capture 040 21042021 183828Mussolini ha scritto anche poesie
(Fabrizio De Andrè, Le storie di ieri)

Nel suo saggio La sindrome di Nerone, Errico Buonanno sostiene che dietro ogni efferato dittatore si nasconde un artista frustrato (BUONANNO 2013). La dinamica psicologica sarebbe spietatamente semplice: un artista fallito sarebbe «tanto insoddisfatto da attuare un piano surreale: cambiare quel mondo che lo aveva scacciato, ricevere a forza, con violenza, gli applausi che il pubblico gli aveva negato, e prendersi la sua brava vendetta su quella vita che lo aveva deluso». Insomma, una sorta di oscuro meccanismo di compensazione che risarcisce l’impotenza artistica con lo strapotere politico, secondo cui «se il mondo ci sfugge, e si rifiuta di farsi rinchiudere nella parola, nelle definizioni, nei tratti di pennello […] dobbiamo provare a dominarlo». D’altronde, i dittatori sono prima di tutto dei furiosi narcisisti, ossessionati da protagonismo e desiderio di prevaricazione sugli altri, pronti a soddisfare la loro psicotica vanità con ogni mezzo possibile. Poco importa che ciò avvenga scrivendo un poema, suonando il violoncello o conquistando una nazione. Buonanno porta decine di esempi a sostegno della tesi: le languide pose da giovane Werther di Napoleone; il trauma di Hitler, che si presenta tutto tronfio all’Accademia di Vienna con un quadretto banale, e farnetica, di fronte all’ovvio rifiuto, di oscuri complotti ebraici; le dozzinali commedie di Goebbels; le poesie pastello di Stalin, tutte violette in fiore, acque cristalline e brezze fra augelli.

 

Il romanzo "L'amante del cardinale", scritto da Benito Mussolini.

Un discorso analogo si può fare a proposito di Benito Mussolini. Il tratto distintivo del suo carattere sembra essere una sconfinata frenesia di affermazione, un’ambizione smodata al primato:

“Eppure sì!” dice quest’uomo d’azione tipico, divenendo grave. “Sì” dice il Capo, e gli occhi gli sfavillano d’un fuoco interiore appena frenato dalla volontà. “Sì. Sono posseduto da questa smania. Arde, mi rode e consuma dentro, quale un male fisico: incidere, con la mia volontà, un segno nel tempo, come il leone con il suo artiglio. Così” (SARFATTI 1926).

Non è molto chiara la natura di questa incisione. «Megalomania o premonizione che sia, egli sente che un grande traguardo lo attende (già da bambino diceva alla mamma: “Un giorno farò tremare il mondo”), ma non sa quale né quando. Lo cerca un po’ a casaccio» (GOLDONI-SERMASI 1995). Una strada però si deve pur scegliere; e il suo egocentrismo sfrenato, la sua smania di emergere a tutti i costi, la individuano in una vaga quanto dorata notorietà artistica. La frettolosa ambizione dei giovani, come sempre, unisce la fame di riscatto al sogno di evasione e all’insofferenza ai vincoli, e si incarna nell’ingenuo vagheggiamento dell’ideale del libero artista parigino, diviso tra languidi abbandoni e raptus creativi. Ma si sa, tra un aspirante scrittore e un vero scrittore c’è di mezzo il deserto infinito della pagina bianca. Mussolini inizia quindi un tormentato corso di abbozzi, prove monche, strade interrotte, nell’assoluta e incrollabile convinzione di essere sempre a un passo dalla gloria. D’altronde Italo Svevo, ne La coscienza di Zeno, dice opportunamente che «è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente». E, in questa specialità, Mussolini si rivelò un campione già in tenera età.

