capture 036 18062021 113608Il caso Saman – la povera  pachistana barbaramente uccisa in provincia di Reggio Emilia dalla sua famiglia per il rifiuto di un matrimonio combinato – in Italia continua a far discutere. Ma non è stata una gara alla denuncia più puntuale della realtà. Piuttosto s’è trattato di un circo di banalità e inesattezze, che ha reso protagonisti dei salotti showgirl e politici molto poco informati.

Saman era arrivata in Italia dal Pakistan, che non è esattamente “una piccola comunità chiusa”, ma il quinto Stato più popoloso nel mondo. E per capire cos’è successo vanno raccontate prima un bel po’ di cose. Il Pakistan è una repubblica parlamentare federale democratica che assume l’islam come religione di Stato, il che vuol dire che a regolare la vita dei cittadini è anche la shari’a – il complesso di  di vita e di comportamento dettato da Allah per la condotta , religiosa e giuridica dei suoi fedeli.

È pakistana la  hanafita,  giuridica di interpretazione della shari’a – prima delle quattro dell’islam sunnita.

 

Il periodico rapporto, “A numeric tale of human (in) security (SSDO)” ha registrato nel primo trimestre del 2020 un aumento allarmante dei casi di criminalità e violenza contro donne e  in Pakistan. A marzo 2020 è stato registrato un picco fino al 360% di casi in più, dato che poi è rimasto costante per tutto l’anno.

Numeri approssimati al ribasso, dal momento che non si basano sui dati dei ministeri, ma sulla cronaca molto spesso tendenziosa e solo sui crimini che è stato possibile denunciare. Eppure, dalla  pakistana si apprende che, principalmente per i reati in materia di matrimoni precoci, abusi sui , lavoro minorile, maltrattamenti domestici, rapimenti, stupri, violenza contro le donne e omicidi oltre il 90 per cento degli stessi sono stati commessi contro  e donne.

Il Pakistan è il sesto Paese più pericoloso al mondo per le donne, con casi di crimini sessuali e violenza domestica che registrano un aumento di anno in anno. Sullo sfondo c’è l’islam, nient’altro.

Sfogliamo un po’ la cronaca.

Il 13 ottobre scorso, Ali Azhar, 45 anni, rapiva, convertiva con la  forza all’islam e sposava una ragazzina cristiana di 13 anni. Le dinamiche violente della vicenda hanno fatto il giro del mondo alla storia.

Già il 15 ottobre, due giorni dopo i  della tredicenne che avevano sporto denuncia per rapimento, venivano convocati in questura. Là la polizia locale li informava, documenti alla mano, che la famiglia di anni ne aveva 18, e non 13, avevano forse fatto male il conto dei giorni dal concepimento. E che, convertita volontariamente all’islam, aveva deciso di sposarsi. Inutile riferire che l’Alta Corte del Sindh s’è pronunciata a favore del rapitore/marito grazie ad una clausola della shari’a che abroga ogni pena, dal rapimento allo stupro, per  chi si converte all’islam. L’ordinanza del tribunale recitava così, “la firmataria [la tredicenne] inizialmente apparteneva alla religione cristiana. Tuttavia, con il passare del tempo, si è resa conto che l’islam è davvero una religione universale e ha chiesto ai suoi  e ad altri membri della famiglia di abbracciare l’islam, ma questi si rifiutarono categoricamente. Ma abbracciò lo stesso, con coraggio la fede di Allah. Il suo nuovo nome è Arzoo Fatima e per dotto consiglio, la firmataria ha contratto il suo matrimonio con Azhar di sua spontanea volontà e accordo senza costrizione e paura”.

Un caso abbastanza comune in Pakistan. Basti pensare che in pochi mesi, a Karachi ci sono stati due rapimenti di tredicenni cristiane costrette in matrimoni regolarmente registrati dall’alta corte del Sindh, in conformità con la shari’a, ma contro le stesse leggi pakistane che li vietano per i  di 18 anni.

“Le nostre figlie sono insicure e maltrattate in questo Paese. Sono donne e in più cristiane, non sono al sicuro da nessuna parte. A casa o a , vengono rapite, violentate, umiliate e costrette a convertirsi all’islam”, ha dichiarato la mamma di una delle ragazzine rapite, Huma.

Nell’agosto 2020, Maira Shahbaz, una  cristiana di 14 anni, è fuggita dalla casa di Mohamad Nakash, il suo rapitore, che l’Alta Corte di Lahore aveva riconosciuto come il suo legittimo marito nonostante le obiezioni di lei e della sua famiglia. È fuggita in una stazione di polizia, dove ha raccontato di essere stata costretta a prostituirsi e filmata mentre veniva violentata.

I corpi gonfi e martoriati di due sorelle cristiane, sposate e con figli, che avevano a lungo respinto le avance dei datori di lavoro musulmani, sono stati trovati in una fogna nel gennaio 2021.

