Corte CostituzionaleCome ha ricordato Gaetano Azzariti sul Manifesto di qualche giorno fa, già nel 2003 la Corte costituzionale si è trovata a valutare l'ammissibilità di un referendum abrogativo relativo all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori (sentenza n. 41 del 2003, presidente Chieppa, redattore Zagrebelsky). Allora, come oggi, pur interessando una pluralità di disposizioni legislative, il quesito aveva una finalità unitaria: rendere applicabile la tutela reale contro i licenziamenti illegittimi, attraverso la sanzione del reintegro nel posto di lavoro, a un novero più ampio di lavoratori rispetto a quello legislativamente previsto.

Per ottenere tale risultato, i promotori del referendum del 2003 si prefiggevano di abrogare le disposizioni legislative: (a) che limitavano la tutela reale ai lavoratori impiegati in imprese con più di 15 dipendenti; (b) che escludevano dalla tutela reale i dipendenti da datori di lavoro non imprenditori svolgenti senza fini di lucro attività «di tendenza» (cioè «di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto»); (c) che prevedevano la tutela obbligatoria (corresponsione di un'indennità), anziché la tutela reale, per il licenziamento illegittimo di lavoratori impiegati in imprese con meno di 15 dipendenti.

Il risultato di questo complesso di abrogazioni, in caso di vittoria dei «Sì», sarebbe stata l'estensione della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi, prevista come regola generale per i dipendenti nel settore privato, anche ai soggetti esclusi (con l'eccezione di lavoratori domestici, lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici, dirigenti, lavoratori in prova).

Eliminando i limiti all'applicazione della regola generale, il referendum non si sarebbe, dunque, limitato ad abrogare alcune previsioni normative, ma, in conseguenza delle abrogazioni realizzate, avrebbe prodotto una disciplina innovativa. Chiarissima, in tal senso, la Corte costituzionale nella sentenza con cui ammetteva la consultazione: «il referendum ... è rivolto in primo luogo all'estensione della garanzia reale contro i licenziamenti ingiustificati ai lavoratori che attualmente, in conseguenza dei limiti numerici sopra ricordati, godono esclusivamente della garanzia obbligatoria» (punto 2.3 del Considerato in diritto).

Nessun dubbio, dunque, che quello del 2003 fosse un referendum manipolativo, vale a dire un referendum volto in ultima istanza non a eliminare norme, ma a introdurne di nuove. La consultazione poi fallì, per il mancato raggiungimento del quorum. Ma, resta il precedente dell'ammissione del quesito, nonostante il suo contenuto manipolativo-propositivo. Per quale motivo allora, almeno stando alle indiscrezioni giornalistiche, l'Avvocatura dello Stato avrebbe chiesto l'inammissibilità del referendum odierno denunciandone la natura manipolativa? E, soprattutto, per quale motivo, sempre stando ai giornali, tale argomentazione avrebbe addirittura fatto breccia in alcuni dei giudici costituzionali in carica? Davvero è possibile che la Corte intenda rimangiarsi i propri precedenti? O il giudizio di ammissibilità sta perdendo la sua connotazione squisitamente costituzionale per assumerne una marcatamente politica?

Di certo, è impossibile negare che il caso odierno sia riconducibile a quello del 2003. In primo luogo, infatti, va rilevato che quella in discussione sarebbe una manipolazione ben più limitata di quella che si sarebbe prodotta se fosse stato raggiunto il quorum nel 2003. Mentre allora - come ricordato - la tutela reale si sarebbe estesa a tutti i lavoratori, anche nel caso in cui il lavoratore illegittimamente licenziato fosse stato l'unico dipendente dell'impresa, oggi permarrebbe un limite numerico per l'applicazione del reintegro, sia pure ridotto da 15 a 5 dipendenti. Inoltre, nessuna modifica si avrebbe per quanto riguarda i dipendenti da datori di lavoro che esercitano, non imprenditorialmente, attività «di tendenza».

In secondo luogo, valgono oggi le medesime argomentazioni che la Corte costituzionale utilizzò per ammettere il quesito referendario del 2003: la materia non rientra tra quelle sottratte al referendum dall'art. 75, co. 2, Cost. e, soprattutto, la domanda rivolta agli elettori è omogenea pur interessando una pluralità di disposizioni di legge. Con riguardo a quest'ultimo, delicato, profilo, la sentenza n. 41 del 2003 precisa che quel che conta è che il coinvolgimento di un complesso di norme sia giustificato dalla presenza di una ratio unitaria, quale allora era la «estensione della garanzia della reintegrazione e del risarcimento del danno contenuta nell'art. 18 dello statuto dei lavoratori» (punto 3.2 del Considerato in diritto).

In tutta evidenza, si tratta della medesima finalità che ricorre oggi, dal momento che scopo del referendum all'esame della Consulta è proprio quello di estendere la tutela reale contro il licenziamento illegittimo anche ad alcune categorie di lavoratori esclusi: a quelli dipendenti da imprese con meno di 15 e più di 5 addetti e a quelli assunti dopo l'entrata in vigore del Jobs Act (più precisamente, del decreto legislativo n. 23 del 2015).

In definitiva: nel 2003 la tutela reale era prevista solo per i lavoratori dipendenti da datori di lavoro con più di 15 dipendenti e si trattava di estenderla ad altri lavoratori (anche se non a tutti: restavano infatti esclusi i lavoratori appartenenti a determinate categorie "speciali"); oggi la tutela reale è prevista solo per i lavoratori dipendenti da datori di lavoro con più di 15 dipendenti assunti prima dell'entrata in vigore del Jobs Act e si tratta di estenderla ad altri lavoratori (anche se non a tutti: resterebbero infatti esclusi i lavoratori dipendenti da datori di lavoro con meno di 5 dipendenti, i dipendenti da datori di lavoro svolgenti senza fini di lucro attività «di tendenza», i lavoratori appartenenti a determinate categorie "speciali"). Dov'è la differenza? Perché il referendum del 2003 era ammissibile e quello del 2017, che peraltro avrebbe una portata estensiva ben minore, non lo sarebbe? La logica non ci insegna che dove sta il più necessariamente sta anche il meno (ciò che gli studiosi dell'argomentazione giuridica chiamano ragionamento a fortiori)?

La sentenza n. 41 del 2003 si chiudeva rilevando che la domanda rivolta agli elettori «si presenta chiara e univoca nella sua struttura e nei suoi effetti», dal momento che «propone al corpo elettorale un'alternativa netta» (punto 3.5 del Considerato in diritto). Proprio le tensioni odierne dimostrano che la situazione non è cambiata. Di nuovo, l'alternativa è netta: da una parte stanno coloro per i quali il lavoro è oramai solo uno dei costi che l'impresa deve minimizzare; dall'altra stanno coloro per i quali il lavoro è insostituibile requisito perché l'esistenza di ciascuna persona sia realmente «libera e dignitosa». La prima, è l'idea di lavoro propria del finanzcapitalismo imperante; la seconda, è l'idea di lavoro prevista dalla Costituzione. Da che parte sta la Corte costituzionale, lo scopriremo l'11 gennaio.

di Francesco Pallante Professore associato di Diritto costituzionale, membro del Consiglio di Direzione di Libertà e Giustizia da huffingtonpost.it 

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