capture 251 29052020 111439Caratteristiche e normativa di contrasto degli hate crimes

1. Introduzione

Non esistono le razze, il cervello degli uomini è lo stesso. Esistono i razzisti. Bisogna vincerli con le armi della sapienza. 
Rita Levi-Montalcini

L’apologia del nazismo e i continui attacchi antisemiti, i cori razziali nelle curve degli stadi, il pericolo della violenza di matrice suprematista, l’orribile contatore dei femminicidi, gli atti di bullismo contro disabili, le vigliacche discriminazioni contro le comunità gay. 

Notizie che leggiamo tutti i giorni: crimini legati dal filo rosso dell’odio contro chi è diverso per razza, religione, genere, orientamento sessuale. Episodi che, al di là di numeri e statistiche, sono il segno di passioni malate che non possono essere sottovalutate e che vanno subito arginate.

Fin dall’antichità l’umanità si interroga sul concetto di odio nel suo significato ontologico, filosofico e morale. Chi nasce prima e chi è più forte, l’odio o l’amore? L’uomo è naturalmente cattivo o naturalmente buono? Qual è la forza che tiene unito il mondo, il bene o il male?

 

La storia del pensiero e la scienza hanno dato risposte diverse, spesso contraddittorie, a questioni così complesse, seconde soltanto alla domanda sull’origine della vita.

Un volo radente sulle varie impostazioni va da chi, come Empedocle nell’antica Grecia, sosteneva che il mondo fosse in continua tensione tra due forze divine, l’Amore e l’Odio, dove il primo tiene insieme le quattro radici dell’acqua, fuoco, terra e aria e il secondo divide questa armonia chiamata Sfero; a tutte le teorie secondo cui, invece, l’uomo nasce cattivo, l’homo homini lupus di Hobbes, fino Nietzsche e Freud che, nella comune idea della morte di Dio, preannunciano la distruzione di tutto da parte dell’uomo per l’odio che cova dentro di lui. 

C’è il dibattito scientifico di chi ritiene che la violenza sia necessaria alla stessa sopravvivenza nel grande cerchio della vita, come sostenuto da Lorenz, o chi crede che le potenzialità del bene e del male siano egualmente presenti nella natura umana come l’etologo tedesco Eibesfeldt. 

E la diatriba coinvolge lo stesso concetto di cultura e civiltà: con la teoria del buon selvaggio di Rousseau secondo cui l’uomo nasce buono e diventa feroce e corrotto con la civilizzazione, ai tanti, filosofi e scienziati, che sostengono la tesi opposta, del bruto addomesticato, secondo cui l’uomo è Caino ed è l’animale più feroce della Terra che gode a torturare e ad uccidere persino i propri fratelli. 

Uno studioso di neuroscienze che insegna ad Harvard, Steven Pinker, ha scritto Il declino della violenza (Milano, Mondadori 2017), dove sostiene che, al di là della percezione generale e diffusa, si assiste oggi ad un declino della violenza, dove la società attuale vivrebbe, dati alla mano, l’epoca più pacifica della storia. Nel Medioevo il tasso di omicidi in Europa era, infatti, trenta volte quello attuale in proporzione alla popolazione e la schiavitù, le torture e le pene capitali erano all’ordine del giorno. 

Il crollo dei crimini di oggi sarebbe il frutto della prevalenza dei “migliori angeli” della nostra natura che sono l’empatia, la socializzazione, la capacità di mediare i conflitti, la morale e la ragione che vincono sui nostri “peggiori demoni” che sono la predazione, la violenza, l’estremismo ideologico e il buio delle coscienze.

Lo stesso filosofo Zygmunt Bauman si è occupato dell’odio, riprendendo le teorie freudiane e richiamando quel concetto di paura con cui si confronta ogni giorno chi si occupa di sicurezza. Secondo Bauman odio e paura sono vecchi quanto il mondo e non smetteranno di accompagnarlo. Esiste un circolo vizioso in cui si odia perché si ha paura del diverso e quella paura alimenta e rinforza l’odio, in un mondo liquido dall’individualismo sfrenato, dove nessuno è un compagno di viaggio ma tutti sono antagonisti da cui guardarsi. L’incertezza che domina la nostra società amplifica la paura del diverso (sempre esistita) e nasce il bisogno di scaricare su di un bersaglio (sia migrante o ebreo, gay o musulmano, disabile o nero) tutto l’odio e la rabbia repressa.

Tutte queste potrebbero sembrare mere speculazioni filosofiche ed esercizi di stile se non fosse che di odio sono piene ogni giorno le nostre cronache e che i temi dell’odio sono in cima a tutte le agende di chi si occupa di politica, di sicurezza, di educazione. 

L’obiettivo di questo inserto è allora quello di affrontare l’odio come categoria criminologica dalla prospettiva degli operatori della sicurezza.

A testimonianza di quanto spesso il concetto sia divisivo, non esiste una definizione giuridica dei crimini d’odio, pur trattandosi di reati fortemente connotati dal pregiudizio per una caratteristica della vittima che attiene a un aspetto profondo della sua identità e di quella del gruppo cui appartiene.

Reati, vedremo, che si distinguono per la plurioffensività, il cosiddetto under-reporting, under-recording e per il rischio di escalation.

Materia che richiede una formazione mirata degli operatori e che rappresenta il cuore della missione istituzionale dell’Oscad (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori), best practice italiana, originale nel panorama internazionale, che opera dal 2010 nel Dipartimento della pubblica sicurezza per ottimizzare l’azione delle forze di polizia a competenza generale nella prevenzione e nel contrasto dei reati di matrice discriminatoria.

La sfida perché tolleranza ed inclusione diventino aspetti fondanti della nostra società è ancor più complessa se è vero che alle minacce del mondo reale si affiancano oggi i pericoli dell’odio on line, con potenzialità devastanti sulle vittime a fronte di strumenti di contrasto che non hanno ancora quella tempestività che imporrebbe la velocità diffamante del Web.

L’antidoto più potente non può essere allora che la cultura per combattere l’ignoranza di chi ha paura del diverso, di chi si chiude negli stereotipi e non sa guardare oltre. E le forze di polizia giocano un ruolo centrale nel bloccare ogni forma di intolleranza prima che degeneri in sofferenza, distruzione e morte con crimini che hanno già infamato la storia dell’umanità. Niente può essere sottovalutato, la mente deve essere sempre attenta e lucida perché “il sonno della ragione genera mostri”.

*direttore centrale della polizia criminale, presidente dell’Oscad

2. I crimini d’odio

Solo una mente educata può capire un pensiero diverso dal suo senza avere bisogno di accettarlo. 
Aristotele

In Italia non esiste una definizione giuridica di crimine d’odio. Viene in genere utilizzata quella elaborata dall’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti Umani (Odihir) dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) in base alla quale il crimine d’odio è un reato, commesso contro un individuo e/o beni ad esso associati, motivato da un pregiudizio che l’autore nutre nei confronti della vittima, in ragione di una “caratteristica protetta di quest’ultima. Il crimine d’odio, quindi, si caratterizza per la presenza di due elementi: un fatto previsto dalla legge penale come reato (cosiddetto reato base) e la motivazione di pregiudizio in ragione della quale l’aggressore sceglie il proprio “bersaglio”.

