Ogni giorno quando si presenta nella sua camera e la accarezza, rimbocca le lenzuola e aspetta un impossibile sguardo, Eros Mischi, 92 anni, si chiede se ne valeva la pena, se questo calvario si poteva evitare, se non c’era un’altra forma di assistenza, accudimento, pietas per rendere meno feroce un addio. Da cinque anni la sua vita non è vita, è rabbia, disperazione, una battaglia persa nel reparto moribondi della residenza sociale assistita Golgi Redaelli, a cercare di ritrovare la donna che era e continua a essere sua moglie diventata un corpo muto, assente, una statua che respira da alimentare, ripulire, alzare, allettare, issare e rivoltare.

 

LETTERA Eros e la moglie in comaL’ammirazione dei figli

L’ora è sempre quella, pomeriggio presto, quando l’assistenza è rarefatta e si prepara il buio. Si porta dietro gesti, sguardi, movimenti, l’odore di mensa e di corsia, la fatica di un vuoto da riempire, ma accetta tutto per tutelare quel che resta di una vita insieme, di un amore che non ha età. I tre figli lo ammirano perché si fa carico di questo per non sconvolgere anche le loro vite, provvede ai costi della degenza che gli porta via l’intera pensione, ottanta euro al giorno, duemilaquattrocento al mese, centoquarantamila in cinque anni. Per fortuna in pensione c’è andato con il massimo, dopo quarant’anni di lavoro, prima alla Pirelli poi al Credito italiano, ispettore e quadro dirigente. Ma è dura convivere con la vita svalutata che ha davanti, accettare un sistema che fa dell’accudimento una catena di montaggio: c’è la fredda e burocratica quotidianità, c’è la rarefazione dell’assistenza, la sensazione di essere sempre più solo nel dolore e nella speranza perduta. Così nei giorni intorno a Natale, quando si sente di più il peso dell’assenza, Eros Mischi ha preso carta e penna e scritto al Corriere. Una lettera, in una bella e antica calligrafia, affidata alle Poste, senza passare dalla Rete e dai social. Poche righe che riassumono il messaggio di un uomo che si domanda cosa si può fare per rendere più dignitoso il prolungamento sine die di un’agonia e si concludono così: «Ben venga l’eutanasia, che ponga fine per entrambi alle nostre tribulazioni. Per favore, fateci morire!».

Viene in mente Eluana

Non c’è una risposta ai mille dubbi che solleva una lettera del genere, ma con la ricostruzione della sua odissea Eros Mischi vuole gettare un sasso nello stagno della rassegnazione, fare in modo che per altri non si ripeta quel che è accaduto a lui. C’è un filo che lega la sua storia ad altre storie, viene in mente Eluana, il tormento del coma apparentemente senza ritorno, la scelta del padre che ha deciso per lei «Ne parlavamo con mia moglie», ricorda Mischi, «mi diceva non vorrei finire così», ma quando capita non c’è preavviso, nessuno immagina di dover gestire una simile emergenza. Sua moglie, cinque anni fa era già malata. Diagnosi di Alzheimer. Poi l’ictus. Ricoverata all’ospedale San Carlo, trasferita al Golgi Redaelli per la riabilitazione. Qui le cose si complicano. Scrive nella lettera: «Per mancanza di esami o per disattenzione non è stato diagnosticato il suo stato di diabetica. Ho notato buste di glucosio in vena. È disidratata, mi dicevano». Poi drastica comunicazione: «Ha cinque giorni di vita. Qui non può morire, verrà trasferita altrove, poi potrà portarla a casa. Ma il responsabile del nuovo reparto in cui viene trasferita riscontra subito il diabete e, purtroppo, la salva…». Questo «purtroppo» gli pesa, è un altro dolore, ma vedere sua moglie «trattata come una valigia da aereoporto» fa male di più. Dal 2012 è in coma: non vede, non parla, completamente paralizzata, alimentata con un tubicino, perennemente sotto ossigeno, dolorante, catetere, pannolone e, da mesi, morfina ogni otto ore. L’assistenza è affidata a una cooperativa. «Come per le pulizie», scrive Mischi. Manda lettere, si indigna, denuncia carenze nell’assistenza anche alla ministra Lorenzin. «Vorrei almeno un pò di umanità». Nessuna risposta.

Il pensiero del suicidio

Ognuno può trarre le conclusioni più opportune: se questa è ancora vita, se bisognava fermarsi prima, se bisogna sempre tentare, se non si deve pensare seriamente al testamento biologico, se l’accudimento delle persone in coma vegetativo in alcune strutture è umano oppure no. Scrivendo questa lettera, Eros Mischi dice di aver forzato se stesso e il suo pudore. «Ho pensato spesso al suicidio e anche all’omicidio». Ha resistito per la ragione, per la speranza, e per qualcosa di più: si chiama dignità.

di Giangiacomo Schiavi  per corriere.it 

Aggiungi commento


Codice di sicurezza
Aggiorna