capture 111 11052020 100903Italia 8 Dicembre 1970, alle ore 07:59, la nazione avrebbe dovuto ascoltare questo comunicato: «Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di Stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato e ha portato l’Italia verso lo sfacelo economico e morale ha cessato di esistere. Le forze armate, le forze dell’ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della Nazione, sono con noi, mentre possiamo assicurarvi, che gli avversari più pericolosi, quelli che per intendersi, volevano servire la Patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi. Nel riconsegnare nelle vostre mani, il glorioso tricolore, vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno d’amore: Italia! Italia! Viva l’Italia!».

Il proclama appena scritto, è un documento autentico: il proclama alla nazione che l’otto Dicembre del 1970 avrebbe dovuto annunciare al Paese il colpo di Stato realizzato dal principe Julio Valerio Borghese (1906 – 1974), un golpe che avrebbe dovuto rovesciare la democrazia e instaurare in Italia un regime militare. Una storia oscura, piena di misteri, di colpi di scena, ma anche di tanti interrogativi, a cominciare da quello che accadde davvero a Roma la notte tra il sette e l’otto Dicembre 1970.

 

Sotto l’incessante pioggia di quella sera, strane manovre avvennero dentro la capitale, operazioni che puntano a colpire al cuore lo Stato italiano, i suoi nervi strategici, le sue istituzioni e i suoi uomini.

Gruppi di cospiratori si riuniscono in punti diversi della città: a Montesacro in un cantiere di proprietà dell’ex repubblichino Remo Orlandini; in via Eleniana, vicino alla Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, nella palestra dei paracadutisti di Sandro Saccucci; in via arco della Ciambella – nel cuore di Roma -, nella sede dei militanti di Avanguardia nazionale, la formazione neo-fascista di Stefano delle Chiaie (1936).

Intanto una colonna di duecento guardie forestali, guidate dal colonnello Luciano Berti è pronta a muoversi da Città Ducale – vicino Rieti – in direzione della capitale.

L’operazione denominata in codice Tora Tora, coinvolge altri luoghi della penisola: squadre di estremisti della destra extra-parlamentare sono pronti a muoversi anche dal Veneto, dalla Liguria, dall’Umbria, dal resto del Lazio, dalla Campania. Il colonnello Amos Spiazzi (1933 – 2012) con i suoi uomini è pronto ad occupare Sesto San Giovanni a Nord di Milano. Il comando politico dell’operazione è a Roma in Via Sant’Angela Merici negli uffici del maggiore Mario Rosa che alle 22:15 fa partire l’azione: la macchina del golpe è in moto, è l’ora X.

Gli obiettivi dei congiurati sono quelli dell’occupazione degli uffici RAI di Via Teuladia, il Ministero degli interni e della Difesa, uccidere il Capo della polizia Angelo Vicari (1908 – 1991), rapire il Capo dello Stato Giuseppe Saragat (1898 – 1988).

Alle ore 23:00, alcuni obiettivi strategici come il Viminale sono già raggiunti, dall’Armeria vengono prelevati duecento mitra, centinaia di uomini sono già in azione. All’1:40 improvvisamente dalla centrale politica arriva un contrordine: smobilitare, tutti a casa.

Per i tribunali italiani tutto questo non è mai successo: anzi molto probabilmente nessuno ha mai seriamente pensato a un golpe. Davvero allora non è successo nulla? Forse no.

Un medico di Rieti, dopo aver partecipato al golpe e dopo aver fatto dieci anni di latitanza, di nome Adriano Monti ha scelto recentemente di confessare, gettando nel caos i verdetti della Magistratura.

Così racconta: «Avevo questo amico, questo alto funzionario della Corte dei Conti, che faceva parte del gruppo ristretto del comandante Borghese ed era il delegato regionale del Fronte Nazionale, per la Regione Lazio. Fu lui che praticamente mi fece incontrare a casa sua, in via Flaminia, il comandante e parlando venni coinvolto in questa fase di preparazione del progetto: ricreare in Italia un nuovo tipo di democrazia, per poter fronteggiare questa tendenza di sinistra, che allora faceva molto paura». La paura del comunismo fu il principio, secondo Monti, per cui Borghese avrebbe progettato e ideato il colpo di Stato. Un progetto da attuarsi con l’aiuto delle forze armate coinvolgendo civili e militari.