Questo è il motivo per cui i crimini d’odio vengono anche definiti target crimes o message crimes per evidenziare che si tratta di reati con uno specifico bersaglio, attraverso i quali l’autore intende lanciare un messaggio di non accettazione di quella persona e della relativa comunità di appartenenza.

Le caratteristiche protette

Con tale definizione ci si riferisce ai tratti distintivi fondamentali, condivisi da un gruppo di persone, che riflettono un aspetto profondo dell’identità di un individuo e creano un’identità tipica del gruppo. Tra le caratteristiche più diffusamente protette dagli ordinamenti giuridici democratici vi sono: la “razza” (o, più correttamente, l’origine etnica), il credo religioso, la nazionalità, l’orientamento sessuale, l’identità di genere, la disabilità.

Queste caratteristiche possono essere reali, quando la vittima (o un bene, come ad esempio un luogo di culto, in qualche modo collegato al gruppo) possiede, appunto, la caratteristica che la identifica come appartenente ad una determinata minoranza o presunte, quando l’autore del reato sceglie la vittima ritenendo erroneamente che sia legata al gruppo di minoranza.

Si parla di “discriminazione per associazione” quando la vittima, sebbene non appartenente a una specifica “comunità di minoranza” viene colpita, perché in qualche modo ad essa legata (ad esempio un individuo può essere aggredito in quanto coniugato con una persona di colore).

Nel caso in cui la vittima venga colpita perché espressione di più caratteristiche protette (ad esempio in quanto persona di colore e musulmana oppure omosessuale e disabile), si parla di “discriminazione multipla”.

La specificità

I crimini d’odio si caratterizzano per la plurioffensività, l’under-reporting, l’under-recording e il rischio di escalation.

Sono anzitutto reati plurioffensivi, ossia producono effetti a più livelli. Nel momento in cui un crimine d’odio viene commesso, esso colpisce, in primo luogo, la vittima (che è stata scelta proprio in ragione di una, o più, caratteristiche protette). Tuttavia, tenuto conto che quella caratteristica contribuisce a definire un’identità condivisa per una determinata comunità, l’aggressione non limita i propri effetti dannosi alla vittima, ma lede indirettamente anche il “gruppo di minoranza” di cui essa fa parte. Nei casi più gravi, può addirittura essere messa a repentaglio la coesione sociale, con gravi ripercussioni sull’ordine e sulla sicurezza pubblica.

L’under-reporting è il fenomeno per il quale le vittime e i testimoni di crimini d’odio tendono, per varie e complesse motivazioni (soprattutto di carattere psicologico), a non denunciarli.

Tra le principali ragioni per le quali vittime e testimoni hanno difficoltà a denunciare vi sono:

non aver cognizione (o rifiutare) il fatto che l’aggressione sia motivata dal pregiudizio nei confronti di quella caratteristica protetta di cui spesso ci si autoincolpa;

non aver fiducia nelle forze di polizia e temere che non vengano attivate indagini accurate;

paura di compromettere la propria privacy (è il caso di molti reati commessi contro appartenenti alla comunità Lgbti);

timore di ritorsioni;

non conoscenza della lingua e del sistema giuridico nazionale.

Quando si parla di under-recording ci si riferisce, invece, al fenomeno per il quale le forze di polizia non riconoscono la matrice discriminatoria del reato denunciato e, conseguentemente, non lo registrano né lo investigano come tale.

Questo può accadere per diverse motivazioni:

mancato riconoscimento dei cosiddetti indicatori di pregiudizio (o “bias indicators”) ossia degli elementi indiziari che consentono di rilevare la motivazione discriminatoria del reato (dei quali si dirà diffusamente più avanti);

scarsa sensibilità/mancanza di formazione adeguata sul fenomeno;

carenza di risorse.

Infine, il rischio di escalation deriva dall’accettazione sociale della discriminazione contro taluni gruppi di minoranza (fenomeno della cosiddetta normalizzazione dell’odio) che favorisce l’aumento dei crimini d’odio. Infatti, laddove comportamenti discriminatori a bassa intensità vengano accettati dalla società perché non percepiti come offensivi – ma, magari, interpretati, come battute o episodi di goliardia – e quindi non adeguatamente contrastati, vi è un forte rischio di escalation. Da atteggiamenti o comportamenti basati sul pregiudizio si può passare ad atti di discriminazione (nell’accesso a pubblici servizi, al lavoro, ecc.), fino a giungere a veri e propri reati: vandalismi, profanazioni di luoghi sacri, minacce, aggressioni.Tale concetto è rappresentato dalla cosiddetta Piramide dell’odio dell’Anti defamation league (Adl).

3. I discorsi d’odio 

È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio. 
Einstein

Se per il concetto di crimine d’odio non c’è definizione giuridica sul piano nazionale, per il discorso d’odio non c’è neppure una definizione univoca a livello internazionale.

Secondo la Raccomandazione (97)20 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa: “con il termine discorso d’odio (Hate Speech) si intende qualunque forma di espressione che diffonda, inciti, promuova o giustifichi l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza, incluse l’intolleranza espressa attraverso il nazionalismo aggressivo e l’etnocentrismo, la discriminazione e l’ostilità contro le minoranze, i migranti e le persone di origine migrante”.

Una ulteriore definizione viene desunta dalla decisione quadro 2008/913/GAI, per la quale costituisce discorso d’odio “ogni comportamento consistente nell’istigazione pubblica alla violenza o all’odio nei confronti di un gruppo di persone, o di un suo membro, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica”. 

In materia di “discorso d’odio”, assume fondamentale rilievo l’esigenza di bilanciare i principi che, nel sistema giuridico nazionale, sono statuiti agli articoli 2 (riconoscimento dei diritti inviolabili) e 3 (pari dignità ed uguaglianza davanti alla legge) della Costituzione con il principio di libera manifestazione del pensiero ex art. 21 della stessa Carta.

Al riguardo, va considerato il principio stabilito dalla Corte di Cassazione, in armonia con le indicazioni della Corte europea dei diritti umani, secondo il quale: “Nel possibile contrasto fra la libertà di manifestazione del pensiero e la pari dignità dei cittadini, va data preminenza a quest’ultima solo in presenza di condotte che disvelino una concreta pericolosità per il bene giuridico tutelato” (Cass. Pen. 36906/2015).

In ogni caso, lo strumento normativo utilizzato per contrastare penalmente il discorso d’odio è l’art. 604 bis cp (ex art. 3 l. 654/75) “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”, di cui si tratterà nella parte dedicata alla normativa.

Hate speech on line

L’espansione del Web e l’avvento dei social network hanno reso la comunicazione sempre più immediata, grazie ad una tecnologia facilmente accessibile che rende istantanea la diffusione delle informazioni a livello globale. Anche il discorso d’odio ha trovato in rete un fertile terreno di diffusione obbligando tutti gli attori coinvolti – le istituzioni pubbliche, tra le quali le forze di polizia, le organizzazioni della società civile ed i singoli utenti – a confrontarsi con nuove sfide.

