Cavalli e societaNei poco più di 5.000 anni trascorsi dalla loro domesticazione, i cavalli hanno rivoluzionato la nostra società: potenti alleati in battaglia, preziosi aiutanti in commercio e agricoltura, fedeli compagni di viaggio. Ma questo antico rapporto ha continuato a cambiare, arricchendosi di nuovi approcci che conciliano l’equitazione al benessere di una specie che si è evoluta per la vita in branco e comunica in modo estremamente sofisticato. Abbiamo fatto qualche domanda in proposito a Rachele Malavasi, ricercatrice nell'ambito della cognizione animale, esperta di etologia equina e consulente scientifica di EquiLuna, scuola di equitazione etica fondata sull’approccio cognitivo-relazionale.

 

Prima di tutto, cosa si intende con approccio cognitivo-relazionale al cavallo?

È un approccio sviluppato nella zooantropologia: nell’equitazione etica la differenza dai metodi tradizionali sta innanzitutto nel considerare il cavallo un essere senziente. Non ho di fronte “il cavallo” ma Santiago, Oliver, Leo. E devo riconoscere che è un’altra specie, che è diverso da me. Ad esempio: se è inverno il suo pelo sarà lungo e non avrà bisogno di indossare la coperta, mentre le vibrisse sono importanti strutture sensoriali, quindi non vanno tagliate per fini estetici come faremmo noi. Il prerequisito fondamentale di questo approccio è che i cavalli vivano in gestione naturale, in branco.Quando mi relaziono al cavallo il primo pensiero non deve essere “cosa ho voglia di fare oggi?” ma “come farò a renderlo fiero della sua vita e insegnargli cose che gli saranno utili?”. La cognizione è la capacità di interpretare le informazioni, richiamarle alla mente e sfruttarle. Siamo noi a portare un’altra specie nel nostro mondo ed è nostra responsabilità aiutarla a codificarle le informazioni che riceve, in modo che non siano fonte di stress ma utili per condurre una vita serena.

Ma come si concilia tutto questo con l’addestramento?

In questo approccio non esiste la doma, perché significherebbe plasmare il cavallo per fargli fare quello che serve a noi. L’obiettivo è invece permettergli di integrarsi bene nell’ambiente ed esprimersi nel modo che è proprio della specie. Prendiamo Santiago, un puledro di EquiLuna nato e cresciuto in mezzo al branco. Ha sempre avuto accanto cavalli sereni che interagiscono con noi in modo positivo: spesso entriamo nel recinto con la capezza in mano e la sella sottobraccio e loro si avvicinano spontaneamente. Ovviamente non succede sempre, anche un cavallo può essere scocciato e non aver voglia di fare lezione!Così Santiago è cresciuto associandoci a qualcosa di bello: da piccolo si avvicinava agli oggetti e li prendeva in bocca, ci giocava. Quando andavamo in passeggiata ci seguiva libero, per lui eravamo un piccolo branco e sapeva di non dover temere nulla. Tutto questo processo elimina il bisogno della doma e rende il cavallo competente: di fronte a un rumore molto forte o un oggetto sconosciuto non reagirà scappando ma valuterà la situazione e deciderà come comportarsi.

E come si abituano i cavalli a trottare e galoppare con un cavaliere?

Cerchiamo di soddisfare le loro motivazioni. Ogni specie è spinta da qualcosa: a noi piace andare al nocciolo dei problemi, proteggere i nostri cari, curare il corpo per soddisfare l’estetica. Per i cavalli, anche loro una specie sociale, le motivazioni sono in primis quella sociale verso il branco e quella cinestesica, il bisogno di muoversi rapidamente. Perciò facciamo in modo che l’obiettivo finale sia ricongiungersi con il branco, facciamo trottare il cavallo e il cavaliere in direzione dei compagni così che venga soddisfatta sia la motivazione del cavaliere che quella sociale del cavallo. Nelle passeggiate può essere una pozza d’acqua alla fine del percorso, mentre di rado scegliamo le ricompense con il cibo: è sempre preferibile premiarli con una bella grattata.Ogni tanto apriamo il cancello ai cavalli del branco e li facciamo entrare nel recinto dove si sta facendo un’attività, così che per loro non sia solo il posto “in cui devono fare cose”. Capita che entrino e si uniscano ai compagni, sempre in modo sereno. Nell’equitazione etica non c’è un campo a ostacoli, ma facciamo questo esempio: se dopo il salto il cavallo è spaventato non dobbiamo forzarlo ma ri-avvicinarci con calma, fargli odorare l'ostacolo e guardare altri compagni che saltano. Sono tutte piccole cose che gli serviranno se dovrà saltare di nuovo, magari da solo: non si limiterà a farlo il più velocemente possibile, ma rifletterà su quello che sta facendo.

Molte di queste attenzioni ci sono anche nell’equitazione classica, non pensi che l’approccio al cavallo sia già cambiato molto per considerare il suo benessere?