Per capire questa storia, dobbiamo sforzarci di compiere un leggero passo in avanti, arrivando al momento in cui gli italiani scoprono, per la prima volta, di essere stati sul punto di diventare cittadini di una dittatura militare. Dalla notte di quel fantomatico golpe sono passati più di tre mesi: il 17 Marzo 1971, alle ore 15:00, il quotidiano romano Paese sera titola di essere stato “scoperto un complotto di estrema destra” per un “piano eversivo contro la Repubblica”.

La notizia corre brevemente su tutti i notiziari nazionali e il Parlamento sospende tutte le sedute, richiamando il Ministro degli interni Franco Restivo a dare conto delle indagini della polizia e della Magistratura. In realtà, secondo il Ministro, non è accaduto nulla, ma dal Palazzo di Giustizia partono i primi arresti.

Claudio Vitalone (1936 – 2008), allora Pubblico Ministero del processo Borghese, racconta come: «Noi pubblicammo come Procura della Repubblica di Roma, una gravissima ipotesi di reato, che era un’insurrezione armata contro i poteri dello Stato (…) chiunque promuove un’insurrezione armata contro i poteri dello Stato, è punito con l’ergastolo».

I telegiornali narrano: «Vi diamo subito i nomi dei responsabili con le ipotesi di reato. Gli accusati sono l’ex Maggiore dell’esercito Mario Rosa, segretario organizzativo del Fronte Nazionale – capeggiato da Borghese; l’ex tenente dei paracadutisti Sandro Saccucci, segretario della sezione romana dell’associazione Paracadutisti e il costruttore edile Remo Orlandini». Il giorno dopo è la volta di Julio Valerio Borghese, ma il “principe nero” è irreperibile, diventato ormai una primula rossa.

La polizia lo indica come il leader di questa cospirazione. Il capo delle formazioni del Fronte Nazionale è a tutti gli effetti un latitante, ma chi è in verità Julio Borghese? Quali sono i progetti del Fronte Nazionale? Ha spiegarlo sarà proprio lui, durante un’intervista rilasciata a Giampaolo Pansa, sabato 5 Dicembre del 1970, a meno di 48 ore dalla notte del presunto golpe.

Nella foto il leader Giorgio Almirante, accanto al presidente onorario del Movimento Sociale italiano: Junio Valerio Borghese.

Questa intervista comparirà su “La Stampa” il 9 Dicembre del 1970 e prenderà il titolo di “Deliri del principe nero”: «quello che stiamo tentando di fare, è creare un centro di potere su scala nazionale, basato sulle strutture di quel tipo di nazione, che noi vorremmo vedere attuato. (…) Forse servirà un golpetto, ma credo che non occorrerà (…) noi ci avvarremo di inserire, senza colpo ferire, quel vuoto che esiste fin da ora. Oggi la classe politica, si è arresa totalmente ai comunisti. Il dilemma è: Roma o Mosca. Voi preferite essere dominati da Mosca? E allora scegliete il PC».

Al centro della visione politica di Borghese c’è un anti-comunismo viscerale, ma vi sono anche toni cupi e violenti e quegli stessi toni si ritrovano nell’ultima intervista televisiva rilasciata da Borghese durante la sua latitanza alla televisione svizzera: «Oggi parlo contro gli italiani, quando le dico per esempio che uno dei nemici più grandi che abbiamo nel nostro Paese sono i comunisti e questi sono appunto italiani e non mi imbarazza affatto dire che sono nemici e che se potessimo sterminarli io sarei molto contento, perché questo libererebbe il nostro Paese da nemici che ci vivono e che sono una minaccia continua».

Parole dure, violente, minacciose: ma l’anti-comunismo di Borghese del resto viene da lontano.

Junio Valerio Scipione Ghezzo Marcantonio Maria dei principi Borghese nasce a Roma il 6 Giugno del 1906. La sua è una delle più importanti famiglia della storia italiana: i Borghese hanno dato alla chiesa un Papa, si sono imparentati con i Bonaparte, hanno espresso uomini di governo e diplomatici nell’Italia liberale. Junio entra in marina nel 1922, a 16 anni, proprio quando il fascismo prendeva il potere e la sua carriera sarà folgorante: durante la seconda guerra mondiale, Borghese è al comando del sommergibile Scirè con il quale si distingue in imprese memorabili che ne faranno un mito non solo nella nostra marina militare. Il 19 Dicembre 1941, Borghese affonda due Corazzate inglesi e un incrociatore: sarà uno dei pochi successi italiani, nel corso del conflitto.