All’apice della successiva piaggeria, si dirà che «l’infanzia di Benito Mussolini diede subito inconfondibili segni della sua grande passione allo studio e allo spirito meditativo» (BONAVITA 1937, p. 47). La Sarfatti rincarerà la dose nel suo ritratto dell’incantato fanciullo Benito, curioso e acuto: «mitici, pittoreschi, in parte puerili, quei tanti perché del mistero insegnavano al bimbo a sentir l’ansito dell’ignoto, il quale batte alla riva dell’anima, e dove è tanta forza di divino e di umano» (SARFATTI 1926). Ma la realtà è un po’ meno divina e un po’ più umana. Gli unici episodi scolastici degni di nota sono risse, bravate e insolenze varie. Nel 1894 il giovane Mussolini ferisce un compagno con un coltello e viene retrocesso dalla quarta alla seconda classe. Ci ricasca poco più tardi, questa volta maneggiando un temperino. Egli «amava descriversi come il primo della classe, ma il preside lo ricordava come uno studente mediocre, che non dava alcun segno di essere destinato a grandi cose» (MACK SMITH 1981). Grandi cose che non si realizzano neanche quando, seguendo le orme materne, consegue nel 1901 il diploma di maestro elementare e nel 1907 l’abilitazione all’insegnamento del francese. Ne andrà sempre fierissimo, e per tutta la vita si farà chiamare “professor Mussolini”. Peccato che non otterrà mai la cattedra e che insegnerà solo per pochi mesi, da supplente itinerante, tra Gualtieri, Tolmezzo e Oneglia.

Mussolini, in ogni caso, non demorde, e impronta la sua vita a un’immagine – in verità piuttosto stereotipata – di intellettuale scapigliato, distratto, con la testa fra le nuvole, che non si accorge di avere i calzini spaiati perché troppo addentro all’ultima creazione (di prossima pubblicazione, s’intende). Egli è essenzialmente un poseur del pensiero, un esibizionista pronto a sciorinare un’erudizione ad effetto, ma puramente superficiale. Ogni sua scelta, dal mantello romantico ai capelli spettinati, dal passo svagato alle meditazioni assorte sotto le querce, è studiata per interpretare il cliché del letterato. «Nel 1901 aveva già molto dell’intellettuale bohémien. Scriveva poesie, e cercava, con scarso successo, di farsele pubblicare. […] Era un vorace lettore di romanzi e di opuscoli politici» (MACK SMITH 1981, p. 149) . Per carità, Benito non è un incolto. Passa lunghe ore rintanato in biblioteca, divorando la letteratura straniera (con una predilezione per Edgar Allan Poe) e studiando il tedesco (si diletta con brevi traduzioni da Schopenhauer e Kant). Ma la posa ostentata all’esterno va ben oltre:

Si fece una reputazione di uomo alquanto eccentrico, dissipato e misantropo. Di solito mal rasato, aveva l’abitudine di sollevare il bavero del suo pesante cappotto fin sopra le orecchie e di calarsi il cappello sugli occhi per non farsi riconoscere […]. Se comperava un vestito nuovo, lo spiegazzava per non apparire elegante. Preferiva la compagnia di artisti, ed amava scandalizzare la gente con i modi anticonformisti ed il linguaggio volgare [MACK SMITH 1981, p. 25].

Quando però le roboanti esaltazioni provano a tradursi sulla carta, i risultati non sono all’altezza. Scrive poesie, ma sono bruttine. Famoso è un sonetto sul rivoluzionario Babeuf, con la retorica del tema insurrezionale e la prevedibilità dei preziosismi formali (tra sospirate interiezioni e «morituri occhi» in cui, come da copione, «passa il lampo dell’Idea») a svelare lo smaccato manierismo. Di tanto in tanto s’improvvisa critico, ma i suoi articoli su Kloptstock, Schiller e Platen sono bozzetti superficiali. La Sarfatti ha un gran daffare a descrivere le sue novelle come «divertenti e patetiche» e ad assicurare che sotto lo stile acerbo «traspare l’ardore elementare, la genuinità nella passione e nel pianto» (SARFATTI 1926). Il giudizio che l’autrice azzarda – Mussolini novelliere come precursore di Pirandello – è pura e semplice adulazione. L’ardente smania di successo lo porta a misurarsi con tutti i generi, senza distinzioni: la biografia dell’eretico boemo Jan Hus; l’autobiografia La mia vita dal 29 luglio 1883 al 23 novembre 1911, composta a soli ventotto anni; il saggio sociologico-politico Il Trentino veduto da un socialista.

