capture 306 02062020 113853Che accade a Bose? La comunità monastica fondata da Enzo Bianchi, a quanto pare, è capofila nella teologia ecumenica e nel dialogo tra le religioni, ma naufraga nel dialogo interpersonale. Uno dei risultati/esperimenti più interessanti del dopo Concilio Vaticano II, è «esploso» all’attenzione dei media. Motivo: il comunicato reso noto sul sito monasterodibose.it in cui si parla di un decreto, firmato il 13 maggio dal segretario di Stato, cardinale Parolin e approvato in forma specifica da papa Francesco. Enzo Bianchi, fondatore nel lontano 1965, due monaci e una monaca dovranno abbandonare Bose e trasferirsi altrove. Il testo è stato letto e presentato ai diretti interessati il 26 maggio. Il decreto segue una «visita canonica», motivata da «certi aspetti problematici per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità, la gestione del governo e il clima fraterno» nella comunità oggi guidata dal monaco Luciano Manicardi dopo le dimissioni di Bianchi nel 2017. Ancora un tassello: l’ex priore Enzo Bianchi, in una nota, si è appellato alla Santa Sede «perché ci aiuti e, se abbiamo fatto qualcosa che contrasta la comunione, ci venga detto. Da parte nostra, nel pentimento siamo disposti a chiedere e a dare misericordia». Ma in realtà Roma locuta, Roma ha già parlato. E «qualcosa» è stato davvero fatto, a quanto pare.

Finita la causa, vale la pena di “guardare dentro” la situazione. Una tipica situazione ecclesiale a metà tra grandi ideali e impegni a livello mondiale e la pochezza tipica delle rivalità e gelosie. Umano, troppo umano, dunque. La comunità di Bose è peculiare: «monastica» ma non riconosciuta nell’Ordo monasticum; non ha quindi le forme giuridiche e amministrative classiche delle abbazie, né il sistema di pesi e contrappesi comuni ai monasteri. In secondo luogo, è una comunità laica: né Bianchi né gli altri monaci interessati alle disposizioni sono parte del clero e la comunità non fa riferimento al dicastero dei religiosi. L’intervento vaticano è “atipico” perché non avrebbe giurisdizione diretta e proprio per questo si comprende la gravità della situazione, tolta dal controllo del vescovo locale, al quale poteva andare “per competenza” territoriale. C’è poi un problema comune alle esperienze del dopo Concilio Vaticano II, destinato ad acuirsi nell’immediato futuro. Dopo il Concilio sono nati molti movimenti e forme associative: Focolarini, Sant’Egidio, Neocatecumenali e tanti altri, giuridicamente riconosciuti dalla Chiesa. A differenza degli Ordini e Congregazioni religiose più antiche, questi sono attesi alla prova del cosa accade dopo che il “Fondatore” si fa da parte o muore.

 

La seconda generazione saprà reggere oppure no? Le regole di vita saranno abbastanza solide? È la chiave di volta decisiva per dire se un’esperienza ecclesiale ha un futuro oppure è destinata a finire presto. I Legionari di Cristo, ad esempio, sono stati capaci di rinnovarsi dopo gli scandali che hanno travolto il loro fondatore Maciel, i cui abusi di potere (e sessuali) hanno rischiato di travolgere tutto l’istituto.
Ma quando il “fondatore” è ancora in vita e si fa da parte, che cosa accade? È ancora un fatto nuovo, poco regolato. E i problemi eccoli qui. Le procedure chiare ci sono per i vescovi: quando uno va in pensione si ritira altrove per non interferire con il successore. Nelle congregazioni religiose le procedure sono consolidate: un superiore generale termina l’incarico e si trasferisce continuando nel suo lavoro apostolico senza problemi. Il caso di Bose vede il “fondatore” lì, mettendo alla prova la capacità di riuscire ad andare d’accordo accettando un ruolo di secondo piano e – fatto delicatissimo – lasciando che la “creatura” da lui fondata affronti la prova della maturità e decida come e cosa fare in futuro. A Bose ci si è incagliati nelle diatribe, come lasciano trasparire gli scarni comunicati.

E non si tratta di “complottismi” (siccome Bose e Bianchi sono cari a papa Francesco, “commissariare” è un attacco al Papa). Si tratta proprio di incapacità a gestire i rapporti interpersonali. Non a caso è la nota dolente della Chiesa che stenta ad accettare una realtà interpersonale che è anche fatta di gelosie, rancori, rivalità, carrierismi. Una Chiesa in cui la formazione teologica del clero è di buona qualità ma la dimensione umana e la capacità gestionale-relazionale sono carenti. Del resto alla Chiesa non serve il “consenso”: lo Spirito Santo basta e avanza per tutti. Salvo scoprire che nella realtà i rapporti non vanno proprio così e la tentazione del potere e della prevaricazione è sempre forte. Lo si diceva per gli abusi: i “colpevoli” approfittano del loro “potere sacro” per soggiogare i minori. È un tema bollente, non analizzato ancora abbastanza. Gli psicologi sanno bene che il conflitto è una “chiave” per comprendere il clima relazionale e le dinamiche presenti tra le persone. Temi poco abituali nel mondo cattolico che preferisce un’immagine idealizzata (una grande e buona “famiglia” unita dal compito di annunciare il Vangelo) ed è poco incline ad analizzare le difficoltà delle interazioni. Nelle organizzazioni (si pensi alle analisi di M. Kets de Vries e D. Miller, pubblicate in italiano da Cortina Editore) si presentano di frequente situazioni di doppio legame per stroncare i tentativi di creare fiducia reciproca. Si provoca ira, si soffocano conflitti, si incoraggia un’atmosfera di falso consenso. È il caso del sacerdote che decide tutto da solo o al massimo con un piccolo gruppo che gestisce attività e sceglie le persone in base a criteri poco trasparenti.

E nella Chiesa? Papa Francesco dall’inizio del pontificato ha ripetutamente stigmatizzato “pettegolezzo” e “chiacchiericcio”. Nel 2014 a cardinali e vescovi della Curia romana aveva descritto 15 tipi di “malattie”: dal carrierismo al desiderio di potere, dall’approfittarsi degli altri al sentirsi immortali, fino alla «schizofrenia esistenziale» di chi vive una doppia vita «frutto – disse – dell’ipocrisia tipica del mediocre e del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare». Il rimedio? Pregare e cambiare. Certo, ma in concreto come si esce dalle «secche» di rapporti interpersonali bloccati? La soluzione a Bose è esemplare: allontanare alcuni per lasciar lavorare gli altri. Del resto la problematica è antica: le divisioni sono già state raccontate da San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi: «Non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d’intenti. Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, E io di Cefa, E io di Cristo!».
Come se ne esce?. Sappiamo che nelle strutture religiose, come altrove, si litiga e ci si accapiglia per il prestigio e per il potere. Tanto vale ammetterlo e non ammantarlo di religiosità, trovando strumenti per affrontare i dissidi in maniera intelligente e matura. Magari andrebbe superata ogni sospetto tra psicologia e teologia. La teologia potrebbe utilizzare ad esempio la teoria di derivazione junghiana dei «Tipi» per comprendere le «differenze individuali» e contribuire a rendere la Chiesa (e forse il mondo) un luogo dove le persone litighino di meno e lavorino di più per il bene dell’umanità.

di Fabrizio Mastrofini per www-ilriformista-it.cdn.ampproject.org