capture 273 03042021 095742Arriva il primo studio sull'efficacia dei vaccini sulle varianti del Covid. Realizzato all'Ospedale San Matteo di Pavia, ce ne parla il professor Fausto Baldanti responsabile del laboratorio di Virologia molecolare

C'è ancora molta confusione sull’effettiva efficacia dei vaccini rispetto alle numerose varianti Covid. C’è chi sostiene che la copertura sia parziale, chi invece che è efficace solo per alcune delle varianti più note. A chiarire le idee arriva uno studio italiano che ha testato dall’inizio delle vaccinazioni la risposta immunitaria effettiva su queste varianti, con risultati sorprendenti.

Ce ne parla il professor Fausto Baldanti responsabile del laboratorio di virologia molecolare dell’ospedale San Matteo di Pavia.

Prima di addentrarci nello studio realizzato nel suo ospedale, può spiegare qual è la differenza tra le tre varianti più note: l'Inglese, la Brasiliana e la Sudafricana.

"Queste varianti sono tutte derivate dal ceppo cinese che ha dato origine a questa pandemia. Il virus diffondendosi nel mondo ha avuto mutazioni in vari punti del suo genoma. Noi siamo interessati a quelle della proteina Spike che permette l'ingresso del virus nella cellula, e determina la maggiore risposta immunitaria nei suoi confronti. In particolare in una parte di questa che si chiama RBD (Receptor-Binding Domain) che è la parte virale che si trova sulla punta della proteina, e permette il legame del virus con la cellula. È ovvio che questa parte, così importante per il virus per entrare nella cellula e infettarla, è anche uno dei bersagli principali della risposta dei nostri anticorpi neutralizzanti, che sono un particolare tipo di anticorpi capaci di inattivare il virus rendendolo inefficace e non più in grado di infettare. Questi RDB che ricoprono questa porzione della proteina, impediscono il legame del virus con la cellula e quindi l'infezione. Però le varianti hanno una mutazione che rende la proteina virale più appiccicosa e quindi il virus si aggancia meglio, infetta di più e produce anche più virus. Questo è il motivo per cui sono più contagiose. La variante Inglese è una mutazione in una parte che si chiama 501 (dove il numero segnala la posizione della mutazione all'interno del genoma di Sars Cov 2). Le altre due varianti, la Brasiliana e la Sudafricana, hanno invece una mutazione in posizione 484, che si pensa che sia legata ad una minore risposta agli anticorpi. Per essere ancora più precisi, la Sudafricana oltre alla 484 ha anche una mutazione in un'altra posizione la 417”.

Ogni giorno si sente parlare di nuove mutazioni, perché però si attenzionano solo queste tre che ha appena citato?

"C’è una particolare attenzione alla loro circolazione per vari motivi: Il primo soprattutto per quella Inglese, per verificare la sua maggiore diffusibilità, confermata in tutti i paesi e anche in Italia dove ad oggi è la variane predominante oltre alla più contagiosa. Le atre due invece sono controllate per la possibile perdita di efficacia dei vaccini nei loro confronti. Per quanto riguarda le centinaia di altre che ogni giorno vengono scoperte, le abbiamo seguite sin dall'inizio dalla prima ondata, e abbiamo notato durante il corso di tutto l'anno che non hanno particolare rilevanza perché presentano solo piccole variazioni”.

È corretto dire che le mutazioni sono una forma di protezione del virus non estinguersi?

“Questo è un virus di origina animale che sta cercando di trovare il miglior compromesso per la biologia umana (infettare ma non uccidere perché se muore l'organismo muore anche il virus ndr) e quindi in questi casi il virus muta casualmente creando tantissime varianti. La maggior parte di queste si perderanno, scompariranno, e verranno soppiantate da altre che hanno una migliore interazione con l'organismo. Alla fine la migliore sarà quella che vedrà il virus perdere di aggressività quindi di capacità di uccidere l'organismo”.

Fino ad ora si diceva che con le varianti il virus diventava più contagioso ma meno mortale, però il numero dei decessi in questo periodo sembrano invece dire altro.