Fino a che, improvvisamente, il successo gli arride con il romanzo L’amante del cardinale. Claudia Particella, pubblicato tra il 20 gennaio e l’11 maggio 1910, in cinquantasette puntate non consecutive, su Vita triestina, allegato settimanale de Il popolo di Trento. Il giovane Mussolini si trova lì, nel cuore della lotta irredentista, invitato a collaborare dal direttore Cesare Battisti. È il più classico dei romanzi d’appendice, zeppo di enfasi retorica e di facile sensazionalismo, che mescola modelli stereotipati – il re del feuilletton Eugène Sue, la “casalinga di Voghera” Carolina Invernizio, le femmes fatales di dannunziana memoria, con pretenziosi preziosismi formali. La trama è un puro pretesto anticlericale: tra Cinque e Seicento, il disinvolto cardinale Emanuele Madruzzo, contro ogni voto di castità, si innamora della torrida cortigiana Claudia, amata anche dal non pudicissimo don Benizio. È una giungla di loschi intrighi, complotti segreti, truci omicidi, fino a che Claudia s’innamora di un ufficiale e muore. I giudizi negativi sono impietosi: un caustico Ignazio Silone chioserà che «le circostanze che hanno favorito il suo successo sono state evidentemente di ordine sociale e politico, e non estetico, ma è un fatto oltremodo significativo che un uomo con la psicologia dell’autore di Claudia Particella sia stato il più indicato a dirigere il movimento fascista» (SILONE 1938). Mussolini stesso, a posteriori, lo liquiderà come un orribile libraccio, e la Sarfatti, di solito prodiga di lodi, dovrà ammettere che «è un polpettone senza capo né coda, un film a lungo metraggio a fortissime tinte, un romanzettaccio d’appendice» (SARFATTI 1926). Ma il successo è strepitoso, con folle di lettori – e più ancora di lettrici – ad accalcarsi ogni mattina intorno alle edicole.

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Prima edizione in volume de L’Amante del cardinale (Claudia Particella). Immagine reperibile a questa URL

Mussolini, galvanizzato, pensa seriamente ad un futuro da scrittore, e di getto, in quello stesso 1910, scrive un altro romanzo, La tragedia di Mayerling, in cui il tema – il clamoroso suicidio del principe Rodolfo d’Asburgo con la sua amante, la baronessa Maria Vetsera, nel 1889 – alimenta fantasiosi pettegolezzi e dettagli scandalistici. Il manoscritto però non trova pubblicazione (non se ne conosce il motivo), così come molte altre opere romanticamente pianificate in notti insonni, sempre in procinto di sgorgare leggiadre dalla penna ispiratissima, ma mai scritte. Il progetto per tre nuovi romanzi asburgici – Il fucilato di QueretaroL’Imperatrice ElisabettaFranz Joseph intimo – non andrà in porto. Giurerà, quando già si intravedevano all’orizzonte i Patti Lateranensi, di aver scritto una perduta Storia del cristianesimo. Stessa sorte di una monumentale Storia della filosofia, capolavoro destinato a cambiare per sempre le sorti del pensiero occidentale, che malauguratamente fu distrutto da un’amante gelosa. Negli anni si susseguono abbozzi, tentativi, frammenti, sempre rimasti in nuce. I suoi sogni spaziano in tutti i campi della letteratura, dal genere orrorifico alla rievocazione del reduce (Il mio memoriale di guerra), tanto che la Sarfatti dichiara:

In quei giorni, si buttava a crear fantasime, e fiorivano i mille sogni della sua letteratura potenziale. Non so per quanto tempo gli vidi in tasca un foglietto minuscolo ben piegato; ogni tanto, lo estraeva dal portafoglio: “Vedete? Qui dentro c’è il Mito e l’Eresia. Dieci capitoli, tutti pronti. Sarà un lavoro importante” (SARFATTI 1926).

È una sorta di goffo delirio di onnipotenza, un minestrone onnivoro di «violazioni del voto di castità […], rappresentazione sadistica di infermità e debolezze, passioni criminali» (SILONE 1938): scabrosità a buon mercato e di sicuro effetto. Si accavallano gli spunti: I portatori di fuoco, su una torbida passione; La lotta dei motori, in cui due ricche famiglie rivali si sfidano su bolidi sparati a futuristica velocità; Si comincia, signori!, su un padre talmente geloso della figliastra da ucciderla; e via su questo tono patetico, dalla novizia alle prese con i suoi peccati giovanili a un fosco omicidio in un ospedale psichiatrico, passando per il più noto tra questi spezzoni, La lampada senza luce, un complicato dramma in cui un uomo, reo di aver avuto un figlio da una relazione clandestina, viene punito con la cecità del figlio legittimo.

