Non esiste al momento un regolamento nazionale sull’accesso ai dati sensibili dei pazienti ai fini dell’indagine. Gli epidemiologi incaricati di raccogliere le informazioni dei malati di cancro si arrangiano per aggirare l’ostacolo. E nella maggior parte dei casi – ogni volta che devono attingere ai flussi informativi extraregionali – sono costretti a violare il codice della privacy. Da Nord a Sud, i racconti dei medici costretti a sotterfugi pur di mantenere in vita il progetto.
I registri dei tumori in Italia sono intrappolati in una palude burocratica. Tanto che oggi alcuni medici, per la troppa fatica nel compilarli, minacciano di chiuderli. Nati a partire dalla fine degli anni Ottanta, cresciuti all’ombra della legge statuale per oltre trent’anni, è solo nel 2012 con il decreto Crescita 2.0 (dl 179/2012 convertito con legge 221/2012) che viene istituita per la prima volta la rete nazionale dei registri tumori. Un progetto però che, a distanza di quattro anni, resta ancora lettera morta. Mancano infatti le norme attuative indispensabili per dare corpo a questi registri. Il problema più urgente riguarda la privacy. Non esiste al momento un regolamento nazionale sull’accesso ai dati sensibili dei pazienti ai fini dell’indagine. Gli epidemiologi incaricati di raccogliere le informazioni sanitarie dei malati di cancro si arrangiano alla bell’e meglio per aggirare l’ostacolo. E nella maggior parte dei casi – ogni volta che devono attingere ai flussi informativi extraregionali – sono costretti a violare il codice della privacy.
“Sembriamo dei carbonari – si sfoga Paolo Ricci, responsabile del registro di Mantova, terra di confine tra Lombardia, Emilia Romagna e Veneto – Se un cittadino va a curarsi fuori regione, l’ospedale non può rilasciare i suoi dati sanitari in via ufficiale. È attraverso una rete sotterranea di scambi informali che riesco a ottenere tutto quello che mi serve per la ricerca. Mi riferisco a scheda di dimissione ospedaliera, cartella clinica, accertamenti diagnostici, consumo di farmaci e cause di morte. Chiamo il collega e devo sperare che per solidarietà mi passi tutti questi documenti. Non sempre va bene, per esempio dalle strutture dell’Emilia Romagna non mi danno niente. Alla fine recupero a malapena la metà dei dati dalle altre regioni. Devo fare il mio lavoro con le mani legate, impiego il doppio delle energie, è una disperazione, se le regole non cambiano al più presto saremo costretti a chiudere”.
Nessun divieto se l’altro ospedale si trova in Lombardia: “Ci sono dei decreti regionali che consentono il trattamento delle informazioni sanitarie, ma i mantovani che si fanno ricoverare a Bologna o Verona, piuttosto che a Milano, sono parecchi”. Un altro modo per bypassare il consenso informato da parte del paziente (una condizione evidentemente impossibile da soddisfare quando si tratta di fare inchieste su larga scala), ci confessano alcuni medici, è quello di sfruttare i documenti raccolti dalla magistratura in caso di indagini aperte sui siti inquinati. Oppure, nei territori dove la migrazione sanitaria è altissima, “l’unica maniera per portare avanti il registro è affidarsi alle carte che il paziente allega alla domanda per l’esenzione del ticket sanitario o per il certificato di invalidità – racconta Mario Fusco, responsabile del registro tumori di Napoli – Magari però fossero dati informatizzati: dobbiamo rovistare tra i faldoni negli scantinati. Di alcuni pazienti poi non riusciamo a recuperare i referti istologici, arriviamo a una copertura dell’87 per cento”. Col risultato che i calcoli finali non sono affidabili al cento per cento.
