italia nella “Nuova Via della Seta”.

Interprete della politica estera del Vaticano nell’era di Francesco, improntata a una postura posteuropea e post-occidentale è l’abile e scaltro Segretario di Stato, il 64enne cardinale Pietro Parolin, figlio della provincia vicentina roccaforte del Nord-Est cattolico. Parolin ha avuto una formazione “diplomatica” nel Venezuela di Hugo Chavez, Paese in cui Benedetto XVI lo nominò nunzio apostolico nel 2009, in una fase di alta marea nei rapporti tra Santa Sede e Caracas. Nei sei anni bergogliani, Parolin ha gestito diversi dossier con abilità, e si qualifica come l’eminenza grigia del Vaticano negli affari internazionali.

Il duo Bergoglio-Parolin, in un certo senso, si può definire come il capofila di una delle poche linee di politica estera veramente indipendenti tra i Paesi europei: su dossier come la crisi venezuelana, la Russia, la Cina e, come visto, Cuba, il Vaticano si è riuscito a permettere un’autonomia di elaborazione politica che ha notevolmente beneficiato della sua proiezione globale e non ha dovuto mai soggiacere a condizionamenti esterni o logiche di campo.

Vero e proprio punto debole della strategia bergogliana è l’Europa. Per ragioni demografiche, il Vecchio Continente viene considerato retroguardia dell’azione della Chiesa, che conosce una progressiva ritirata connessa, principalmente, al progressivo distacco tra le gerarchie ecclesiastiche e il sentire dei fedeli. Numerosi episcopati nazionali non hanno capito in maniera completa i timori, le inquietudini e le problematiche emerse sulla scia della globalizzazione e della crisi economica. La Chiesa intesa come minoranza agguerrita, combattiva e attiva immaginata da Ratzinger a lasciato il passo a una sua versione molto meno attiva, troppo attenta a scendere a compromessi col “mondo”. Mentre, come hanno fatto notare acuti analisti come Antonio Socci, il Vaticano di Bergoglio alternava lo spirito di iniziativa dimostrato su scala globale a una mancanza di progettualità per il continente che del cattolicesimo è piattaforma storica e culturale.

Francia e Olanda sono i casi più drammatici del declino del cattolicesimo europeo, con il secondo Paese definito “terra di missione” da don Michiel Peeters, missionario olandese della Fraternità San Carlo Borromeo e dal 2012 cappellano dell’Università di Tilburg, in un’intervista a Tempi. Peeters sottolinea come in Olanda “il cristianesimo come tradizione è completamente scomparso, ma Cristo come possibilità di risposta alle attese e ai bisogni dell’uomo non è affatto morto”. E per far sì che la Chiesa conosca, nella terra in cui è diventata l’istituzione mondiale più solida e longeva, una seconda primavera il Vaticano dovrà accorgersi della grande portata di questa sfida. Potenzialmente in grado di determinare, da sè, il giudizio storico sul pontificato di Francesco.

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