capture 084 17122019 212635Comincia oggi una serie di articoli sulla strategia della tensione. Abbiamo preferito affrontare il doloroso argomento, non in coincidenza, ma subito dopo la ricorrenza del cinquantenario della strage di piazza Fontana. In questo caso preferiamo il silenzio alla polifonia mediatica. Certi temi  non dovrebbero essere affrontati solo nelle ricorrenze Il cinquantesimo anniversario della strage di piazza Fontana è stata un’occasione mancata. Mancata per una discussione serena su cosa realmente, quella tragedia, ha rappresentato per l’Italia. Su come ha cambiato la vita del nostro Paese. Su quali sentieri oscuri ha dirottato la nostra storia. Su che cosa fosse la strategia della tensione. Da quali tenebre scaturisse. Quali interessi serviva. Che cosa ci fosse prima di piazza Fontana. Che cosa ci sarebbe stato dopo. In quale nocivo crocevia, interno e internazionale, si trovasse l’Italia in quella fatale fine degli Anni Sessanta. E poi la domanda che brucia di più: perché 36 anni di indagini e di processi sono finiti senza condanne e senza colpevoli? C’è una indicibile verità politica (soprattutto geopolitica) che blocca la verità giudiziaria?

 

Provare a rispondere a queste domande vuol dire tentare di arrivare al cuore del male italiano. Capire perché la guerra civile, in Italia, non è mai finita. Capire come e perché questa discordia cronica sia stata fomentata da poteri occulti e potenze straniere. Fomentata, alimentata ed esasperata per mantenerci nella condizione di figli di un dio minore e di nazione a sovranità limitata. La sovranità è il problema fondamentale dell’Italia, dal dopoguerra a oggi. E ne segna in qualche modo l’identità. Visto che si ripropone in modo drammatico anche ai nostri giorni.

Un punto cruciale del male italiano: piazza Fontana

Piazza Fontana è un punto cruciale nell’anamnesi del male italiano. Il presidente Mattarella, incontrando le vedove di Luigi Calabresi e di Giuseppe Pinelli, ha parlato di «strappo lacerante». Ma, nonostante gli atti di riconciliazione, dal male della discordia cronica, non siamo ancor oggi guariti. Quello “strappo” non s’è mai ricucito. E, per certi versi, quel male s’è aggravato per effetto dell’affievolimento della memoria collettiva. L’oblio dell’odio non cancella il rancore. Serve solo a renderlo rancido.

La triste ricorrenza poteva essere l’occasione per la riconquista di una consapevolezza nazionale. Soprattutto la consapevolezza del fatto che un popolo non potrà mai ridiventare padrone del proprio destino, quindi essere realmente sovrano, se gli viene sottratta la verità sulle sue tragedie.

Invece il cinquantenario appena trascorso è stato vissuto con stanchezza. Come un omaggio rituale, quanto necessario, alla storia del dolore italiano.

Le solite litanie

Sullo sfondo è rimasta intatta la vulgata ideologica con i suoi corollari. Non ci sono colpevoli perché fu una “strage di Stato”. L’Italia perse la sua “innocenza”. Chi mise la bomba (anzi le bombe) voleva una “svolta autoritaria”. Che però non ci fu perché qualcuno ordinò l’alt all’ultimo momento. Come peraltro è regolarmente accaduto nei vari “golpe” tentati in Italia. C’è sempre un contrordine che blocca l’operazione prima della fase esecutiva. Qualcuno che dice ai golpisti in assetto di guerra: «Tornate a casa, che si scuoce la pasta». O una “provvidenziale” rivelazione che la solita manina misteriosa fa piovere sulla scrivania di un magistrato o su quella di un giornalista.

La storia nazionale sarebbe pertanto anche la storia di trame ordite e mai realizzate. Di congiurati frustrati e “servizi deviati”. In Italia ci sarebbero stati i servizi segreti “buoni” e i servizi segreti “cattivi”. Un caso davvero unico nella storia occidentale. Più servizi, quindi più Italie e più Stati? O, per meglio dire, Stati e anti-Stati, Italie e anti-Italie, angeli e demoni, progressisti e reazionari, golpisti e democratici? A cinquant’anni da piazza Fontana, a settantaquattro anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e dalla conseguente sconfitta militare dell’Italia, a settant’anni inoltre dalla nascita della Nato era forse venuto il momento di farla finita con questo mistero schizofrenico e di dire la verità agli italiani. Invece niente. Tutto bene (anzi tutto male) Madama la Marchesa. Lo spettacolo (triste) deve continuare.