Per fortuna sempre più persone si rendono conto che forzare il cavallo non serve, non fa parte della sua etologia. Ma se sta nel paddock o nel box da solo comunque il suo benessere non è la priorità e ha meno opportunità di esprimersi e migliorare le abilità sociali. Dovremmo metterci nella condizione di “tutto questo lo faccio per lui”. Ovviamente nessuno di noi è San Francesco d’Assisi, io per prima amo cavalcare e uscire in passeggiata, se fatto in modo etico. È possibile trovare un equilibrio.Prendiamo Leo, un cavallo adorabile ma testardo che ha pausa di uscire in passeggiata da solo e arrivato a una certa “soglia invisibile” non vuole proseguire. Arrivati lì cerco di diventare il suo punto di riferimento e superare la barriera poco alla volta. Una volta oltrepassata ci fermiamo, mangiamo e torniamo indietro.

Ma con tutte queste premesse, montare a cavallo è etico?

Quando sono andata all’oasi EquiLuna per la prima volta me lo sono chiesto anche io: studiavo già il comportamento dei cavalli e volevo vedere come si relazionavano con l’equitazione delle persone che parlavano di etica. Mi sembrava assurdo. Invece mi sono resa conto che l’approccio è in linea con l’etologia della specie: il branco, ad esempio, può sempre vedere l’area dove si svolgono le attività e viceversa.La situazione ideale è la famosa prateria in cui vivono liberi, ma nella realtà vivono con noi e se non montassimo dovremmo tenerli sempre nello stesso posto o portarli a mano. Ma anche in gestione naturale i cavalli si annoiano, hanno voglia di cambiare ambiente. In passeggiata si va una volta dove dico io una volta dove vuole il cavallo, alternando percorsi a piedi e in sella, dandogli l’opportunità di conoscere nuovi ambienti. Se cavalcare è etico o meno, dipende dagli obiettivi con cui lo si fa.

Ma creare un rapporto di questo tipo è possibile anche con un cavallo che non è il proprio e si incontra poco spesso?

Si, una relazione sincera è possibile anche così. Io ad esempio vedo Leo una volta al mese e lui nel frattempo incontra un sacco di persone e cavalli. Ma quando arrivo e lo chiamo alza la testa e la coda e spesso arriva trotterellando. Se sto riparando gli steccati con il cacciavite lui si avvicina e io lo coinvolgo nella mia vita: gli mostro la vite, mi sposto, lo chiamo di nuovo. Poi mi faccio coinvolgere nella sua, quando ad esempio se ne sta con il sedere al vento insieme al branco io mi metto lì con loro per un po’. Sembra una cosa piccola, partecipare, ma fa la differenza.

L’anno scorso hai scoperto che i cavalli comunicano con noi intenzionalmente. Come descriveresti il modo in cui noi comunichiamo con loro? Siamo attenti a queste “conversazioni” non verbali?

La cosa più importante è essere presenti, ascoltare il proprio corpo e quello del cavallo. Prima di tutto devo riconoscere la mia “cifra zero”, ovvero la postura che non comunica niente. Perché se non chiedo al cavallo la sua attenzione, se non mi rendo conto che la mia postura è cambiata, gli dò la responsabilità di non aver capito quando a comunicare in modo confuso sono io. Ed è il motivo per cui spesso i cavalli da scuola si stressano con i principianti: non si accorgono quando aprono o chiudono le comunicazioni. Così magari il cavallo morde, ti spinge via, e il risultato è che viene punito per non aver soddisfatto richieste che non poteva capire.Insieme a Ludwig Huber dell’Università di Medicina Veterinaria di Vienna abbiamo scoperto che i cavalli manipolano la nostra attenzione verso un oggetto, come un secchio pieno di cibo. Durante l’esperimento giravano la testa per far girare la mia e cercavano di farmi puntare gli occhi sul secchio. Capivano che noi prestiamo attenzione a quello che guardiamo. Se non bastava, perché volutamente non rispondevo, modificavano la comunicazione: muovevano la testa e la coda e infine mi tiravano per la maglietta, o mi giravano intorno e poi guardavano il secchio. Per condurre lo studio ho fatto una figuraccia: avevo conquistato la fiducia di tutti i cavalli e poi ho dovuto fingere di non capire niente di quello che mi dicevano!La scoperta è importante perché manipolare l’attenzione in questo modo è un prerequisito della teoria della mente, l’abilità di capire gli stati d’animo altrui, ma lo è anche da un punto di vista pratico. Se i cavalli ci comunicano le loro esigenze ma noi non ascoltiamo, finiscono per pensare che la comunicazione è inefficace e potrebbero andare in stati depressivi. Se fallisco perché non mi ascolti smetterò di comunicare e questo lede moltissimo la relazione.

Eleonora Degano per National Geographic.it 

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