Insomma, il successo letterario tanto inseguito gli sfugge con ostinazione. «Da giovane volevo diventare un grande scrittore o un grande musicista, ma compresi che sarei rimasto un mediocre» (PETACCO 2004). Sembra l’epilogo del più classico fallimento esistenziale, in cui l’illogica euforia di aspirazioni mal riposte si spegne nel gelido riscontro della realtà. Angelica Balabanoff, coltissima amica dell’esilio svizzero, descrive bene la dinamica psicologica in atto: «si giudicava un intellettuale, un capo, e il contrasto fra la sua concezione di se stesso e le umiliazioni della sua vita di tutti i giorni l’aveva portato a un’esasperata autocommiserazione e alla sensazione di essere vittima di un’ingiustizia personale» (BALABANOFF 1979, p. 45). La delusione del letterato mancato si trasforma però nella ferma determinazione del politico in rapida ascesa. La gloria non è preclusa. Semplicemente, Mussolini ci arriva da un’altra strada.

Con la nascita del fascismo, e ancora più accentuatamente con la marcia su Roma e il progressivo affermarsi della dittatura, al Mussolini uomo si sostituisce il Mussolini personaggio, il cui mito viene meticolosamente forgiato dalla propaganda di regime. Mussolini è il superuomo, non tanto nell’accezione nobile, filosofica, nietzschiana, quanto nel senso banalizzato – puramente estetico – del filtro dannunziano. Egli è bravo in tutto quello che fa. È l’amico del popolo, lo strenuo lavoratore, il disinvolto sportivo, l’infaticabile amante, oltre che l’uomo dalla cultura immensa, dimentico del mondo e tutto involto nella vita astratta. Poco importa se la carriera letteraria non sia stata propriamente brillante: da quel momento stuoli di scribacchini si lanciano a tessere le lodi del genio eccezionale, del novello Leonardo. «Sempre era ansioso di mostrare che si occupava attivamente di ogni aspetto della cultura. Amava esser elogiato come un uomo che aveva pochi eguali per vastità di conoscenze. Il suo sapere, si diceva, copriva un campo ampissimo di interessi intellettuali e artistici» (MACK SMITH 1981).

Sin da subito si diffondono strabilianti leggende sulle sue doti intellettuali. Mussolini legge settanta libri all’anno, con una rispettabile media di sei libri al mese. Mussolini è capace di sfogliare i libri in pochi secondi e di coglierne gli elementi essenziali. Mussolini ha letto integralmente tutti i tomi dell’Enciclopedia Italiana. Diventa, improvvisamente, il miglior scrittore d’Italia. Tutto ciò che scrive, dagli aforismi ai discorsi, dalla Vita di Arnaldo (il fratello) a Parlo con Bruno (il figlio, capitano d’aviazione morto per un incidente in volo nel 1941) è incensato dalla critica. Le antologie e i dizionari si riempiono di sue citazioni. Se non avesse dovuto guidare l’Italia, sospira, avrebbe battuto una luminosa carriera accademica. Tra i suoi preferiti annovera Molière, Longfellow e Twain e li cita spesso (e spesso male) nei suoi discorsi. Tiene sempre Platone aperto sulla scrivania, a beneficio dei visitatori. Disprezza chi non si dedica alle lettere: «Non si può pensare a un uomo moderno che non abbia letto Cervantes, Shakespeare, Goethe, che non abbia letto Tolstoi» dichiara indignato (BOSWORTH 2002). È un grande appassionato di Schiller. Un giorno, «quando giaceva ferito all’ospedale, un sacerdote si recò a portargli il volumetto della Giovanna D’Arco in dono simbolico. Ricordo come lo sfogliava sorridendo con gli occhi lucidi: “Conosco! Conosco!”. Ritrovava un amico» (SARFATTI 1926). Giura di leggere ogni giorno i classici greci, rigorosamente in lingua originale. D’altronde, da vero poliglotta, conosce il greco e il latino, oltre che il tedesco, l’inglese, il francese e lo spagnolo. Così scrive, concitata, la Sarfatti:

Tedesco, spagnolo, un poco d’inglese e molto francese, le scienze economiche e le discipline sociali – studiava di tutto, con il violino per maggior svago – ma sopra tutto approfondiva con disperato ardore la nobile filosofia greca; e dopo di essa, la filosofia tedesca (SARFATTI 1926).