Neofascismo, brigatismo, terrorismo

Al dunque, la vulgata sulla strategia della tensione individua nel neofascismo la matrice vera del terrorismo. La causa prima e il cuore di tenebra. Perché la “strage di Stato”, con la “manovalanza neofascista”, sarebbe stato il motore primo del terrorismo italiano. Anche di quello comunista e brigatista. I reduci degli anni di piombo si sono sempre giustificati asserendo che il partito armato fu la reazione alle trame eversive di uno Stato infestato da golpisti. Che fu la scelleratezza conseguenziale alla scelleratezza delle alte sfere pubbliche. Come se non fosse mai esistita una continuità ideale (e anche materiale e organizzativa) tra gli ultimi partigiani che non disarmavano e i primi brigatisti che si armavano. Tra la “Gladio rossa” di Pietro Secchia e le Brigate rosse di Curcio e Franceschini.

Come se Giangiacomo Feltrinelli, estasiato da Castro e Che Guevara, si recasse, negli Anni Sessanta, in Cecoslovacchia per turismo e non per incontrare i partigiani comunisti ivi espatriati dopo aver partecipato alla mattanza dell’immediato dopoguerra. Tutti quei “galantuomini” si riconoscevano nell’ossessione e nel sogno mai abbandonato della grande rivoluzione proletaria e dell’insurrezione armata. Quei sogni, quelle pulsioni alla violenza rivoluzionaria agivano ben prima di piazza Fontana e della “strage di Stato”.

Questa vulgata ideologica, questa interpretazione della stagione del terrorismo, è stata propagandata, per lungi decenni, da tonnellate di giornali e da migliaia di libri. E non sono stati molti i tentativi di contrastarla. Tra questi meritano sicuramente di essere ricordati i libri di Adalberto Baldoni e Sandro Provvisionato (La notte di più lunga della repubblica, A che punto è la notte? , Anni di piombo). In queste opere la strategia della tensione è raccontata nella sua complessità e senza forzature ideologiche. Ed è raccontata come il frutto criminale della teoria degli opposti estremismi. Come cioè il tentativo di esasperare lo scontro fra destra e sinistra per stabilizzare il potere. Una destabilizzazione volta alla stabilizzazione. Ha dichiarato ai giudici Vincenzo Vinciguerra, reo confesso per la strage di Peteano del 1972 in cui morirono tre carabinieri: la strategia della tensione serviva a «destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare l’ordine politico».

E lo Stato rimase con un pugno di mosche in mano

La successione degli eventi, delle inchieste, dei processi dopo la strage di piazza Fontana è nota. Ma è utile comunque ripercorrerla, anche se in estrema sintesi. Prima le indagini in direzione dei gruppi anarchici. Poi l’incriminazione di Pietro Valpreda. In mezzo la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli precipitato dal quarto piano della Questura di Milano. Subito dopo la violenta campagna degli estremisti di Lotta Continua contro il commissario Luigi Calabresi, accusato ingiustamente di essere il responsabile della morte di Pinelli. Questa campagna porterà all’assassinio del valoroso funzionario di polizia per mano di un commando di estremisti di sinistra.

Nel frattempo è emersa la pista nera che conduce ai neofascisti veneti Franco Freda e Giovanni Ventura. I quali entrano nel processo che si celebra davanti alla Corte di Assise di Catanzaro dal 1972. Il trasferimento degli atti ai giudici calabresi è giustificato da motivi di ordine pubblico. Nel processo entrano anche ufficiali del Sid, il generale Gianadelio Maletti e il capitano Antonio Labruna. Ci saranno quindi le condanne nel 1979. Poi le assoluzioni in Appello per insufficienza di prove. Questa complessa vicenda giudiziaria si concluderà nel 1987 con le assoluzioni in Cassazione.

