capture 068 16052020 141731Sulla sua altezza se ne son dette tante. Negli Anni ’20 e ’30 in tantissimi attestavano oltre due metri, a volte con estrema variabilità nei centimetri. In realtà Primo Carnera non ci arrivava, ma di poco: si parla sempre di 197 centimetri, quelli che hanno fatto la storia del pugilato italiano tra le due guerre. Anche a novant’anni di distanza dalle sue imprese, il suo nome in Italia significa tante cose.Carnera nacque a Sequals, un paese che attualmente conta poco più di duemila anime, oggi in provincia di Pordenone, il 25 ottobre 1906. Primogenito di tre figli, discendeva da una famiglia che non navigava nell’oro, con il solo padre che aveva un lavoro, nello specifico quello di mosaicista e da emigrato in Germania. Fisicamente crebbe quasi subito a dismisura, ma il problema era relativo: quello vero giunse allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Il padre, per rispondere alla chiamata alle armi, dovette lasciare il lavoro, ed i Carnera faticarono tantissimo, con Primo, Secondo e Severino, i tre figli, costretti a mendicare.

Primo Carnera aveva degli zii in Francia, e lì andò per cercare di guadagnarsi da vivere. Divenne carpentiere, poi, nel 1925, a Le Mans, assistette a un’esibizione di un circo: il responsabile lo notò e lo ingaggiò. Per tre anni, in breve, fu una sorta di fenomeno da baraccone, fino a quando non incontrò la boxe per la seconda volta.

 

Non fu la prima, perché già ci aveva provato prima di diventare carpentiere, ma fu quella decisiva: a notarlo fu un ex campione francese dei pesi massimi, Paul Journée. In breve si fece largo per la potenza del pugno, anche se c’era ancora da sistemare la tecnica. Finì inizialmente nelle mani di manager (leggere alla voce Léon Sée) senza grandi scrupoli nel cercare di “aggiustare” i combattimenti, all’insaputa di Carnera stesso. Fu sconfitto per la prima volta dopo sei incontri vittoriosi dal tedesco Franz Diener, a Lipsia, per squalifica alla prima ripresa (si prese la rivincita qualche mese dopo alla Royal Albert Hall di Londra), poi in due incontri consecutivi sia lui che l’avversario americano, Young Stribling, subirono allo stesso modo la squalifica, prima a sfavore dell’italiano e poi dello statunitense.

Il 1930 fu l’anno del viaggio di Carnera verso gli Stati Uniti. In breve divenne famoso come “La montagna che cammina lentamente” (“The Ambling Alp“). Erano anni difficili negli States, con la mafia che metteva spesso le mani sulla boxe, ma le qualità del friulano non tardarono ugualmente a venir fuori, con 23 vittorie consecutive, 16 delle quali per KO. Qualcuno esagerò, come Elzear Rioux, che andò al tappeto sei volte in una ripresa e fu poi privato della licenza per combattere dalla commissione dello Stato dell’Illinois. Fu Jim Maloney il primo a sconfiggerlo oltreoceano, ai punti in 10 riprese al Boston Garden. Subito dopo, però, tornò in Europa per sfidare Paulino Uzcudun.

Basco, Uzcudun aveva combattuto nel giugno del 1929 contro Max Schmeling, tra i più celebri pugili tedeschi di sempre, cui è oggi dedicata una delle principali arene sportive di Berlino. Combatté contro Carnera davanti al suo pubblico, a Barcellona, con non meno di 75.000 persone sugli spalti dell’Estadio Montjuic in quel 30 novembre 1930. Il verdetto non fu unanime, ma vide l’italiano prevalere in ragione della sua capacità di rispondere alla tattica tutta d’attacco di Uzcudun colpendo d’incontro. Già allora i successi di Carnera venivano celebrati dal regime fascista, che lo avrebbe fatto assurgere in breve tempo a idolo delle folle italiane.

Il 12 ottobre 1931 sfidò Jack Sharkey, in una sorta di sfida il cui orizzonte si chiamava Max Schmeling, titolo mondiale dei massimi, anche perché l’americano era appena stato da lui sconfitto. Non ci fu storia, dal momento che l’italiano non riuscì mai a essere superiore, ma perlomeno rimase in piedi fino alla fine. Per l’occasione iridata, però, dovette aspettare ancora altro tempo. Dopo fortune spesso positive e raramente negative, nel 1932 scoprì, dopo aver perso con il canadese Larry Gains ai punti, che il suo manager si appropriava di molti guadagni dei combattimenti. Risultato: cambio di gestione e passaggio con Luigi Soresi.

