bersani dalema Nella lenta agonia della scissione annunciata e mai praticata, che da settimane sta logorando il sistema nervoso e l’entusiasmo anche dei più fervidi sostenitori del Partito Democratico, la direzione di ieri ha segnato un’altra tappa, forse definitiva. La decisione di avviare il percorso congressuale che si concluderà con le primarie di maggio, insieme alla scelta di Michele Emiliano di mollare la rivoluzione socialista lampo -avviata soltanto 72 ore prima -per rimanere e candidarsi alla guida del partito, rischiano di far passare sottotraccia la questione politica più interessante, la vera notizia del giorno. Per la prima volta, infatti, ieri sera Bersani e D’Alema in tv e stamane Guglielmo Epifani in una lunga intervista, hanno rivelato le vere ragioni politiche della “scissione” che stanno tentando.
Finalmente, aggiungerei. Perché uno dei temi più incredibili di queste settimane è, al netto del profondo rancore verso Matteo Renzi che continua ad essere vissuto come un “usurpatore”, l’incomprensibilità della loro scelta, irragionevole persino agli occhi dei loro storici sostenitori, recalcitranti a seguirli fuori dalla casa costruita insieme.

La novità è che Bersani e co. ora la mettono “in politica” e ce la spiegano cambiando anche parzialmente i toni, affidando addirittura a Epifani un flautato “non è un addio, ma un arrivederci”, degno di una commedia sentimentale scritta male.
Non se ne vanno, dunque, perché il nostro è diventato il partito di Renzi e non lo riconoscono più. Se ne vanno perché non credono più nel Partito Democratico, e forse non ci hanno mai creduto. È un cambiamento a 180 gradi, una giravolta che creerebbe difficoltà persino ad uno disinvolto come Michele Emiliano. Che infatti non li ha seguiti.

Ma per la prima volta siamo di fronte alle autentiche ragioni, alla verità. Non credono in questo progetto, non credono nella vocazione maggioritaria, non credono ad un forza capace di rappresentare da sola le istanze di un intero Paese, le aspirazioni di chi vuole sostegno al suo talento e di chi vuole tutela della propria fragilità, l’intera sinistra: quella della protezione e quella delle opportunità. Quella del riscatto di chi vuole emergere e quella della scommessa di chi vuole estendere i diritti. Un partito riformista nell’agenda e radicale nelle scelte.

Un partito che non ha bisogno di coalizioni, di alleati costruiti in vitro a cui “esternalizzare” il compito di andare ad acchiappare target elettorali ai quali non ci rivolgiamo, pezzi di paese che appaltiamo ad altri interlocutori politici.
Ma è esattamente questa la loro idea di sempre: il centrosinistra con il trattino, un progetto vecchio di vent’anni, che non può funzionare sopratutto perché le forze politiche non si costruiscono in laboratorio e perché quei pezzi di Paese, probabilmente, non esistono neanche più. È esattamente quello che Bersani e D’Alema hanno sempre teorizzato, dall’Unione fino alle alleanze con l’UDC a cui appaltare il rapporto con i “moderati”, dai patti con Berlusconi fino alla ben poco gioiosa macchina da guerra di “Italia Bene Comune”, la disastrosa coalizione 2013 che ha condotto il Partito Democratico al peggior risultato della sua storia e che, come se non bastasse, si è dissolta appena entrata in Parlamento.

Siamo di fronte ad una vecchia novità, insomma. Ma almeno sappiamo la verità. Sappiamo che per settimane ci hanno preso in giro. Ci hanno raccontato tutto e il suo contrario: che il tema era il sostegno al governo Gentiloni, poi la conferenza programmatica, il carattere di Renzi, poi la data del congresso, la riduzione delle tasse, le fabbriche, le periferie e il ritorno al socialismo. Così come lo condizioni poste e poi repentinamente cambiate: congresso subito, congresso dopo, congresso mai.
Non era vero niente. È il Pd che non va bene.

Si torni alla coalizione – con una legge elettorale che neanche lo consente al momento – e la sinistra proviamo a farla noi. È roba nostra. Con buona pace di Gianni Cuperlo e Teresa Bellanova, di Walter Veltroni e Piero Fassino, di Matteo Orfini o di Maurizio Martina che rispetto a quella parola hanno ben più titoli da esibire. La cosa incredibile è che questa ammissione non sia accompagnata dalla benché minima autocritica. Quando il Partito Democratico è nato, quando lor signori lo hanno costruito e guidato, Renzi non c’era. Renzi è arrivato poi, a dargli un senso, semmai. Proprio quello che Bersani invocava, citando Vasco, al congresso del 2009 contro Franceschini.

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