“In realtà in prospettiva su queste varianti non possiamo ancora affermarlo. Dobbiamo distinguere tra quello che è un evento che si può attendere su un arco temporale che non conosciamo, rispetto a quello che osserviamo giorno per giorno. Quindi la teoria ci dice che il virus cercherà di adattarsi all'uomo perdendo patogenicità (virulenza ndr), ma quanto questo percorso sarà lungo, al momento non lo sappiamo. Sicuramente l'intervento della vaccinazione dovrebbe accorciare questi tempi, perché dovrebbe azzoppare la replicazione del virus nella popolazione”.

Come si è svolto il vostro studio sull'efficacia dei vaccini sulle varianti?

“Quando si parla di uno studio sui vaccini si può fare in due modi: in maniera estesa su tantissimi soggetti vaccinati analizzando un solo parametro, come ad esempio la produzione di anticorpi, oppure su un numero più piccolo di soggetti sempre vaccinati, analizzando però molto più approfonditamente tutta la cinetica in produzione (ovvero la velocità di reazione ndr) della risposta immunitaria. Noi abbiamo fatto il secondo sui primi 150 vaccinati del nostro ospedale tra cui c'ero anche io. Abbiamo studiato la risposta immunologica al tempo 0, ovvero prima della vaccinazione, a tre settimane dopo la prima dose, e a tre settimane dopo la seconda dose. In ciascuno di questi periodi abbiamo analizzato: gli anticorpi totali generati, gli anticorpi neutralizzanti generati e la risposta T generata. Per specificare e comprendere meglio, la risposta T è il secondo elemento che regge la risposta immunitaria, praticamente una doppia via che la natura ci ha fornito per il controllo delle infezioni in generale. Nel nostro organismo infatti non c'è solo la produzione di anticorpi prodotti dai B linfociti ( che sono cellule del sistema immunitario che hanno il compito di produrre anticorpi), ma anche dei T linfociti che sono cellule che uccidono le cellule infette. Da questo studio sono venute fuori cose molto interessanti: i soggetti che hanno già avuto il Covid, dopo la prima dose di vaccino avevano raggiunto i livelli massimi di anticorpi e parliamo anche di soggetti che hanno preso il virus in maniera asintomatica. Chi invece non ha avuto il Covid ha avuto bisogno delle due dosi per raggiungere i livelli massimi. Un’altra cosa che abbiamo notato è che la risposta neutralizzante, cioè quella componente di anticorpi che impedisce l'ingresso del virus nella cellula che si genera dopo la vaccinazione, è in grado di neutralizzare la variante cinese, italiana, inglese e brasiliana in eguale misura. C’è solo una lieve riduzione di efficacia per quanto riguarda la mutazione Sudafricana, anche se per essere corretti le risposte dei T linfociti è uguale alle altre. Questo ci dice sostanzialmente che vaccinandoci siamo protetti anche da queste varianti”.

Su quale vaccino avete fatto questo studio?

“Sul primo uscito, anche se io non ho dubbi circa gli altri, perché alla fine lo stimolo che generano Pfizer, Moderna e AstraZeneca è lo stesso. In tutti infatti c’è la proteina S che sviluppa lo stesso tipo di risposta immunitaria. Ora stiamo iniziando un altro studio sui pazienti fragili”.

Secondo quanto riporta il vostro studio si può quindi ipotizzare che nei pazienti che hanno avuto il Covid, si può fare una sola dose di vaccino?

“Abbiamo fatto lo studio all'inizio delle vaccinazioni, abbiamo quindi seguito la scheda della prima fase della vaccinazione, che prevedeva due dosi. Però il dato che è venuto fuori è indubbio che sarà molto utile a modulare ciò che arriverà dopo”.

Un ultimo chiarimento, chi è vaccinato può contagiarsi o contagiare?

“In rari casi chi è stato vaccinato, parliamo dell’arco di tempo tra la prima e la seconda dose, può risultare positivo al virus. Di questi rari casi andranno fatti studi molto approfonditi. Per quanto riguarda il fatto di poter contagiare, lo stiamo studiando ora”.

di  per  www.ilgiornale.it