Secondo diversi autori, l’odio on line si caratterizza per essere:

1. permanente nel tempo: il discorso d’odio tende a restare on line per molto tempo; più a lungo rimane accessibile, più elevato è il rischio che produca effetti dannosi;

2. itinerante e ricorrente: l’architettura delle piattaforme web influenza molto la dinamica della diffusione, che può essere itinerante e ricorrente. Un contenuto rimosso, infatti, può apparire sotto un altro nome e/o titolo sulla stessa piattaforma o altrove (non a caso si dice che il Web non dimentica);

3. associato all’idea di anonimato e impunità: il proliferare di espressioni di odio è favorita dall’idea di anonimato e di impunità associata all’utilizzo di internet e dalle modalità di interazione sui social network. Gli autori di hate speech spesso non riflettono sulle possibili conseguenze dei propri atti e non percepiscono il potenziale impatto dei loro messaggi d’odio sulla vita reale delle persone. Diversi studi hanno dimostrato che i cosiddetti “leoni da tastiera” non manifestano in quei termini il loro odio quando sono offline.

La natura stessa del Web rende evidente il fatto che il contrasto all’hate speech on line non possa essere affrontato dai singoli Paesi, ma necessiti, invece, di un approccio su base internazionale. 

A livello Ue sono stati recentemente compiuti importanti passi in avanti, a partire dalla sottoscrizione, nel maggio 2016, del “Codice di condotta per lottare contro le forme illegali di incitamento all’odio on line” da parte della Commissione europea e di Facebook, Microsoft, Twitter e You Tube. La sottoscrizione impegna le “aziende informatiche” a reagire con maggiore prontezza per contrastare i contenuti di incitamento all’odio razziale e xenofobo che vengono loro segnalati. L’obiettivo è quello di dare una risposta più adeguata agli utenti che segnalano tali contenuti e garantire maggior trasparenza sulle notifiche e sulle cancellazioni effettuate, grazie anche alla creazione di una rete di “relatori di fiducia” (trusted flaggers) che trasmettano segnalazioni di qualità.

Come anticipato, il Codice definisce il discorso d’odio (“Illegal hate speech”), richiamando la decisione quadro 2008/913/GAI.

A giugno 2016, la Commissione europea ha, poi, istituito il “Gruppo ad alto livello sulla lotta contro il razzismo, la xenofobia e altre forme di intolleranza” (cui Oscad partecipa con propri rappresentanti) nel cui contesto è stato, tra l’altro, attivato un tavolo di lavoro in materia di hate speech on line che prevede un meccanismo di monitoraggio dell’applicazione del Codice di condotta, con particolare riferimento alle percentuali e alle tempistiche di rimozione dei contenuti illeciti segnalati, che in tre anni, dal 2016 al 2019, ha fatto registrare un costante miglioramento dei dati.

A livello nazionale, esistono notevoli difficoltà nel perseguire quei contenuti che, ai sensi della normativa citata (art. 604 bis cp), configurano una condotta penalmente illecita. In molti casi, infatti, i server dei social network (o dei siti) sui quali sono presenti contenuti illegali sono allocati in Paesi, ad esempio gli Stati Uniti d’America, che non criminalizzano i cosiddetti “reati d’opinione”, tra i quali vengono annoverati i discorsi d’odio.

Ciò scoraggia l’attivazione delle lunghe e costose procedure di “rogatoria internazionale” finalizzate all’acquisizione all’estero dei necessari elementi di prova, atteso che l’esperienza operativa ha fatto ripetutamente riscontrare il rigetto della richiesta, da parte delle autorità giudiziarie di quei Paesi.

4. Le vittime

di Elisabetta Mancini*

Ho imparato che le persone dimenticheranno quello che hai detto, dimenticheranno quello che hai fatto, ma non dimenticheranno mai come le hai fatte sentire. 
Maya Angelou

I crimini d’odio si caratterizzano anche per la particolare vulnerabilità delle vittime.

I bisogni tipici di ogni vittima di reato (di protezione, di informazione, di ascolto, di rassicurazione) assumono connotati particolari per la natura degli hate crimes che vanno a colpire un aspetto identitario della persona offesa. 

Spesso i crimini d’odio non vengono riconosciuti come tali dal contesto sociale, rimangono nel sommerso, vengono banalizzati alla stregua di goliardie e la stessa vittima talvolta non si riconosce come tale, benché umiliata nella sua dignità. Queste vittime, più di altre, provano vergogna, senso di colpa, solitudine: emozioni che possono farle apparire reticenti, meno collaborative e l’operatore di polizia deve saper andare oltre a quello che viene detto o non detto, riuscire a capire che dietro rabbia e aggressività c’è spesso tanta paura.

Spesso la vittima è straniera, non conosce le procedure italiane e può essere spaventata dalle possibili ritorsioni conseguenti al fatto che vengano resi pubblici i dettagli del crimine che ha subìto.

All’operatore non può bastare l’ordinario bagaglio culturale e di esperienza sufficiente per intervenire nella generalità dei casi: deve acquisire informazioni precise sull’ambiente religioso ed etnico, sulle tradizioni della vittima, perché basta una parola fuori posto o una battuta non capita, per creare una barriera con chi ha un background culturale diverso.

Mai come in questi casi pregiudizi e stereotipi sono i nemici più insidiosi per l’operatore di polizia, che deve allontanare le proprie convinzioni e porsi in posizione di accoglienza e comprensione senza sovrastrutture che potrebbero alternarne il giudizio. Mai minimizzare, mai banalizzare, mai esprimere giudizi morali che potrebbero compromettere il rapporto con la vittima.

L’obiettivo è quello di creare un rapporto di rispetto e fiducia, che non significa che l’operatore debba avere un atteggiamento passivo, dove invece serve un ascolto attivo e la necessità di verificare, come sempre, le informazioni fornite dalla vittima. 

Sotto il profilo normativo i diritti delle vittime, anche quelle dei reati d’odio, hanno trovato nuova cittadinanza nel nostro ordinamento con il recepimento della Direttiva 2012/29/Ue, cosiddetta “Direttiva vittime” ad opera del dlgs 212/2015. Una vera e propria rivoluzione del nostro sistema di giustizia penale dove, fino ad allora, il processo era tutto imperniato sul bilanciamento dei poteri tra accusa e difesa, sulle figure del giudice, del pubblico ministero e dell’imputato e dove l’interesse della vittima era confinato esclusivamente al risarcimento del danno. 

A tutte le vittime sono oggi riconosciuti precisi diritti, ai quali corrispondono altrettanti obblighi che sinteticamente danno voce ai loro bisogni, di essere informate, di avere un ruolo attivo, di veder riconosciuto rispetto, protezione, ascolto, aiuto nell’accesso alla giustizia, rimborsi economici e supporto psicologico.

In particolare, per gli aspetti d’interesse della polizia giudiziaria, la vittima ha diritto ad ottenere, in una lingua a lei comprensibile, informazioni in merito alle modalità di presentazione della denuncia/querela, al suo ruolo nelle indagini e nel processo, allo stato del procedimento, alla possibilità di ottenere consulenza legale e patrocinio a spese dello Stato, al diritto ad un’interpretazione/traduzione nella sua lingua, ad eventuali misure di protezione, alle modalità di contestazione di eventuali violazioni di propri diritti e alle procedure per ottenere il rimborso delle spese (art. 90 bis cpp).