Su Dante poi, simbolo culturale dell’Italia unita e della lingua nazionale, l’aneddotica si fa quasi iperbolica. Il Duce dichiara di costringersi a leggere ogni mattina un canto della Commedia, di cui conosce interi brani a memoria. Del corpus dantesco ama particolarmente l’invettiva. «Si dice che usasse aggirarsi nelle vie buie e silenziose di Forlimpopoli, a notte fonda, recitando ad alta voce le strofe dell’Inferno o del Purgatorio, come se volesse scuotere i muri delle ville che si allineavano sui due lati del suo percorso» (BOSWORTH 2002). Da bambino, in casa di un compagno che ha appena malmenato, vede come in un’epifania il poema illustrato da Gustave Doré, e quelle prodigiose illustrazioni gli si stampano nell’animo per sempre. Trascorre l’intera giornata precedente al cruciale discorso su Matteotti a discutere, perfettamente tranquillo, sull’eleganza della prosa dantesca. Mentre la Sarfatti, celebrandone «la possente memoria cerebrale», assicura che «preso all’improvviso, vi dice l’anno, il mese e il giorno che morì Beatrice di Dante» (SARFATTI 1926). Una medium di Verona arriva ad assicurare che l’esule fiorentino – insieme a Leopardi, Colombo e Francesca da Rimini – dall’oltretomba abbia speso parole di elogio per il suo epigono.

È Mussolini stesso ad abbozzare il suo ritratto intellettuale nell’autobiografia La mia vita (Editrice Faro, Roma, 1947). Il testo – in realtà scritto nel 1928 dal fratello Arnaldo, in qualità di ghost writer – ha un valore propagandistico enorme, perché richiesto dall’ex ambasciatore americano Richard Washburn Child per il pubblico di lingua inglese. È un’autobiografia essenzialmente politica. Mussolini è molto preoccupato di giustificare le proprie scelte politiche all’estero, ridimensionando la fama di spietato dittatore e vestendo i panni del diplomatico paciere, del prolifico statista, dell’illuminato legislatore. A completare il quadro edulcorato, non poteva mancare l’accenno a sé come intellettuale. In avvio si scaglia, secondo una tipica posa populista, contro l’astrattezza della cultura, a cui contrappone la grassa concretezza dell’esperienza:

Non credo nella supposta influenza dei libri. Non credo nell’influenza che viene dallo sfogliare i libri che parlano della vita e della personalità degli uomini. Io ho usato un solo grande libro. Io ho avuto un solo grande maestro. Il libro è la vita vissuta. Il maestro è l’esperienza quotidiana. L’esperienza diretta è molto più eloquente di tutte le dottrine e di tutte le filosofie in tutte le bocche e su tutti gli scaffali  [MUSSOLINI, 1947].

Ma poi ci tiene, di fronte al diffidente pubblico americano, a non apparire incolto. Il suo atteggiamento assume le sembianze di un complesso di inferiorità, ribaltato nel preventivo sfoggio di una formazione che spazi in tutti i campi dello scibile umano:

Alcuni sembrano curiosi di sapere quali territori sono stati esplorati dalle mie letture. […]. Ho letto gli autori italiani, antichi e moderni, pensatori, politici e artisti. Sono sempre stato attratto dallo studio del Rinascimento nei suoi diversi aspetti. Il diciannovesimo secolo con i suoi contrasti spirituali e artistici, il classicismo e il romanticismo con il loro contrapporsi hanno attratto la mia attenzione. Ho studiato a fondo il periodo della nostra storia definita Risorgimento nella sua essenza politica e morale. Questi studi hanno occupato le ore più serene della mia giornata [MUSSOLINI, 1947].