Ma il giorno che segnerà per sempre la vita di Borghese è l’otto Settembre del 1943: nell’Italia della resa e della disfatta fascista, Borghese sceglie di rimanere alleato della Germania hitleriana, contro il “traditore” Badoglio. Con i volontari della Decima Mass, di cui assume il comando, Borghese continua a combattere contro gli anglo-americani che avanzano da Sud. Le formazioni di Borghese sono coinvolte nella guerra civile e la decima verrà accusata di efferatezze per le quali – a liberazione avvenuta – il suo comandante sarà chiamato a rispondere in tribunale. Documenti americani, desecretati solo nel 2000, provano la collaborazione di Borghese e di uomini della Decima con gli americani, già prima del 25 Aprile 1945. Dopo la liberazione, sarà proprio l’intervento personale di James Jesus Angleton (1917 – 1987), responsabile del contro-spionaggio dell’OSS, da cui poi nascerà la CIA, a salvare la vita al “principe nero”.

Processato tra il 1947 e il 1949 per collaborazionismo e guerra partigiana, grazie alle pressioni americane – oggi note – sulla procura militare italiana, Borghese viene condannato, ma ottiene le attenuanti. Dopo pochi anni di prigione è rimesso in libertà, ma è nell’Italia Repubblicana e anti-fascista Borghese resta un esule a disagio.

La via della politica di partito, con il Movimento Sociale, di cui diventa presidente onorario, si rivela ben presto un fallimento. Il principe non condivideva tutte le scelte a suo dire “politicanti” del movimento politico, poiché egli si definiva – ed era – uomo militare.

Un personaggio in difficoltà di fronte alla nascente Repubblica italiana, nata già con più ombre che luci dopo il Referendum, decide di giocare in solitaria e fonda nel 1968 il Fronte Nazionale.

Un movimento – quello di Borghese – che si incasellava in un Paese scosso dalla rivolta studentesca e dai movimenti sovversivi degli operai. Con il Fronte Nazionale, il “principe nero” puntava a divenire collante e riferimento dei movimenti della destra radicale, che non si riconoscono nei movimenti della politica del Movimento Sociale, che giudicano troppo moderato.

Borghese ambiva ad un’azione rivoluzionaria, ovvero ad un mutamento radicale, che doveva essere accompagnato da un’ipotesi tecnica – golpista – che potesse incarnarsi come il “momento 0”, della “rivoluzione”. Falliti i contatti con Ordine Nuovo di Pino Rauti (1926 – 2012), rientrante nei ranghi del Movimento Sociale, l’alleato principale di Borghese diviene unicamente Avanguardia Nazionale.

Ma che realtà era in verità Avanguardia Nazionale? Un movimento composto da militanti ed aderenti, i quali ambivano anch’essi ad instaurare “strutture parallele” alla Repubblica. Note al SID (Servizio informazioni difesa), le strutture clandestine del movimento avanguardista erano costantemente monitorate con accuratezza. Il leader del movimento, Stefano Delle Chiaie, dichiarava su Borghese: «ho ritenuto che Borghese rappresentasse una speranza politica importante e Avanguardia fu messa a sua disposizione, nel senso della militanza. Abbiamo avuto l’onore di essere stati considerati in maniera particolare dal comandante e noi l’abbiamo considerato senz’altro in un modo particolarissimo».

Avanguardia Nazionale (AN) è stata un’organizzazione politica di estrema destra nazional-rivoluzionaria italiana, fondata il 25 aprile 1960 da Stefano Delle Chiaie. Con una struttura molto gerarchizzata e impermeabile all’esterno, nel 1964 entra in correlazione con ufficiali dell’Arma dei Carabinieri e del SIFAR, con cui avrebbe dovuto «operare parallelamente» in funzione golpista. Nel 1965 AN si scioglie nella sua struttura di facciata per riemergere all’interno del fenomeno del movimento studentesco. Si ricostituisce ufficialmente nel febbraio del 1970, partecipando al Golpe Borghese. Si discioglierà formalmente nel 1976.

Ma un’operazione così ambiziosa, da chi è stata finanziata? Anche di questo parlano le informative del SID: è la data dell’undici Maggio 1969 – «il comandante Borghese nel corso di una riunione di esponenti del mondo imprenditoriale genovese, ha deciso la costituzione di gruppi di Salute Pubblica, per contrastare anche con l’uso delle armi, l’ascesa al potere del PC (Partito Comunista)».