In caso di delitti commessi con violenza contro la persona, la vittima può far richiesta di ottenere informazioni in merito ai provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva, le deve essere data tempestiva notizia dell’evasione dell’imputato o del condannato, nonché della volontaria sottrazione dell’internato all’esecuzione della misura di sicurezza detentiva (art. 90 ter cpp).

Le vittime dei crimini d’odio rientrano poi pienamente nella categoria delle vittime “particolarmente vulnerabili” di cui all’art. 90 quater cpp, secondo il quale “la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa è desunta, oltre che dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. Per la valutazione della condizione si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato”.

Alcuni passaggi della norma (stato di infermità o di deficienza psichica della vittima; movente del reato riconducibile all’odio razziale; finalità di discriminazione) consentono, infatti, di ricomprendere tra le vittime particolarmente vulnerabili le persone disabili, le vittime di crimini di matrice etnico/razziale e, più in generale, tutte le vittime di reati di natura discriminatoria (come ad es. quelli motivati da omo/transfobia).

E da tale status discende una tutela rafforzata in tema di audizione nel corso dell’incidente probatorio, in dibattimento ma anche prima, nella fase delle indagini, dove è sempre consentita la riproduzione audiovisiva delle dichiarazioni della vittima particolarmente vulnerabile (art. 134 cpp) e dove la polizia giudiziaria può avvalersi dell’ausilio dello psicologo indipendentemente dall’età della vittima, che non deve essere chiamata più volte a deporre, salva l’assoluta necessità, e non deve aver contatti con l’indagato mentre viene sentita (art. 351 comma 1 ter cpp).

Sarebbe riduttivo però pensare che il compito dell’operatore di polizia si esaurisca nell’applicazione delle nuove regole a tutela delle vittime, pur nella loro straordinaria importanza di assicurare uno standard di civiltà ai bisogni di alcune tra le fasce più deboli della società. 

Superato il pregiudizio che l’assistenza alla vittima sia un compito esclusivo di psicologi e assistenti sociali e che le forze di polizia si debbano occupare esclusivamente di assicurare i colpevoli alla giustizia, oggi la formazione di ogni operatore è rivolta a scongiurare fenomeni di vittimizzazione secondaria che aggravino le sofferenze psicologiche di chi vive già un senso di frustrazione per il crimine subìto.

In tutti i luoghi in cui quotidianamente incontra le vittime, siano strade, uffici o abitazioni, l’operatore di polizia sa che anche dalla qualità del suo approccio dipende la capacita di ripresa della vittima, oltre che la sua collaborazione nelle indagini.

Ma è la stessa comunità nel suo complesso a chiedere alle forze di polizia questa vicinanza. Fenomeni violenti, come i crimini d’odio, provocano, infatti, un senso di profonda insicurezza non soltanto in chi li subisce ma anche nella società che assiste, complice la viralità della comunicazione contemporanea.

E il dolore della vittima, così come la paura dei cittadini, chiedono riconoscimento da parte di tutte le Istituzioni che rappresentano lo Stato, dove l’abbandono e il disinteresse possono essere devastanti sia per il singolo che a livello sociale.

Occuparsi di vittimologia significa, dunque, stabilire un contatto profondo con i bisogni della società e prevenire sofferenze e disagi più gravi, secondo le più moderne teorie che tendono ad anticipare il rischio in base ai nuovi schemi della polizia di predizione. 

*primo dirigente della Polizia di Stato

5. Gli indicatori di pregiudizio

L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa. È l’apatia morale di chi si volta dall’altra parte: succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del mondo. 
Liliana Segre

Gli indicatori o markers del pregiudizio (conosciuti a livello internazionale con il termine “Bias indicators”) sono fatti e circostanze che consentono di supporre di essere in presenza di un crimine d’odio, ossia di un reato commesso in ragione del pregiudizio che l’autore nutre nei confronti della vittima, a causa di una o più caratteristiche protette (reali o solo presunte dall’autore) che la contraddistinguono.

L’Odihr, l’Ufficio per le istituzioni democratiche ed i diritti umani dell’Osce, li definisce come: “Fatti obiettivi, circostanze, modalità relative ad un reato che, da soli o in connessione con altri fatti o circostanze, suggeriscono che le azioni dell’autore sono motivate, in tutto o in parte, da una qualche forma di pregiudizio”.

Dalla stessa definizione, risulta evidente la loro importanza ai fini investigativi: sono, infatti, gli elementi che consentono all’investigatore di far emergere le motivazioni di natura discriminatoria che hanno spinto l’autore a commettere il reato scegliendo proprio quella vittima (in buona sostanza, il movente). Di conseguenza, una accurata trascrizione negli atti, permetterà all’autorità giudiziaria (pubblico ministero e giudice), di disporre degli elementi informativi necessari per valutare l’opportunità di trattare il reato come crimine d’odio (ad esempio, contestando – e applicando – l’aggravante di cui all’art. 604 ter cp).

L’importanza degli indicatori di pregiudizio – e d’altro canto, la necessità di una lettura coordinata del complessivo contesto in cui si inquadra il fatto-reato – vengono ben evidenziate in alcune sentenze della Corte di Cassazione (Cass. 434/99 e Cass. 16328/12) dalle quali si evince che la presenza o l’assenza di uno specifico indicatore non è di per sé decisiva per stabilire la motivazione discriminatoria di un reato. È necessaria, quindi, una accurata lettura di tutto il contesto. Evidentemente, ciò sarà possibile soltanto se l’attività di polizia giudiziaria – essendo stata svolta con scrupolo e competenza – avrà consentito di individuare e raccogliere tutti gli elementi di valutazione a disposizione, non trascurando nessun possibile indizio.

I principali indicatori di pregiudizio sono i seguenti:

percezione della vittima/del testimone: la percezione della vittima (o degli eventuali testimoni) rispetto a quanto accaduto è un importante indicatore che dovrebbe dare, all’operatore di polizia, un ulteriore impulso nella ricerca di elementi oggettivi per determinare la possibile motivazione discriminatoria del reato;

commenti denigratori, gesti, dichiarazioni scritte, disegni, simboli e graffiti: spesso l’autore di un crimine d’odio intende evidenziare la motivazione di pregiudizio, non accettazione o, addirittura, di vero e proprio odio alla base del reato (non a caso gli hate crimes vengono anche definiti message crimes, ossia reati che inviano un messaggio);

differenze tra autore e vittima per motivi etnici, religiosi o di altro tipo (ad esempio per orientamento sessuale): sono un indicatore significativo, soprattutto – ma non necessariamente – se la vittima appartiene (o è percepita come appartenente) a un cosiddetto gruppo di minoranza;

coinvolgimento di cosiddetti gruppi organizzati dell’odio (ossia, dediti a crimini d’odio o all’incitamento all’odio) o dei loro componenti: l’autore può anche non essere strutturalmente organico ad alcun gruppo del genere, ma condividerne l’ideologia ed i metodi violenti;

luogo: il reato è stato commesso nei pressi di un luogo di culto (sinagoga, moschea, chiesa cristiana) o di un locale prevalentemente frequentato da persone a rischio di discriminazione (persone Lgbti, migranti);

data, timing; il reato ha avuto luogo in occasione di una particolare ricorrenza, festa religiosa o altro evento di particolare significato per una comunità;

modelli/frequenza di crimini o incidenti avvenuti precedentemente: l’episodio è simile ad altri di analoga natura che si sono verificati in un dato periodo; ricorre un certo schema delittuoso, una serialità;

natura della violenza: nei crimini d’odio il livello di violenza può essere particolarmente elevato ed è spesso accompagnato da gravi offese fisiche o umiliazioni non di rado rese pubbliche, dallo stesso autore, attraverso il Web;

mancanza di altre motivazioni: alcune volte non vi sono motivi evidenti che possano giustificare la commissione del reato: la vittima e il sospettato non si conoscono, un eventuale litigio che possa aver innescato l’aggressione appare chiaramente pretestuoso, non vi è un movente economico, in tali casi quella discriminatoria potrebbe essere l’unica motivazione plausibile.