La dettagliata requisitoria sui possenti studi si dilunga su questi toni. L’amore per i «pensatori tedeschi», l’ammirazione per «i francesi», l’interesse per il mondo anglosassone e «il carattere organizzato della sua cultura», lo studio della storia «degli altri continenti». Le sue letture preferite sembrano avere sempre un sottotesto politico: il cinico Machiavelli, il sindacalista rivoluzionario Sorel, l’onnipresente Nietzsche (Hitler, per il suo sessantesimo compleanno, gli fa avere al confino della Maddalena i ventiquattro volumi dell’opera completa, e il prigioniero, alla liberazione, si angustia per essere riuscito a leggerne soltanto quattro). Su tutti, predilige Psicologia della folla di Gustave Le Bon, uno studio sul rapporto, dalle sfumature quasi erotiche, tra la massa e il suo capo, amato anche da Hitler. È interessante notare come la sbandierata propensione per l’attività intellettuale si abbini, manieristicamente, ad un’altrettanto spiccata inettitudine per ogni attività pratica, dalla gestione del denaro allo svago, dalle indulgenze del lusso alla buona tavola:

Al violino non chiedo altro che serene ore di musica. Ai grandi poeti, come Dante, e ai sommi filosofi, come Platone, chiedo spesso ore di poesia e meditazione. Nessun altro divertimento mi interessa. Non bevo, non fumo e non mi interessano le carte o altri giochi. […]. Per quanto riguarda l’amore per la buona tavola, non l’apprezzo. Non riesco a capirlo. Specialmente in questi ultimi anni i miei pasti sono sobri come quelli di un povero. In ogni ora della mia vita è l’elemento spirituale che mi guida. Il denaro non mi attira. Le sole cose che desidero sono quelle che si identificano con i più grandi oggetti di vita e civiltà [MUSSOLINI, 1947].

La stessa agiografia del Mussolini intellettuale la troviamo in La mia vita con Benito della moglie Rachele Guidi (GUIDI 1948). Si tratta palesemente – fosse solo per una mera questione parentale – di una biografia romanzata, faziosa, tutta preoccupata di rileggere il passato alla luce del repentino cambio di contesto. La narrazione della vita coniugale diventa il pretesto per una insistita assoluzione del Duce: il tragico epilogo della guerra è dovuto all’insincera ambiguità dei reali, ai personalismi dei gerarchi, al fanatismo di Hitler (che senza dubbio, ci tiene a precisare l’autrice, non era mai andato a genio al marito). Il suo Benito è sempre vittima di macchinazioni altre, e ne risulta l’immagine santificata di una modestia castigata, di un idealismo tenace, di una povertà francescana, di una bontà naturale, che a volte toccano punte di sprovveduta ingenuità e di bianco candore. Esente da vizi, generoso con gli amici, clemente con i nemici, affettuoso con i figli, Mussolini è sempre pronto a sacrificare sé per gli altri. Le critiche – comprese le voci sulle ripetute scappatelle – sono bollate come squallide diffamazioni degli avversari.

Del ritratto intimo, però, a noi interessa lo stereotipo dell’intellettuale distratto, sempre sprofondato in ariose meditazioni e ideali struggimenti (strereotipo, tra l’altro, marcato per contrasto dallo stereotipo opposto della moglie pragmatica e casalinga, tutta votata ad un solido realismo da massaia). Già nel primo incontro, dopo gli «occhi di fuoco», Rachele vede un giovane con un abito logoro, con «le tasche piene di giornali e dei libri in mano». Ogni volta che Benito viene arrestato, la prima cosa che chiede alla sua Rachele sono dei libri. In cella legge per ore intere, «libri italiani, francesi e tedeschi» e addirittura, per ingannare la noia delle detenzione, traduce «dall’italiano in francese un trattato di chimica farmaceutica». In occasione di ogni trasloco, mentre lei provvede a mobilia e suppellettili, Mussolini pensa solo a «trasferire anche i suoi inseparabili libri». Nella scansione della routine quotidiana, la sera, rigorosamente, è dedicata alla «lettura dei classici» nella sua fornitissima biblioteca. Quando viene arrestato, Rachele trova libri aperti per tutta la casa, e sul comodino – non poteva essere altrimenti – la Vita di Gesù Cristo di Giuseppe Ricciotti. Inutile dire che, da vero scrittore, «Benito scriveva con grande rapidità i suoi articoli; infinite volte ho assistito alla stesura dei suoi pezzi che generalmente non lo impegnavano per più di un quarto d’ora». O magari scrive in piedi, dove capita, tra un colloquio e l’altro.