La base di questa nota del SID è in un rapporto dei Carabinieri: «Il 12 Aprile, ultimo scorso, a Genova in una villa appartata a picco sul mare, sita in via Capo Santa Chiara 39, il noto comandante Valerio Borghese si è incontrato con l’armatore Cameli Alberto, con l’avvocato Meneghini Gianni, con il presidente Lagorio Serra Gianluigi e con il proprietario della villa, l’industriale Canale Guido».

Così racconta il giornalista Camillo Arcuri: «Lui venne qui a Genova nel 1969, fece queste sue proposte e alla fine chiese anche questi finanziamenti, preannunciando il colpo di Stato per il periodo di Luglio-Agosto del 1969. Da qui aderì e fece giungere fondi, ai piani di Borghese, – uomini paragonati al potere degli Agnelli – Piaggio, l’avvocato De Marti, il re del caffè Tubino, la crema economica ligure».

Trame, dunque, con i Movimenti dell’estrema destra, con i militari, con il mondo imprenditoriale – ricordo come tutti gli imprenditori citati sono stati assolti -, ma tornando alle indagini del 1971 subito dopo i primi arresti, la Magistratura chiede al SID cosa sappia sul Fronte Nazionale e del tentativo di Colpo di Stato. Il 13 Agosto del 1971, con il documento 13-03 il capo del servizio segreto militare italiano – il generale Vito Miceli – scrive: «quale capo del servizio informazioni della difesa, riferisco che dai controlli disposti, non emerse alcuna conferma della notizia riferita. Ogni ricerca informativa in merito svolta dal servizio ha portato all’esclusione di collusioni, connivenze e partecipazioni di ambienti o persone militari in attività di servizio».

Ma né Miceli, né altri al SID, trasmettono alla Magistratura tutte le informazioni, le quali sono di contro chiare prove d’accusa verso Borghese e verso i suoi contatti. Il 25 Febbraio del 1972, Remo Orlandini, Sandro Saccucci e tutti gli altri imputati vengono scarcerati. Il primo Dicembre del 1973, viene revocato il mandato di arresto di Borghese. La notte dell’otto Dicembre del 1970, insomma, non sarebbe successo assolutamente niente.

Quando tutto sembrava concluso, il 15 Settembre del 1974, un clamoroso colpo di scena, riapre d’improvviso il caso: l’autorità giudiziaria riceve un voluminoso dossier, inviato dal responsabile politico del SID, il Ministro della Difesa Giulio Andreotti (1919 – 2013). Tale plico voluminoso è diviso in tre parti e in specificato modo la prima, studia nei dettagli il golpe Borghese vero e proprio, descrivendo le fasi di preparazione del piano eversivo e gli obiettivi dei cospiratori.

A fornire a Giulio Andreotti il Dossier fu il numero due del Servizio Segreto Militare, il generale Gianadelio Maletti (1921), Capo del contro-spionaggio militare. L’inchiesta è delicatissima, poiché indaga su un gruppo di personaggi che sta cospirando ai danni delle Istituzioni Repubblicane: Maletti ne tiene all’oscuro lo stesso leader del SID, il generale Vito Miceli.

Antonio Labruna, capitano dei Carabinieri, fungerà da supporto tecnico a Maletti, registrando e ottenendo tutte le informazioni sugli aspiranti golpisti, fingendosi un loro complice, legato all’Arma. Il 17 Giugno del 1974, l’agente Labruna registra alcune informazioni determinanti legate ai cospiratori. Ne evince che Remo Orlandini era l’individuo più preparato sotto il punto di vista militare, ma secondo la testimonianza era coinvolto nel tentativo golpista anche Vito Miceli, il Capo del SID. Secondo le registrazioni degli infiltrati di Maletti, a casa di Remo Orlandini avvenne l’incontro tra Julio Valerio Borghese e Vito Miceli.

Davanti a queste fonti autentiche Gianadelio Maletti, si rivolge direttamente al Ministro della Difesa Giulio Andreotti, che racconta in uno spaccato Rai: «Maletti viene da me e mi dice “guardi dalle indagini che ho fatto c’è un colloquio che ha avuto personalmente, il generale Miceli con il principe Borghese”. Nel fare questa inchiesta si ritrova il suo superiore, in combutta con Borghese – dunque non poteva dirlo al suo superiore, ma doveva dirlo a me (…) e sentimmo questa registrazione e il tecnico di questa, era il capitano Labruna».