Ma l’iter giudiziario per la strage di piazza Fontana non è ancora finito. Negli anni Novanta si apre una nuova inchiesta a carico di altri neofascisti veneti, Carlo Digilio, Delfo Zorzi, Giancarlo Rognoni e Carlo Maria Maggi, collegati a Freda e Ventura. Sono le rivelazioni di Maggi ad aprire l’inchiesta. Anche qui, dopo le condanne in primo grado, le assoluzioni in Appello e in Cassazione. Tutto si concluderà nel 2005. A 36 anni dalla strage di piazza Fontana non ci sono colpevoli. Lo Stato rimane con un pugno di mosche in mano. La Giustizia è sconfitta.

La stabilizzazione moderata

Se la verità giudiziaria è negata, nondimeno la verità storica è incerta. Chi ordinò la strage? E perché? Certo sono emerse le relazioni pericolose tra ufficiali dei servizi segreti ed estremisti di destra veneti. I primi a fare da collegamento con un “piano superiore” avvolto nelle nebbie. E i secondi ridotti al rango di esecutori. Almeno questo è ciò che emerge dalle dichiarazioni di testimoni e imputati nei vari processi (ivi comprese le dichiarazioni dello stesso Ventura). Va peraltro precisato che la sentenza della Cassazione del 2005 riconosce a Freda e al suo sodale la «responsabilità per la strage di piazza Fontana e gli altri attentati commessi lo stesso giorno». Ma ciò vale solo come condanna morale perché i due estremisti sono stati sono stati già assolti con sentenze passate in giudicato per lo stesso reato.

Detto ciò, è possibile trarre una prima conclusione politica della strategia della tensione. A chi giovò? Non certo a chi vagheggiava “svolte autoritarie”. Che non ci furono. Né ci sarebbero potute essere. Anzi, giudicando la vicenda a posteriori, non si può non concludere che lo stragismo fu seguito da un imponente spostamento a sinistra dell’asse politico italiano. Dunque i mandanti erano apprendisti stregoni? Strateghi maldestri? Golpisti da operetta, ancorché criminali? Ugo Tognazzi la buttò in quegli anni sullo scherzo con il film comico Vogliamo i colonnelli.

Menti raffinate dietro la strage

In realtà c’è poco da scherzare perché dietro la strategia della tensione ci sono menti raffinate. E neanche italiane.

Il fine politico diretto appare quello, come scrive lo storico Angelo Ventrone in un libro pubblicato in occasione della ricorrenza della strage (La strategia della paura, Mondadori) di ottenere la «stabilizzazione moderata del Paese». Le schema era quello di creare una «grande confusione» in cui le responsabilità potessero ricadere in vario modo sia sulla destra sia sulla sinistra, «sui neofascisti, ma forse anche sui marxisti-leninisti». E questo in modo che lo Stato, aggredito contemporaneamente sui due versanti, potesse finire per essere percepito come «l’unico effettivo garante della vita civile, il solo in grado di tutelare la sicurezza della comunità nazionale». E lo Stato, in quegli anni, si identificava in un partito: la Democrazia cristiana, il partito-Stato.

Le piste straniere

È una interpretazione che sembra plausibile. Sicuramente più plausibile delle varie vulgate e dei vari teoremi ideologici che si sono succeduti nel tempo.

Ma non è una spiegazione sufficiente. Perché considera soltanto il piano interno. La strategia della tensione presenta in realtà numerose implicazioni e notevoli profili internazionali. Non a caso, come espressione, non fu coniata neanche in Italia. Il primo a parlare di “strategia della tensione” fu un giornale britannico l’Observer. L’apertura di archivi stranieri dopo la fine della guerra fredda ha offerto agli studiosi una grande messe di documenti. Che indicano prospettive inedite. E in tale direzione si sono rivolte diverse, accurate ricerche.

Da tali ricerche emerge uno scacchiere assai più complesso di quello che si è soliti immaginare. Interessati ai fatti interni italiani non erano soltanto le grandi potenze della guerra fredda, gli Usa e l’Urss, ma anche medie potenze alleate dell’Italia (nonché nostri competitori geopolitici) come la Gran Bretagna e la Francia.

Le diramazioni della strategia della tensione non si svolgono insomma solo lungo l’asse Est Ovest, quello della guerra fredda, ma anche lungo l’asse Nord Sud, quello della competizione energetica nel Mediterraneo. È una storia che parte da molto lontano e che va in qualche modo a incrociarsi con altre storie in quel maledetto 12 dicembre del 1969 a Milano. È l’argomento delle prossime puntate.

(1-Continua)

di Aldo Di Lello  per www.secoloditalia.it