Un rapido inciso. Il fatto che l’esaltazione di Mussolini scrittore fosse pura propaganda è confermata dalle stesse gonfiature negli altri campi del sapere. Il Duce, assicurano i biografi di regime, è un raffinato esperto di pittura, che discetta della potenza espressiva di Michelangelo e della fredda eleganza di Raffaello, ma in realtà si annoia a morte in un museo. In ogni sua dimora pretende che venga preparata una sala per le proiezioni, allestita generalmente la sera. Poco importa poi che vi si intrattenga solo una ventina di minuti, spesso interrotto da visite e telefonate, e che, rifuggendo il cinema impegnato, si limiti alla grassa comicità degli americani: «Charlie Chaplin era l’attore preferito di mio padre, che volle vedere più di una volta La febbre dell’oro e Tempi moderni. Lo divertivano anche i film di Stan Laurel e Oliver Hardy; gli piaceva l’umorismo surreale di Harold Lloyd e di Buster Keaton» (MUSSOLINI 2004). Ama la musica e ascolta, accanto ai prevedibili Verdi e Wagner, persino il nuovissimo e americanissimo jazz, ma molti testimoni delle sue lunghe sedute al violino assicurano che fosse un pessimo esecutore. Frequenta abitualmente il teatro e il suo autore preferito è Ettore Petrolini. È a teatro quando una lettera di D’Annunzio gli comunica l’avvio dell’impresa fiumana; è al Manzoni di Milano la sera prima della marcia su Roma. Quando però tra il 1930 e il 1939 appaiono a suo nome i tre drammi Campo di MaggioVillafranca e Cesare – rispettivamente sulle figure di Napoleone, Cavour e Giulio Cesare –, in realtà esse sono tutta opera di Giovacchino Forzano, librettista di fama, che appare come semplice coautore. Grande successo di pubblico, lodi sperticate dalla critica, immancabili trasposizioni cinematografiche. Dalla platea, un compiaciuto Mussolini, finalmente, si gode la gioia di applausi sinceri, ma immeritati.

BIBLIOGRAFIA

Tutte le opere di Benito Mussolini citate sono contenute inOpera omnia di Benito Mussolini, 44 voll., a cura di Edoardo e Duilio Susmel, La Fenice Firenze 1951-1963, poi Volpe Roma 1978-1980.

  • BALABANOFF 1979 = Angelica Balabanoff, La mia vita da rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano, 1979.
  • BONAVITA 1937 = Francesco Bonavita, Primavera fascista dall’avvento fascista all’impero africano, Gontrano Martucci, Milano, 1937.
  • BOSWORTH 2002 = Richard J.B. Bosworth, Mussolini, un dittatore italiano, Mondadori, Milano, 2002.
  • BUONANNO 2013 = Errico Buonanno, La sindrome di Nerone, Rizzoli, Milano, 2013.
  • GOLDONI – SERMASI 1995 = Luca Goldoni, Enzo Sermasi, Benito contro Mussolini, BUR, Milano, 1995.
  • GUIDI 1948 = Rachele Guidi, La mia vita con Benito, Mondadori, Milano, 1948.
  • MACK SMITH 1981 = Denis Mack Smith, Mussolini, Rizzoli, Milano, 1981.
  • MUSSOLINI, 1947= Benito Mussolini, La mia vita, Editrice Faro, Roma, 1947.
  • MUSSOLINI 2004 = Romano Mussolini, Duce mio padre, Rizzoli, Milano, 2004.
  • PETACCO 2004 = Arrigo Petacco, L’uomo della provvidenza, Mondadori, Milano, 2004.
  • SARFATTI 1926 = Margherita Sarfatti, Dux, Mondadori, Milano, 1926.
  • SILONE 1938 = Ignazio Silone, La scuola dei dittatori, Europa Verlag, Zurigo, 1938.
  • SVEVO 1923 = Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Cappelli, Bologna, 1923.

Autore: Mario Taccone
Revisione e cura: Arianna Sardella, Serena Lunardi