Nel frattempo Sharkey, al Madison Square Garden di New York, aveva sconfitto Schmeling, e impose a Carnera di dover sfidare prima Ernie Schaaf, un ventiquattrenne del New Jersey. Questi aveva rischiato moltissimo contro Max Baer, subendo un atterramento che non ebbe conseguenze peggiori solo perché arrivò il gong della seconda ripresa e i secondi, ad ogni modo, riuscirono a salvarlo.

Il 10 febbraio 1933 si consumò la tragedia, perché tale fu. Carnera, dopo 13 round, mandò al tappeto Schaaf per due volte. La seconda fu fatale. Emorragia cerebrale: morì quattro giorni dopo. Si scoprì che contro il friulano Schaaf non avrebbe mai dovuto combattere, perché già Baer gli aveva causato danni al cervello che non erano reversibili. Per mesi Carnera rimase distrutto, con un grande senso di colpa. Voleva lasciare. Fu convinto a non mollare. Tornò.

Il 29 giugno 1933, al Madison, Carnera ci entrò da sfidante per il titolo mondiale dei pesi massimi. Tre furono gli atterramenti che inflisse a Jack Sharkey: uno nel primo round e due nel sesto. L’ultimo, con un montante destro, fu quello decisivo: KO. Primo Carnera Campione del Mondo dei pesi massimi, dove nessun italiano era mai arrivato. Scrisse due telegrammi. Uno era per la madre, l’altro per Mussolini.

Da quel momento, lui, che non fu mai in realtà fascista, divenne strumento di propaganda del regime come pochi altri e poche altre cose, con il Minculpop che ci mise moltissimo del suo per ergerlo a modello. Tornò a combattere a Roma, a Piazza di Siena, dove mise in palio la cintura mondiale ritrovando Uzcudun, cui strappò anche il titolo europeo, anche se l’iberico finì l’incontro in piedi, come del resto aveva sempre fatto in tutta la sua carriera, senza smentirsi neanche in quest’occasione. Ci fu poi una seconda, a dire il vero impari, difesa contro Tommy Loughran, che fu sì campione mondiale, ma dei mediomassimi, e c’erano quasi 40 kg di differenza. Fu vittoria, netta, ai punti.

Venne poi Max Baer, che pochi mesi prima aveva sconfitto anch’egli Schmeling. Era il 14 giugno 1934, e nell’imminenza del combattimento Carnera si vide arrestato il proprio manager. All’inizio del combattimento ne risentì, andando al tappeto parecchie volte (in alcuni casi portandosi dietro Baer). Il primo di questi atterramenti, causato da un colpo in pieno volto, causò al campione una slogatura alla caviglia di cui risentì per tutto il tempo, subendo altri knockdown, ben sei, finché l’arbitro decise che era inutile continuare. Baer vinse per KO tecnico e divenne Campione del Mondo. Carnera dovette osservare due mesi di convalescenza.

Dopo alcuni match in cui sembrò ritornare in buona forma, il friulano decise, il 15 luglio 1935, di combattere allo Yankee Stadium contro Joe Louis, otto anni in meno di lui. Fu una scelta che gli si ritorse contro: Louis, che sarebbe diventato un grandissimo, lo atterrò tre volte nella sesta ripresa. KO tecnico.

Carnera non volle rassegnarsi al lento declino: continuò a combattere, perse gli incontri, ma non la voglia, mentre il regime iniziò a dimenticarlo con la stessa velocità con cui lo aveva osannato. Nel 1937 gli fu diagnosticato un diabete, e si fece togliere un rene. Sposò Giuseppina Kovacic, ebbe due figli, poi dovette fermarsi per la guerra. I partigiani, che lo credevano fascista, volevano giustiziarlo, ma lui, apartitico da sempre, fu salvato da Leonardo Picco, Capo di Stato Maggiore del “Gruppo Sud” delle Brigate Osoppo.

Si concesse ancora al pugilato per cinque volte dopo la guerra, con due vittorie e tre sconfitte, prima che l’ultima contro Luigi Musina gli facesse dire definitivamente addio. Con un record di 89-14 nella boxe cambiò sport, passò alla lotta libera, che praticò per moltissimi anni con discreti risultati. Si dedicò anche alla carriera di attore e recitò in una ventina di film, spesso con ruoli secondari. Gli ultimi anni furono segnati dalla cirrosi epatica, che lo consumò fino alla morte, avvenuta là dove era nato il 29 giugno 1967. Non una data a caso. Oggi, tra i tanti tributi alla sua memoria, a Udine, c’è un palasport che porta il suo nome.

di Author Federico Rossini per www.oasport.it