I simboli dell’odio

Come abbiamo visto precedentemente, i simboli dell’odio sono tra i principali indicatori della possibile matrice discriminatoria di un reato.

Proprio per questo, è opportuno soffermarsi su di essi, tenendo ben presenti alcune circostanze.

La prima e, probabilmente, principale tra di esse, è la non immediata riconoscibilità di alcuni simboli. Ciò può succedere, ad esempio, nel caso di simboli pressoché sconosciuti, fino a pochi anni orsono, nel nostro Paese in quanto tradizionalmente legati a specifiche realtà (si pensi agli Stati Uniti d’America e alla simbologia del Ku Klux Klan e dei vari movimenti suprematisti), il cui utilizzo, però, è divenuto sempre più frequente anche in nuovi contesti, in ragione di una sorta di globalizzazione dell’odio, favorita, tra l’altro, dall’utilizzo massivo delle tecnologie informatiche da parte di singoli e gruppi di matrice estremista.

D’altro canto, ci si può trovare di fronte ad immagini che costituiscono la risultante di modifiche – più o meno rilevanti – apportate a simboli “classici”, nonché a modalità, talvolta anche molto fantasiose, per proporre, o riproporre in una nuova veste – in modo più o meno dissimulato, spesso per sfuggire ai rigori di legge – immagini, segni ed emblemi volti a diffondere un messaggio di discriminazione e di odio.

Come è stato osservato, infatti, l’estremismo di destra, a livello internazionale, ha iniziato ad utilizzare, sempre più frequentemente, nuovi simboli in sostituzione di quelli classici.

In alcuni casi, per rendere i propri messaggi, non più accompagnati da una simbologia ampiamente stigmatizzata, più facilmente veicolabili attraverso i media convenzionali.

Ad esempio, in Germania, ma sempre più diffusamente anche in Italia, gruppi neonazisti esibiscono a fianco (o in sostituzione) delle bandiere del Terzo Reich quelle dell’Impero tedesco – cosiddetto “Secondo Reich” (1871–1918).

In altri casi, all’opposto, per rendere palese la propria ideologia/appartenenza esclusivamente a una ristretta cerchia di affiliati o comunque di simpatizzanti, senza che il resto della società se ne renda conto.

È il caso del tatuaggio dei dadi riportanti i numeri 1-4-8, che richiama il codice numerico 14-88. Il numero 14 rievoca le cosiddette “14 parole” del suprematista bianco statunitense David Lane: “We must secure the existence of our people and a future for white children” (Dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e un futuro per i bambini bianchi). Il numero 88 rievoca sia i cosiddetti “88 precetti”, coniati da David Lane, finalizzati a salvaguardare la supremazia della razza ariana; sia il saluto “Heil Hitler”, in quanto codice numerico di HH.

In ogni caso, è evidente l’importanza, per l’operatore di polizia, di avere un occhio attento ed allenato a riconoscere questa simbologia criptica.

Tenuto conto del fatto che la casistica di simboli d’odio è davvero vastissima, e che obiettivo di questo paragrafo è più che altro quello di stimolare la curiosità personale e l’interesse professionale dell’operatore in materia, per un ricco database di simboli dell’odio (sia pure focalizzato sul contesto statunitense) si rinvia all’interessante sito dell’ONG ebraica USA Anti-Defamation League (https://www.adl.org/hate-symbols).

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Stormfront: il fronte della vergogna

Liste di proscrizione di ebrei italiani, filmati negazionisti dell’Olocausto e di esaltazione del Terzo Reich, documenti tesi a dimostrare l’esistenza un fantomatico complotto giudaico, sono questi alcuni dei contenuti della sezione italiana del sito internet www.stormfront.org – gestito, negli Stati Uniti, da appartenenti alla estrema destra suprematista e da molti definito il più grande portale di odio del mondo – i cui partecipanti sono stati oggetto di una complessa attività di indagine realizzata dal Servizio polizia postale e delle comunicazioni e dalla Digos di Roma.

L’inchiesta, articolata in due distinti filoni, ha consentito di individuare e sottoporre a custodia cautelare in carcere i quattro promotori della comunità virtuale e denunciare complessivamente oltre 50 utenti per essersi associati allo scopo di diffondere ideologie fondate sulla superiorità della razza bianca e sull’odio etnico/razziale ed incitare alla commissione di atti di discriminazione e di violenza per motivi etnico/razziali (ossia per il reato di cui all’art. 3 della l. 654/1975, attuale art. 604bis cp).

L’allocazione negli Stati Uniti dei server del portale ha determinato un elemento di particolare complessità investigativa in considerazione del fatto che, come si è visto nel paragrafo dedicato all’hate speech on line, gli Usa – non criminalizzando i cosiddetti reati di opinione in virtù del Primo emendamento alla Costituzione – rigettano le richieste di acquisizione di elementi probatori di natura informatica contenuti nelle rogatorie internazionali aventi a tema i discorsi d’odio.

I soggetti coinvolti sono stati, quindi, identificati attraverso complesse indagini che hanno, tra l’altro, richiesto un accurato monitoraggio delle fonti aperte (quello che viene definito Osint, Open Source Intelligence, Intelligence delle fonti aperte), nonché la realizzazione, da parte degli investigatori della sezione cyberterrorismo, di specifici software indispensabili per l’interpretazione degli elementi informatici acquisiti.

Gli operatori della Digos di Roma e della polizia postale e delle comunicazioni hanno inoltre eseguito decine di perquisizioni domiciliari, in diverse città italiane, che hanno consentito il sequestro di apparati informatici, documenti e materiale neonazista e suprematista, nonché armi da taglio e oggetti atti ad offendere.

La sentenza di Cassazione relativa al primo troncone di indagine ha confermato pienamente l’impianto accusatorio rendendo, tra l’altro, definitive le condanne dei quattro leader: due anni e sei mesi per l’ideologo del gruppo e due anni e due mesi per gli altri tre soggetti. Attualmente, il sito non è accessibile dall’Italia per decisione dell’autorità giudiziaria conseguente alle condanne.