Da Crotone il dottor Carmine La Greca conferma che aggiornare il registro è un vero travaglio: “Lavoriamo sui fili della legalità per garantire la riservatezza dei pazienti. Ciò significa che ci assumiamo grandi responsabilità pur di non mollare”. E i tempi si allungano per forza di cose. I registri in media vengono aggiornati con un ritardo di quasi dieci anni. Giuseppina Candela, a capo dei registri di Trapani e Agrigento, oltre a scartabellare gli allegati alle richiesta di esenzione ticket e invalidità, quando un ospedale fuori o dentro la Sicilia vieta l’accesso ai dati, si affida alla buona volontà dei medici di famiglia. “Chiediamo loro di far firmare al paziente oncologico il consenso al trattamento dei suoi documenti, ma in questo modo recuperiamo solo il dieci per cento dei casi”. Si arriva perfino al paradosso nel paradosso. Come a Ferrara: “Ho difficoltà a ottenere le cartelle dei pazienti dello stesso ospedale in cui lavoro io – ammette Stefano Ferretti, direttore del registro di Ferrara e Bologna -. A Bologna per via della legge sulla privacy il registro tumori non è mai partito. Io quindi mi ritrovo con dei buchi, ci devono mettere nelle condizioni di operare”. Non va male ovunque, certo. A Milano, dove il problema della migrazione sanitaria è quasi inesistente, tutto funziona come deve funzionare. “In Lombardia possiamo accedere ai dati dei pazienti di tutti gli ospedali regionali allo scopo di ricerca scientifica e per monitorare l’aderenza ai percorsi diagnostici e terapeutici e capire quindi l’efficacia degli screening di prevenzione” spiega Antonio Russo del registro tumori dell’Ats della città metropolitana di Milano.
Negli uffici del Garante della privacy sono coscienti dell’annoso dramma dei registri. “L’Autorità il 23 luglio 2015 ha reso il proprio parere sullo schema di dpcm (decreto del presidente del Consiglio dei ministri) attuativo dell’articolo 12 del decreto-legge, quello che riguarda i registri dei tumori appunto – risponde Chiara Romano del dipartimento Libertà pubbliche e Sanità – In tale parere si sottolineava, tra l’altro, l’anomalia della procedura seguita nell’attuazione della disciplina legislativa, dal momento che il dpcm, per la cui adozione non è previsto un termine, veniva sottoposto alla consultazione del Garante, quando ancora non era stato redatto lo schema di regolamento che avrebbe dovuto individuare le garanzie per la protezione dei dati personali trattati nei registi, nonostante il termine per la sua adozione, fissato in 18 mesi dalla data di entrata in vigore del decreto-legge 179/2012, fosse ampiamente scaduto”. Il decreto è già stato firmato dal ministro della Salute Lorenzin. Manca ancora la firma del primo ministro cui seguirà il controllo della Corte dei conti e la pubblicazione in Gazzetta ufficiale.
Intanto le regioni si danno da fare come possono. Veneto e Sardegna sono le prime ad aver adottato un regolamento (vagliato dal Garante) per poter lecitamente trattare dati anagrafici e sanitari, anche infra-regionali, delle persone affette da tumore e dei loro familiari. Mentre sono all’attenzione dell’Autorità gli schemi regolamentari di Lazio e Valle d’Aosta. Altre invece, conclude Romano, “hanno chiesto la collaborazione dell’Ufficio del Garante per la definizione di uno schema tipo comune che riprende in gran parte la bozza predisposta all’esito del tavolo interregionale nel 2012”. Un tavolo di lavoro – riaperto qualche mese fa – che era stato chiuso in vista della conversione in legge del dl 179. Oggi se un cittadino volesse sapere dove in Italia si muore di più per cancro non trova una risposta. E, come abbiamo dimostrato, non è una questione di negligenza o carenza di personale. La rete nazionale dei registri è ancora in alto mare: per adesso sono solo 44 quelli accreditati (con una copertura nazionale al 60 per cento), altri 15 invece sono già in attività ma aspettano la convalida dell’Airtum (l’associazione italiana registri tumori). Abbiamo chiesto all’associazione di elaborare una classifica delle regioni e delle città coperte da registro. Per adesso bisogna accontentarsi di queste tabelle.