capture 229 27052020 110011Nelle cronache quotidiane, purtroppo, abbondano i casi di multe imposte a cittadini ritenuti in violazione, da singoli agenti delle forze dell’ordine, delle stringenti misure di contenimento della libertà di circolazione pensate per prevenire (o, quantomeno, rallentare) la diffusione del Coronavirus. Tra questi, tre ci sembrano particolarmente degni di attenzione.

Il primo episodio ha visto protagonista un uomo di Vigliano, nel Biellese, sanzionato dalle forze dell’ordine perché sorpreso, all’uscita del supermercato, con tre bottiglie di vino e un pacco di pasta, e perché in bicicletta e non a piedi. L’ammenda è stata emessa in base alle seguenti considerazioni: che il comportamento dell’uomo lo avrebbe messo a rischio di incidenti (visto che si è mosso in bici e non piedi: e in quel malaugurato caso avrebbe potuto aumentare il numero di pazienti al pronto soccorso) e che questi non avrebbe rispettato l’ordine di spostarsi solo per motivi validi o per necessità (tale non è stato considerato, dai militari, l’acquisto effettuato, date le tre bottiglie di vino).

Il secondo caso ha interessato un avvocato di Pescara, multato da una pattuglia della Guardia di Finanza per essere stato fermato, di ritorno verso la sua abitazione, in macchina intorno alle 23, «senza comprovate esigenze lavorative» (l’avvocato stava rientrando dal suo ufficio, e ha affermato di aver mostrato ai finanzieri i fascicoli che aveva con sé, i tesserini, le carte bollate, i registri: «ma non c’è stato nulla da fare»).

 

La terza vicenda ha toccato un cittadino marchigiano, che, essendosi recato in un comune (Civitanova Marche) diverso da quello di sua residenza (Potenza Picena), si è visto multare dalla polizia municipale per quello spostamento giudicato “non necessario”: e ciò, nonostante questi avesse – scontrino alla mano – dimostrato di essere stato costretto allo spostamento dal fatto che l’unico rivenditore di carne halal, ossia di quell’unico tipo di carne il cui consumo è ammesso dalla sua religione, fosse presente nel territorio di Civitanova. Diamo per scontato che le storie si siano svolte proprio in questi termini. A raccontarle così, potrebbero anche sembrare l’inizio di barzellette neanche troppo divertenti: invece, esse finiscono per rappresentare degli istruttivi apologhi. E non, come si potrebbe pensare, pedagogicamente orientati a ispirare un rispetto profondo per il comando dell’autorità, ma piuttosto esemplificativi di come dietro lo “zelo” del servitore della legge – di una legge confusa, imprecisa, a tratti “arbitraria” – possa celarsi una indebita compressione delle libertà individuali.

Guardando al caso di Vigliano, si potrebbe essere tentati da una facile considerazione. Nella busta della spesa dell’uomo non c’erano solo tre bottiglie di vino, ma anche un pacco di pasta: e, se della essenzialità dei primi qualcuno potrebbe dubitare, nessuna controversia può darsi a fronte dell’ultimo, di questo genere alimentare nessuno può dubitare. Si potrebbe allora dire – adottando il linguaggio dei penalisti – che la presenza di quel pacco di pasta abbia “scriminato” il comportamento dell’uomo: egli è uscito “legittimamente” per comperare un bene di prima necessità e il fatto che ne abbia acquistato anche qualcuno (asseritamente) non tale, avendolo peraltro fatto all’interno dello stesso negozio, non vale certo a rendere “illegittima” quell’uscita. Ma sarebbe una considerazione tanto facile quanto debole, dimentica di un elemento di fondamentale importanza.

Al momento attuale, infatti, non sussiste un elenco di beni che possano essere considerati “essenziali” o “non essenziali”, attributi che – peraltro con grande difficoltà – il Governo ha impiegato solo nei confronti delle attività imprenditoriali: tra queste, figurano i negozi di generi alimentari, globalmente considerati, senza distinzione alcuna – inclusi, dunque, tanto la pasta quanto il vino!

Ad essere sinceri, conserviamo grosse riserve sull’ammissibilità di un provvedimento, ancorché generale e astratto, che si incarichi di stabilire quale cibo o bevanda sia essenziale: ma a maggior ragione siamo preoccupati da una decisione a tal proposito adottata, e in modo del tutto discrezionale, da un singolo esponente delle forze dell’ordine… Altrettanto sorprendente è l’obiezione in merito alla scelta del mezzo di trasporto: abbiamo riletto i vari decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri (DPCM) delle scorse settimane, e non abbiamo trovato niente che non tanto imponga, ma anche solo raccomandi di non utilizzare la bicicletta per recarsi al supermercato.