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6. Il quadro normativo di riferimento 

Datemi il diritto e vi darò la giustizia.
Franz Liszt

Come già evidenziato, l’impianto giuridico nazionale non prevede una specifica definizione di crimine d’odio, tuttavia nell’ordinamento sono presenti diverse disposizioni poste a presidio dei diritti inviolabili dell’uomo e dei principi di pari dignità ed uguaglianza di tutti gli esseri umani, sanciti dalla Costituzione della Repubblica Italiana agli artt. 2 e 3.

Prima di addentrarsi nell’esame delle norme di diritto interno, l’esplicito richiamo che la Carta fa, attraverso l’art. 117, co 1, ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali rende necessario un preliminare, rapido excursus dei principi cardine stabili in materia nelle Carte sovrannazionali.

Ovviamente, non si può che iniziare tale disamina dalla “Dichiarazione universale dei diritti umani” (coeva della nostra Costituzione, in quanto adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948) – alla quale, sebbene non produttiva di effetti giuridici vincolanti, viene universalmente riconosciuto valore paradigmatico. Per quanto di specifico interesse nella presente trattazione, rilevano, in particolare, i principi enunciati agli artt. 1 (Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti); 2 (Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione…); e 3 (Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona).

Pochi anni dopo, nel 1950, nel contesto del Consiglio d’Europa, la “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (Cedu), all’art. 14 ha stabilito un esplicito “Divieto di discriminazione”, la cui portata, dapprima limitata ai diritti ed alle libertà riconosciute nella Convenzione, verrà generalizzata attraverso il Protocollo addizionale n.12 (Roma, 4 novembre 2000).

Tornando nuovamente al sistema dell’Onu, viene all’attenzione il primo (da un punto di vista temporale) tra i trattati inclusi fra i cosiddetti Strumenti internazionali fondamentali sui diritti umani, ossia la “Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale” (Icerd), adottata il 21 dicembre 1965.

L’Italia ha ratificato tale Convenzione con la l. 654/1975 (detta “Legge Reale”) che, come si vedrà in seguito, costituisce il primo atto normativo interno specificamente rivolto a criminalizzare condotte razziste. È, inoltre, interessante osservare che la definizione di discriminazione razziale di cui all’art. 1 della Icerd è stata recepita, quasi integralmente, nell’ordinamento italiano con l’art. 43 del D.Lgs. 286/98 (T.U. Immigrazione).

Il rispetto della dignità umana e dei diritti umani è posto tra i valori fondanti dell’Unione europea dall’art. 2 del “Trattato sull’Unione europea” (TUE); d’altro canto, il “Trattato sul funzionamento dell’Unione europea” (Tfue), con l’art. 10, pone la lotta alle discriminazioni tra gli obiettivi prioritari dell’Unione.

Il principio di non discriminazione è esplicitamente sancito dall’art. 21 della “Carta dei diritti fondamentali dell’Ue” (cosiddetta “Carta di Nizza”, proclamata il 7 dicembre 2000) la quale, ai sensi del Trattato di Lisbona, ha assunto il medesimo valore giuridico, pienamente vincolante, dei Trattati.

Rimanendo in ambito Ue, è, inoltre, necessario citare la “Decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale” e la “Direttiva 2012/29/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato” (cosiddetta “Direttiva vittime”) che, come si vedrà meglio più avanti, hanno, tra l’altro, determinato l’introduzione nell’ordinamento giuridico nazionale, rispettivamente, del cosiddetto reato di negazionismo (attuale art. 604bis, terzo comma cp) e della “Condizione di particolare vulnerabilità” della vittima (art. 90quater cpp).

Da ultimo, con riferimento al fenomeno dei cosiddetti Discorsi d’odio on line, è necessario richiamare il Protocollo addizionale alla “Convenzione di Budapest sulla criminalità informatica”, che impegna gli Stati a considerare reati, quando vengano realizzati attraverso mezzi informatici: la disseminazione di materiale razzista e xenofobo, almeno nei casi in cui il materiale promuova o inciti alla violenza (art. 3 ); minacce e insulti di matrice razzista e xenofoba (artt. 4 e 5); la negazione, grave minimizzazione, approvazione o giustificazione del genocidio o di crimini contro l’umanità (art. 6). L’Italia ha sottoscritto, nel 2011, ma non ancora ratificato il Protocollo.

La prima norma che, nel nostro ordinamento, ha stigmatizzato sotto il profilo penale la discriminazione razziale, sia pure incidentalmente, è stata la l. 645/1952 (cosiddetta “Legge Scelba”).

Essa – in quanto attuazione della XII disposizione transitoria e finale, comma primo, della Costituzione – ha quale fine prioritario il divieto di riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista; tuttavia, sin dalla originaria formulazione, contemplava la propaganda razzista tra le modalità di perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista (art. 1). Inoltre, nella attuale versione dell’art. 4, co 2 (modificato dalla cosiddetta “Legge Mancino”, di cui si dirà più avanti) è stata prevista una ipotesi aggravata di apologia del fascismo per chiunque ne esalti pubblicamente le idee o i metodi razzisti.

Successivamente, attraverso l’art. 3 della già menzionata L. 654/1975 di ratifica della Convenzione Icerd, è stata introdotta nel sistema penale italiano la prima norma penale specificamente dedicata al contrasto del razzismo. Le relative fattispecie, negli anni più volte modificate, sono attualmente contenute (ai sensi del dlgs 21/2018) nell’art. 604bis cp. Tale norma (“Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”), criminalizza tutte le condotte previste all’art. 4 della Icerd: propaganda della superiorità o dell’odio razziale; istigazione o commissione di atti discriminazione o di violenza di natura razziale (primo comma); promozione/direzione/partecipazione/assistenza ad organizzazioni o gruppi razzisti (secondo comma).

Infine, al terzo comma, vengono stigmatizzate le condotte negazioniste, contemplate dalla Decisione quadro 2008/913/GAI.

Ma è con il dl 122/1993 (convertito con modificazioni dalla L. 205/1993, cosiddetta “Legge Mancino”) che viene predisposto dal legislatore penale un compiuto sistema di contrasto del razzismo che, tra l’altro: criminalizza le manifestazioni esteriori e l’esibizione di emblemi e simboli razzisti (art. 2); contempla una severa disciplina per perquisizioni e sequestri quando si proceda per reati di tale natura (art. 5); prevede la sospensione cautelativa e lo scioglimento di associazioni/gruppi razzisti (art. 7) nonché sanzioni accessorie per i soggetti condannati (art. 1); e, in particolare, una circostanza aggravante ad effetto speciale (aumento della pena fino alla metà) per tutti i reati commessi con finalità razziste o per agevolare le attività di associazioni/gruppi razzisti. Tale aggravante si sottrae al cosiddetto “bilanciamento” con le circostanze attenuanti eventualmente concorrenti (salvo quella relativa alla minore età del reo) e, soprattutto, determina sempre la procedibilità d’ufficio (art. 6). Ai sensi del dlgs 21/2018, la cosiddetta “aggravante Mancino” (all’epoca art. 3 della legge) è divenuta l’art. 604ter cp.

