Non studiano e non lavorano. In Italia sono due milioni, un under 30 su quattro. A 25 anni hanno già smesso di cercare un'occupazione Ma è tutta colpa loro?

Si alzano tardi la mattina, abitano ancora con mamma e papà e ciondolano fra telecomando e bar. Sono i giovani della generazione divano, quelli che la sociologia definisce Neet (acronimo di not in employment education or training), i ragazzi «né studio né lavoro». Non vanno a scuola, non frequentano corsi di apprendistato e vivono ancora di paghetta o di qualche lavoro saltuario.

 Insomma, il loro nome è sparito dai registri di classe e paradossalmente è passato dritto dritto negli elenchi dei disoccupati. E non sono pochi. Il popolo dei divanati rappresenta il 25% dei giovani fra i 15 e i 29 anni: significa che uno su quattro degli under 30 non combina nulla dal mattino alla sera. Fa un certo effetto se si pensa che di solito quelli sono gli anni in cui si scalpita per essere indipendenti e si immagina ad occhi aperti il lavoro dei sogni. Eppure non sempre è così. Soprattutto al Sud e soprattutto fra le ragazze, che si rassegnano piuttosto in fretta alla condizione di disoccupate e rinunciano, più facilmente dei maschi, a frequentare scuole o corsi professionali per imparare un mestiere. Tante si fermano alla terza media. Oppure frequentano le superiori per un po' ma mollano il colpo prima del diploma.

LA ZAVORRA DELL'ECONOMIA

In Italia i nullafacenti al di sotto dei 30 anni sono 2,3 milioni, un esercito immobile che non produce forza lavoro e, anzi, rischia di rappresentare un costo per il Paese. Proprio la generazione da cui ti aspetti la leva più energica per la ripresa economica è quella che a sorpresa si siede (per un quarto), fa da zavorra al rilancio e rischia di non contribuire mai al sistema previdenziale. Potenziali disoccupati a vita? Forse. Ma guai a chiamarli bamboccioni. Non sempre il divano è una scelta, in tanti casi è una costrizione, uno stato di rassegnazione arrivato dopo tanti tentativi di trovare un lavoro. Un po' come accade a chi perde l'occupazione dopo i 50 anni, anche i giovanissimi finiscono in un limbo di inattività cronica che li rende incapaci di ripartire e di reinventarsi. Anche se in realtà non hanno nemmeno fatto in tempo a capire cosa sanno fare.

Nell'elenco dei disoccupati imberbi ci sono varie categorie: ci sono quelli che ogni mattina consultano annunci di lavoro e sono iscritti a qualche agenzia interinale (9,4%), ci sono quelli che hanno terminato la scuola dell'obbligo e lavorano in nero. E poi ci sono anche i laureati, che si trovano in mano un titolo di studio già obsoleto e rimangono con il cerino in mano ancora prima di entrare in gioco.

Le colpe del fenomeno non vanno cercate solo nella pigrizia o nella demotivazione dei giovani. Troppo facile. Il dito è da puntare contro vari aspetti: l'incapacità tutta italiana di abbattere la dispersione scolastica (ancora al 15% ma da portare al 10% entro il 2020), di offrire una formazione professionale «alternativa» ai percorsi tradizionali di studi, di mettere realmente in contatto giovani e aziende soprattutto nelle regioni del Sud. Di fatto i giovani in cerca di lavoro sono abbandonati a se stessi, quasi del tutto. C'è una prospettiva ancor più preoccupante: se la situazione dei baby disoccupati dovesse incancrenirsi troppo a lungo, allora non basterebbero più nemmeno i contratti «flessibili» a recuperarli.

COME SVEGLIARLI?

Il Paese sembra avere investito più sui padri che sui figli, anche negli anni della crisi economica. Più sulla generazione che il lavoro l'aveva e l'ha perso anziché su quella alla soglia del primo contratto. C'è un dato che sintetizza bene il concetto e che dimostra come in Italia siano più consolidate le politiche passive rispetto a quelle per i giovanissimi. «Dal 2008 il governo ha speso 80 miliardi di euro per preservare il reddito dei padri e ha investito 1,6 miliardi nel progetto Garanzia Giovani, per aiutare i figli a trovare un'occupazione». A far notare il contrasto è Emmanuele Massagli, presidente di Adapt, l'associazione per gli studi sul diritto del lavoro fondata da Marco Biagi. «Abbiamo un sistema di ammortizzatori sociali molto strutturato - sostiene - ma è necessario investire sui nostri ragazzi per favorire il loro ingresso nel mercato del lavoro». Come recuperare i divanati? Massagli sostiene che gli strumenti su cui puntare siano il contratto di apprendistato e tutto ciò che ruota attorno all'istruzione e formazione professionale. Cioè quei percorsi di studi che non vanno più considerati di serie B rispetto ai licei e che invece possono essere il veicolo per promuovere l'alternanza studio-lavoro. Il metodo funziona bene in Lombardia dove i giovani né scuola né lavoro superano ancora i 900mila ma dove è possibile mixare i periodi di studio con mesi di stage retribuiti nelle aziende. Come cuochi, parrucchieri, carrozzieri. Con il vecchio concetto di bottega, si scopre quanto è bello mettere in pratica le nozioni imparate sui banchi e si scopre che arrivare a casa la sera con la schiena a pezzi dà un senso di soddisfazione impagabile. «La Lombardia - spiega Massagli - applica il modello della legge Moratti del 2003, quello che ha introdotto percorsi di studio professionali di tre anni dopo la licenza media. Purtroppo in quasi tutte le altre regioni la formazione professionale è solo teorica e non esiste una vera alternanza scuola lavoro. In questo senso, si può dire che il mancato sì al referendum di dicembre sia stata un'occasione persa. Se la riforma fosse passata, il governo avrebbe creato l'Agenzia nazionale delle politiche attive, ora in mano alle regioni».

LA SCUOLA STANDARD

Altro tassello debole del sistema è il modello scolastico. «La nostra scuola - polemizza Massagli, che è anche membro dell'ufficio tecnico del ministero del Lavoro - forma i ragazzi come se fossero tutti uguali, è un modello standard che poteva funzionare negli anni Settanta. È ora di cambiare. Il mercato del lavoro ha bisogno di lavoratori flessibili, che si sappiano adattare». Invece continuiamo a portare in palmo di mano il sistema tedesco di apprendistato che comincia a scricchiolare anche in Germania, dimostrandosi in grado di «formare ottimi operai specializzati ma non alti profili».

Altra sfida da affrontare: far incontrare domanda e offerta. Da un lato ci sono aziende che cercano profili specifici che non trovano (ad esempio ingegneri elettronici) e dall'altro ci sono giovani che difficilmente lavoreranno per ciò per cui hanno studiato. E se è vero che il percorso di studi deve rispecchiare le ambizioni e le propensioni dei giovani (e non rispondere alle esigenze degli imprenditori), è altrettanto vero che i due mondi non vanno tenuti separati, da un lato la teoria e dall'altro la pratica. Altrimenti non si incontreranno mai. O avremo giovani che molleranno gli studi a metà e non si sentiranno mai adatti a nessun mestiere.

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