Come si legge sulla pagina ufficiale del sito del Ministero della Salute, l’utilizzo della bicicletta, nel rispetto della distanza interpersonale di almeno un metro, è soggetto alle misure restrittive del DPCM del 9 marzo 2020, a norma del quale non è giustificato l’utilizzo del mezzo per lo svolgimento di attività motoria o per allenamento, quando impiegato oltre i confini del proprio territorio di domicilio, abitazione o residenza. Anche qui, quindi, non si intravedono motivi in grado di giustificare la sanzione.

Queste considerazioni diventano ancora più ovvie spostandosi al caso di Pescara, in cui i militari della Guardia di Finanza non avrebbero dovuto avere alcuna difficoltà a prestare fede alla giustificazione offerta dall’avvocato sul motivo del suo rientro a casa a un’ora così tarda, data la loro “familiarità” con questa attività professionale… Parzialmente diverso è, invece, il significato dell’ultimo episodio, quello del cittadino marchigiano, che ci sembra essere – in un certo senso – addirittura il più “grave”, perché quello in grado di rendere più immediata ed evidente la sua “intollerabilità”.

È opportuno, in proposito, partire da un punto fermo. Come abbiamo avuto modo di scrivere altrove, condizioni di oggettiva, imprevedibile ed estesa emergenza – quali sono quelle che stiamo vivendo in questi giorni – possono richiedere di accettare ingerenze pubbliche nell’esercizio dei diritti individuali più marcate del solito: ciò non equivale, però, ad arrendersi all’idea che queste ultime possano essere adottate extra ordinem, oltre, cioè, le forme costituzionali.

A tal proposito è fondamentale chiarire che il muoversi all’interno delle forme costituzionali non è questione di solo “formalismo”, ma anche di sostanziale rispetto dei valori irrinunciabili della società liberal-democratica e dei limiti intrinseci che questi pongono nei confronti dell’esercizio del potere pubblico, a tutela dei diritti individuali che precedono qualsiasi organizzazione collettiva. Detto altrimenti, se la situazione di emergenza giustifica delle “limitazioni” più stringenti del solito (quando razionalmente e dimostrabilmente orientate a risolvere o non aggravare quella situazione di emergenza), non autorizza di certo la “sospensione” dei diritti individuali costituzionalmente garantiti. Inclusa, ovviamente, la libertà religiosa – che è stata, in effetti, già straordinariamente compressa, con il divieto di celebrazione delle funzioni sul territorio nazionale: una simile previsione, che sarebbe irricevibile in un contesto ordinario, è tollerata proprio perché ragionevolmente finalizzata a scongiurare occasioni di assembramenti e, quindi, di facile contagio. Ma un simile pericolo non si rinviene nel caso sopra riportato: non si pongono, quindi, le condizioni per pensare di “bilanciare” la libertà personale (che è la regola) con le esigenze della collettività (che sono l’eccezione).

E questo – ancora una volta, come già nel caso di Vigliano – anche senza dover richiamare il dato positivo attualmente vigente, il quale non pone alcun dubbio circa il fatto che rientri nelle condizioni di «assoluta urgenza» di cui al DPCM 22 marzo il recarsi nel territorio di un comune diverso dal proprio, quando in questo sia presente l’unico rivenditore di zona del solo tipo di carne il cui consumo è ammesso dalla propria religione.

Insomma, queste multe si sarebbero proprio dovute evitare. Esse, probabilmente, si inseriscono in un contesto da sovra-eccitazione giustificato dalla paura del virus come di un nemico invisibile, e che ha visto proliferare gruppi social di “delatori”, cacce ai runner moderni “untori”, racconti esagerati (e esasperati) di infrazioni e di disobbedienti vari… Ma sono, a loro modo, particolarmente significative.

Nelle storie che vi abbiamo raccontato, infatti, dei militari si sono arrogati il diritto di decidere cosa fosse essenziale e cosa non lo fosse, quale diritto individuale si potesse esercitare e quale no, senza che ci fosse una previsione di legge in proposito e a loro sostegno. Il loro “zelo” è stato, dunque, “eccessivo” non perché troppo rigoroso, ma perché praeter (se non addirittura contra) legem – perché, cioè, applicativo di divieti che non esistono.

E se è vero che singoli episodi non possono essere elevati a regola, è altrettanto vero che non sembra peregrino esprimere una seria e fondata preoccupazione sul livello di consapevolezza democratica e liberale di alcuni tra i nostri servitori della legge, vista la rapida successione di vicende tutte avvinte dal comune tratto di affronto alle libertà costituzionalmente garantite.

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