È utile fornire indicazioni operative allo scopo di superare le difficoltà interpretative che possono porsi rispetto alla applicabilità di talune tra le fattispecie criminose disciplinate dalla L. 645/52 e l’impianto Reale-Mancino. La giurisprudenza di Cassazione (Cass. I 3791/93; Cass. I 7812/99…) ha chiarito che la legge Scelba e l’impianto Reale-Mancino presentano una oggettività giuridica sostanzialmente coincidente (la lettera e la ratio delle due leggi si identificano) e che esse sono in rapporto di sussidiarietà. Nei casi di incertezza circa l’applicabilità delle norme in parola, laddove si riscontri la condizione costituita da un pericolo per le istituzioni democratiche – circostanza che si verifica allorquando la condotta ponga in pericolo la tenuta dell’ordine democratico e dei valori allo stesso sottesi (cfr. Cass. I 8108/2018) – si applicano le disposizioni della legge Scelba, in caso contrario quelle di cui al “Sistema Reale/Mancino” (Cass. III 37390/2007). Le norme penali sinora rassegnate sanzionano la commissione di reati di matrice discriminatoria su base razziale, etnica, nazionale e religiosa, ma, come si è avuto modo di vedere, vi sono ulteriori “caratteristiche protette” della vittima che si ricollegano ad altrettanti ambiti discriminatori.

In merito alla “disabilità” – in aggiunta alle varie fattispecie criminose nelle quali la disabilità della vittima è prevista quale elemento costitutivo o circostanza aggravante speciale del reato – merita particolare attenzione la norma di cui all’art. 36 della l. 104/1992, in virtù della quale quando i reati di cui all’art. 527 del cp (atti osceni), i delitti non colposi di cui ai titoli XII (contro la persona) e XIII (contro il patrimonio) del libro II del codice penale, nonché i reati di cui alla L. 75/1958 (cosiddetta “Legge Merlin”: reclutamento, induzione, favoreggiamento, sfruttamento della prostituzione), sono commessi in danno di persona portatrice di minorazione fisica, psichica o sensoriale, la pena è aumentata da un terzo alla metà. In proposito, è necessario evidenziare che, per l’applicazione dell’aggravante in parola, non è richiesta la motivazione discriminatoria, ossia che l’autore provi odio o pregiudizio nei confronti della vittima, ma esclusivamente che la stessa sia portatrice di minorazione fisica, psichica o sensoriale come definite dall’art. 3 della medesima legge.

L’attuale impianto normativo penale non prevede una specifica copertura per i crimini basati sull’orientamento sessuale o l’identità di genere della vittima. La matrice omo/transfobica del reato è stata, talvolta, stigmatizzata attraverso l’applicazione dell’aggravante comune dei motivi abietti (art. 61, comma 1, n.1).

Per quanto concerne il diritto processuale penale, è opportuno evidenziare che il citato dlgs 212/2015, di attuazione della cosiddetta “Direttiva vittime” Ue, ha introdotto l’art. 90 quater cpp codificando, in modo strutturale, la “condizione di particolare vulnerabilità” della persona offesa dal reato che, ai sensi della norma in esame, oltre a dover essere desunta, tra l’altro, dalla disabilità della vittima, può essere riconosciuta in caso di reati commessi con odio razziale o per finalità di discriminazione.

È dunque importante evidenziare che siffatta formulazione consente di includere, tra le vittime in condizione di particolare vulnerabilità, in linea di principio, tutte le vittime di crimini d’odio, incluse quelle fatte oggetto di crimini di matrice omo/transfobica.

Dal riconoscimento di tale status derivano una serie di importanti diritti per la vittima del reato e correlate, specifiche incombenze in capo all’autorità giudiziaria e alla polizia giudiziaria.

In proposito, per la polizia giudiziaria rivestono particolare importanza gli articoli 90 bis cpp, 90 ter cpp, 134, co 4 cpp e 351 co 1ter cpp.

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Chi combatte le discriminazioni e i crimini d’odio in Europa e nel Mondo?

Un-Ohchr: Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani (https://www.ohchr.org/EN/pages/home.aspx)

È l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere e proteggere i diritti umani previsti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. È presieduta dall’Alto Commissario, che coordina le attività in materia di diritti umani in tutto il sistema Onu e supervisiona il Consiglio dei diritti umani.

L’Oscad, nel 2016, ha partecipato ad una attività di formazione per formatori organizzata dall’Ohchr, in Macedonia del Nord, per il contrasto di crimini e discorsi d’odio, in favore di funzionari della pubblica amministrazione macedone.

Osce-Odihr: Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa - Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani (https://www.osce.org/odihr)

L’Osce-Odihr fornisce assistenza agli Stati partecipanti ed alla società civile per promuovere la democrazia, lo stato di diritto, i diritti umani, la tolleranza e la non discriminazione. Invia propri osservatori in occasione di elezioni, supporta i Paesi dell’area in materia di legislazione ed ai fini dello sviluppo e del sostegno delle istituzioni democratiche. Conduce programmi di formazione sulla promozione ed il monitoraggio dei diritti umani.

L’Oscad, a partire dal 2014, ha iniziato una intesa collaborazione con l’Osce-Odihr. Tra le varie iniziative: la realizzazione del programma formativo (formazione di formatori) Tahcle (Training against hate crimes for law enforcement - Formazione contro i crimini d’odio per le forze di polizia) per la prevenzione ed il contrasto dei reati di matrice discriminatoria e l’elaborazione del contributo del Dipartimento della ps per la raccolta annuale dei dati sui crimini d’odio.

Coe: Consiglio d’Europa 

(https://www.coe.int/it/web/portal)

Il Coe è una organizzazione internazionale istituita per difendere i diritti umani nel continente. Tutti gli Stati membri del Coe hanno sottoscritto la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), un trattato concepito per proteggere i diritti umani, la democrazia e lo stato di diritto.

Ecthr: Corte europea dei diritti dell’uomo (https://www.echr.coe.int/Pages/home.aspx?p=home)

Si pronuncia sui ricorsi individuali o statali inerenti a presunte violazioni dei diritti civili e politici stabiliti dalla Cedu. Le sentenze della Corte Edu, vincolanti per gli Stati interessati, hanno portato i governi a modificare legislazioni e prassi amministrative in molti settori.

Ecri: Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (https://www.coe.int/en/web/european-commission-against-racism-and-intolerance/home)

È un organismo di monitoraggio dei diritti umani del Coe specializzato nella lotta al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo, all’intolleranza e alla discriminazione. Predispone report e raccomandazioni in materia agli Stati membri.

L’Oscad ha collaborato in diverse circostanze con il Coe e con l’Ecri. In particolare, ha curato la realizzazione di un seminario formativo (2014), nonché di un meeting per esperti di livello internazionale (2015), in materia di antidiscriminazione contro le persone Rom e Sinti. Inoltre, è stato spesso coinvolto da Coe ed Ecri in attività formative e in seminari tematici.

Commissione europea 

(https://ec.europa.eu/info/index_it)

La Commissione europea è il braccio esecutivo dell’Ue. È l’unico organo cui compete redigere le proposte di nuovi atti legislativi europei. Inoltre, attua le decisioni del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Ue. In particolare: propone nuove leggi; gestisce le politiche e assegna i finanziamenti dell’Ue; assicura il rispetto della legislazione dell’Ue e la rappresenta sulla scena internazionale.