Ma elencare anche solo i più recenti episodi di violenza è impossibile. Spesso raccapricciante visto che in alcuni casi si tratta di bambine anche di sei anni. A tal proposito, recentemente, con una dichiarazione congiunta, il cardinale Joseph Coutts, arcivescovo di Karachi e il vescovo anglicano Kaleem John hanno sollecitato le autorità ad applicare la legge contro i matrimoni precoci varata dalla provincia del Sindh e ad approvare quella contro le conversioni forzate già presentata all’Assemblea provinciale nel 2016. Ma  niente s’è smosso.

Il Pakistan è il Paese leader al mondo per matrimoni forzati. Che, per definizione, non sono imposti direttamente dall’islam. Ma Corano, Sunna ed hadith lasciano libera interpretazione a certe pratiche, che sono poi ampiamente raccomandate quando la donna,  o bambina in questione è cristiana. Un’ infedele che diventa tale anche quando inizia ad adottare stili di vita occidentali o quando frequenta non musulmani. Il discorso del “disonore” nel caso Saman, per esempio, ha giocato un ruolo determinante. E  qui si potrebbe anche discettare circa le dinamiche dei contratti di matrimonio nel mondo islamico, ma per il momento sorvoliamo.

È sempre il Pakistan il Paese dove nel 2009 e nel 2012, il partito popolare pakistano propose un disegno di legge per proteggere le donne dalle violenze domestiche. Ma venne bocciato dal Consiglio dell’ideologia islamica, sostenendo che una simile legge avrebbe promosso “valori culturali occidentali” in Pakistan e che fosse troppo “anti islamica”.

È in Pakistan che Shahbaz Bhatti, ministro cattolico per le minoranze, unico ministro cristiano del governo, venne ucciso da islamici a Islamabad: pagò con la vita il suo impegno contro la legge sulla blasfemia. È pakistana la povera Asia Bibi costretta ad un lunghissimo calvario, ma oggi libera grazie anche a parte della comunità internazionale, per aver bevuto acqua ad un pozzo e quindi accusata di blasfemia perché cattolica: solo i musulmani potevano toccare quell’acqua. Quando nel 2018 la Corte suprema, dopo dieci anni di  e violenze atroci, l’assolse dalla pena di morte, i fedeli islamici misero a ferro e  la città al grido di, “la blasfemia contro Allah non merita la vita”.

Ed eccoci al caso Saman. In questi giorni abbiamo assistito anche all’irreale sodalizio tra l’Unione delle Comunità islamiche italiane – avamposto della Fratellanza musulmana in Italia – e il quotidiano dei vescovi italiani. Un fenomeno preoccupante se si pensa al fatto che l’agenda dell’Ucoii è osteggiata da gran parte del mondo musulmano italiano.

Le affinità elettive nascono dalla recentissima  dell’Ucoii: una fatwa contro i matrimoni combinati. Può sembrare una cosa positiva, ma è solo un modo per introdurre in Italia la legge islamica, per renderla accettabile, positiva e prevalente sul diritto italiano.

Forse all’Ucoii e ad Avvenire sfuggono i fatti di cui sopra. Manca la conta delle migliaia di ragazze che ogni anno si ritrovano schiacciate nelle morse di matrimoni  islamici forzati e per non parlare del drammatico fenomeno delle ragazze cristiane che vi abbiamo raccontato. E sfugge anche che in Italia ci sono già delle leggi a tutela delle bambine, dei diritti umani e che vige lo stato di diritto.

Fa sorridere vedere l’Ucoii e Avvenire alleati, poi, sulla richiesta d’integrazione. Una strategia che vorrebbe alcune frange pericolose islamiche come interlocutrici, e quindi la veloce approvazione di ius soli e ius culturae. Ha fatto probabilmente anche il giro del Pakistan la teoria per cui se Saman avesse avuto la cittadinanza italiana perché la povera ragazza aveva frequentato le scuole in Italia, il suo destino sarebbe stato diverso. Nessuno riesce ad immaginare il come una cittadinanza italiana avrebbe potuto salvare Saman dalla sua famiglia. Forse, se avesse fatto richiesta di cittadinanza con il fantomatico ius cultura sarebbe anche morta prima: punita per “sogni troppo occidentali”.

La fatwa, lo ius soli e compagni, l’integrazione sbandierata – sulla quale il caso Saman ha appeso un amaro manifesto mortuario – sono bieca ideologia. Che ignora la realtà di un Paese, l’Italia, che piano, piano si sta sottomettendo, islamizzando, come il resto d’Europa. E dove casi come Saman finiscono nel tritacarne dell’indifferenza e delle bugie.

Un dato tra i tantissimi: il 60% delle bambine e ragazzine figlie di immigrati in Italia abbandona la  dell’obbligo o per tornare nel Paese d’origine per matrimoni forzati, o perché i  non intendono far loro assimilare uno stile di vita occidentale.

Chissà come si libereranno queste ragazzine dall’islam con lo ius culturae se non è permesso neanche frequentare o finire la scuola?

di Lorenza Formicola per www.lavocedelpatriota.it