poletti2pppNel 2014 e 2015 il ministro non riteneva necessarie modifiche. Anzi, con uno dei decreti attuativi del Jobs Act ha innalzato il tetto massimo che ogni lavoratore può percepire in buoni. E si è opposto alle proposte per restringerne i settori di utilizzo. Nel 2016 ha cambiato idea: occorreva renderli tracciabili per "evitare furbate". Dopo il via libera al referendum della Cgil per abolirli si è lasciato scappare che era meglio votare prima per rinviarli. Poi ha ritrattato. Ora l'ultima capriola.  “Conservarli seppur introducendo qualche correttivo”. Ma anche: “Riportarli allo spirito originario”. O meglio: “Rimettiamoci mano per evitare abusi”. E quindi? “Le aziende possono utilizzarli, certo, ma senza fare furbate”. Anzi, no: “Li usino soltanto le famiglie”. Tra capriole ed equilibrismi, dichiarazioni d’intenti contrastanti e tentennamenti, il Poletti-pensiero sui voucher si arricchisce di una nuova sfumatura. L’ultima esternazione del ministro del Lavoro, fresca di giornata, recita: “Io credo che i voucher vadano modificati lasciandoli tendenzialmente per le famiglie, per i piccoli lavori, e non per le imprese, che hanno già i contratti di lavoro”.

L’affermazione di Giuliano Poletti di per sé sembrerebbe esaustiva, ma si tratta dell’ennesimo cambio di rotta sui buoni del lavoro da 10 euro diventati la frontiera più estrema del precariato. Con l’ultima giravolta l’ex presidente di Legacoop si allinea di fatto con l’orientamento della commissione Lavoro della Camera, che sta lavorando a un testo unificato di riforma dei voucher e il cui presidente Cesare Damiano proprio mercoledì ha preannunciato che “è stata fortemente sostenuta la tesi di prevedere l’uso esclusivamente per le famiglie e non per le imprese e la pa”. Ma fino a poco tempo fa (prima che la Consulta desse il via libera al referendum sull’abolizione dei buoni) Poletti non era certo di questa opinione.

Prima la sottovalutazione del rischio, poi il tentativo di ridimensionare il problema – All’inizio sembravano non essere affatto una grana da risolvere. Nei primi mesi d’incarico come ministro del Lavoro del governo Renzi, nel 2014, Giuliano Poletti il problema dei voucher semplicemente non se lo pone. Se ne parla sempre di più, soprattutto in rete: emergono le prime denunce di abusi, ma negli uffici del ministero di Via Veneto si continua a fare spallucce. Il momento a partire dal quale non si può più far finta di niente ha una data precisa: il 29 maggio 2015. Quando, cioè, a denunciare i voucher come “la nuova frontiera del precariato” è Tito Boeri in persona, ovvero il presidente dell’Inps scelto da Matteo Renzi. Il quale, da Palazzo Chigi, prova a cavarsela con la più vecchia delle giustificazioni: “Quello dei buoni lavoro è uno strumento che abbiamo ereditato dai precedenti governi”. Il premier e il suo ministro del Lavoro rivendicano che al loro esecutivo non va attribuita alcuna volontà di estenderne l’utilizzo. Cosa che Poletti ripete ancora oggi: “Non abbiamo fatto nulla per ampliare e agevolare i voucher”. E forse dev’essersi distratto, visto che nel Jobs Act che lo stesso Poletti ha tante volte incensato, è stato introdotto l’innalzamento del tetto che ogni lavoratore può percepire in voucher nell’arco di un anno: da 5mila a 7mila euro.

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