Dal 2016, l’Oscad partecipa al “Gruppo di alto livello contro razzismo, xenofobia ed altre forme di intolleranza” della Commissione e a tutti i relativi sottogruppi: raccolta dei dati; hate speech on line; antisemitismo; islamofobia etc.

Fra: Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (https://europa.eu/european-union/about-eu/agencies/fra_it)

La Fra è il centro di expertise dell’Unione in tema di diritti fondamentali. È una delle Agenzie dell’Ue istituite allo scopo di fornire consulenza specializzata alle istituzioni dell’Unione ed agli Stati membri. Promuove e protegge diritti di varia natura, tutti fondamentali per poter garantire una vita dignitosa ai cittadini Ue: il diritto alla non discriminazione; alla protezione dei dati personali; all’accesso alla giustizia etc. 

L’Oscad, dal 2014 al 2016, ha partecipato, quale co-leader del sottogruppo formazione, al “Gruppo di lavoro sui crimini d’odio” coordinato dalla Fra. In questo contesto, è stato inserito, quale buona prassi nazionale, all’interno di un apposito compendio riepilogativo delle eccellenze europee.

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7. L’Oscad 

Alle vittime di discriminazioni viene impedito di vivere. 
Antonio Manganelli

L’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad) è lo strumento operativo interforze, istituito nel 2010 nell’ambito del Dipartimento della pubblica sicurezza, per volontà dell’allora capo della Polizia, Antonio Manganelli, per ottimizzare l’azione delle forze di polizia a competenza generale nella prevenzione e nel contrasto dei reati di matrice discriminatoria.

L’Oscad, incardinato nell’ambito del Dipartimento della ps – Direzione centrale della polizia criminale –, è presieduto dal vice direttore generale della ps - direttore centrale della polizia criminale ed è composto da rappresentanti della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e delle articolazioni dipartimentali competenti per materia.

Alla luce della mission istitutiva dell’Osservatorio e tenuto conto delle caratteristiche peculiari dei crimini d’odio, gli obiettivi prioritari dell’Oscad sono: agevolare le denunce dei crimini d’odio (in modo da contrastare il fenomeno dell’under-reporting); migliorare costantemente il monitoraggio del fenomeno (per misurarne con sempre maggiore precisione la portata e l’impatto); sensibilizzare/formare/aggiornare costantemente gli operatori delle forze di polizia (per combattere il fenomeno dell’under-recording).

Come già evidenziato, i crimini d’odio si caratterizzano per il cosiddetto under-reporting, ossia per la estrema scarsità di denunce rispetto alle reali dimensioni del fenomeno. Al fine di contrastare l’under-reporting, l’Oscad: riceve le segnalazioni all’indirizzo Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., le inoltra ai competenti uffici della Polizia di Stato o dell’Arma dei Carabinieri chiedendo ulteriori elementi di informazione in merito e/o interventi mirati; favorisce la presentazione di denunce da parte di vittime che non intendono rivolgersi direttamente alle forze di polizia.

Allo scopo di predisporre misure di prevenzione e contrasto rispetto a qualsiasi fenomeno criminale è necessario misurarne la portata e l’impatto con la maggiore accuratezza possibile. Con riferimento ai crimini d’odio, alle difficoltà legate alla quantificazione dei reati in generale – tra tutte, il fatto che la banca dati interforze non è strutturata per corrispondere a esigenze statistiche, ma per supportare l’operatività delle forze di polizia – si aggiungono ulteriori specifici elementi (under-reporting e under-recording, nonché la parziale copertura normativa), che rendono particolarmente complessa la raccolta dei dati.

Tuttavia, il grande impegno profuso dall’Osservatorio ha consentito di realizzare significativi passi in avanti in materia.

Oscad, infatti, gestisce un sistema di monitoraggio che viene alimentato, oltre che dalle segnalazioni ricevute da vittime, testimoni ed associazioni, anche da quelle inviate di iniziativa dalle forze di polizia o da altre istituzioni.

A partire dal 2014 (dati 2013), Oscad elabora il contributo del Dipartimento della ps per la raccolta annuale dei dati sui crimini d’odio effettuata dall’Osce, trasmettendo i dati ufficiali Sdi (Sistema d’indagine) del Ced interforze relativi ai reati con finalità discriminatorie che hanno “copertura normativa”, ossia quelli di matrice etnico-razziale, nazionale, religiosa e nei confronti di appartenenti a minoranze linguistiche nazionali, nonché quelli relativi alla disabilità (applicazione dell’aggravante di cui all’art. 36 l. 104/92). Alcuni limiti di tipo normativo e strutturale, in atto, rendono impossibile distinguere le specifiche finalità discriminatorie (ad esempio: quante violazioni riguardino, rispettivamente, “razza”, etnia, nazionalità e religione e, in riferimento a tale ultimo contesto, quante siano riferibili ad antisemitismo, islamofobia, odio anticristiano, ecc.).

Tali dati vengono integrati con quelli relativi al monitoraggio effettuato dall’Oscad sulle segnalazioni pervenute in materia di orientamento sessuale ed identità di genere (ambiti privi di specifica copertura normativa).

In ogni caso, è indispensabile evidenziare che, in ragione della loro eterogeneità, i dati comunicati all’Osce non forniscono un quadro con valore statistico sul fenomeno, conseguentemente incrementi/diminuzioni non sono correlabili con certezza ad un proporzionale incremento/diminuzione dei crimini d’odio nel nostro Paese.

La formazione delle forze di polizia ha, da sempre rivestito una particolare importanza per l’Oscad, in quanto indispensabile per incrementare la sensibilità e la competenza degli operatori in materia e, conseguentemente, la capacità di risposta operativa al fenomeno.

Ad oggi, nell’ambito delle diverse iniziative Oscad, realizzate in collaborazione con istituzioni e associazioni della società civile (Amnesty international, Cospe, Rete Lenford), sono state complessivamente formate, in presenza, oltre 11mila unità (altrettante con moduli formativi on line).

Tra le partnership interistituzionali, è particolarmente significativa quella con l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar), istituito presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del consiglio dei ministri per garantire il diritto alla parità di trattamento di tutte le persone, indipendentemente dalla origine etnica o razziale, dall’età, dal credo religioso, dall’orientamento sessuale, dall’identità di genere o dalla disabilità.

Oscad e Unar, dal 2011, in seguito alla sottoscrizione di un protocollo di intesa, collaborano intensamente, soprattutto in materia di scambio informativo e formazione.

Tra le collaborazioni con le comunità, è particolarmente significativa quella con l’Ucei (Unione delle comunità ebraiche italiane) che ha portato, tra l’altro, alla elaborazione di una “Breve guida all’ebraismo per operatori di polizia” con l’obiettivo di aiutare le forze dell’ordine a espletare al meglio i propri compiti, offrendo loro uno strumento di conoscenza rispetto ad alcune fondamentali specificità dell’ebraismo italiano, indispensabili per interfacciarsi nel modo più corretto ed efficiente con le persone di fede ebraica.

di Vittorio Rizzi* per https://poliziamoderna.poliziadistato.it