Miceli una volta sentito da Andreotti si difende, con l’affermazione che egli doveva prendere informazioni, ma come Andreotti affermò «non è il Capo del Servizio, che va a prendere le informazioni».

Vito Miceli, in breve, viene scaricato dalle altre autorità militari. Ancora Andreotti ricorda come: «l’errore fu di chi l’aveva messo a capo dei Servizi, perché non aveva né la professionalità di questo, né forse quel tanto di malizia, che forse può darsi sia necessaria pure per dirigere i Servizi». Il giorno successivo il Ministro della Difesa Giulio Andreotti destituisce Vito Miceli e una ventina tra generali e ammiragli, sostituendoli senza una particolare spiegazione.

Un vero e proprio terremoto ai vertici dei Servizi Segreti e delle forze armate, ma quel Dossier riapre anche le indagini della Magistratura il 10 Ottobre del 1974, con la Procura di Roma che spicca 23 mandati di cattura e nell’elenco figurano tutti i nomi dell’inchiesta del 1971, poi scarcerati dopo un anno, ma questa volta tra gli arrestati vi è anche Adriano Monti.

Un anno più tardi, dopo aver negato tutto, Adriano Monti uscito per problemi di salute, fugge all’estero, dove resta latitante per dieci anni. Nel frattempo il processo Borghese costruito proprio a partire da quel Dossier del SID, si apre a Roma nell’aula bunker del Foro italico il 30 Maggio del 1977.

Gli imputati sono ben 78, tra loro anche Vito Miceli – ormai destituito da Capo del SID, che è stato arrestato il 30 Ottobre del 1974. Tra i latitanti, oltre ad Adriano Monti, anche l’imputato chiave Remo Orlandini. E sulla base di quel Dossier l’accusa propone uno scenario sconcertante: un vero e proprio tentativo di golpe, che avrebbe dovuto avere luogo il 7 Dicembre del 1970, quando un commando di uomini legati ad Avanguardia Nazionale e del Fronte Nazionale penetrano dentro il Ministero degli interni e saccheggiarono l’armeria. Così, sotto intercettazione, racconterà Remo Orlandini: «Nel primo pomeriggio, sono entrati nel deposito, nell’armeria insomma, hanno caricato tutti i caricatori, hanno tirato fuori le armi, le hanno ingrassate, hanno messo a posto tutto quanto. Hanno messo in ordine le mitragliatrici pesanti e le hanno portate nei punti per la difesa del Ministero degli Interni. Eh! – sorride – chi c’entrava più lì! (…) arrivati alla sera – era piuttosto tardi – c’è voluto molto tempo perché gli uomini erano pochi, (…) dal Ministero degli Interni dovevano uscire 200 militari – invece di 200, ne uscirono 180 – che dovevano arrivare a me e che io dovevo dare a determinate persone, per un altro obiettivo (…) le armi non le ho avute, perché poi è arrivato l’ordine di rientrare e abbiamo fatto in tempo a riprenderle per strada, abbiamo ripreso l’autocarro per strada, lo abbiamo fatto rientrare e scaricare, poi le armi sono state di nuovo incassate e rimesse a posto (…) mancava una sola pistola e non è stata portata via dagli uomini di Avanguardia Nazionale, ma da uno dei miei a cui piaceva troppo, erano belle quelle armi, veramente belle. Di sei ne sono rientrate cinque, ne mancava una e l’ho fatta arrivare dalla Germania, dopo quindici giorni l’abbiamo rimessa a posto e nessuno si è accorto di niente».

Da sinistra a destra: Giulio Andreotti, Adriano Monti, Claudio Vitalone.

Come racconta Claudio Vitalone – Pubblico Ministero al processo Borghese -, «in un colpo di Stato, il Viminale ha dei centri di comunicazione, con tutta l’autorità periferica, che può essere disinformata, attraverso una gestione della linea superiore di comando, occasionalmente finita nelle mani di chi vuole destabilizzare la vita del Paese (…). Rinvenimmo accanto a dei MAV (Moschetti automatici Beretta), un’arma visivamente contraffatta e l’arma che fu periziata, era un’arma assemblata con parti diverse e quindi non era l’arma originale».

Quella pistola contraffatta sembrerebbe la conferma definitiva alle parole di Orlandini sul furto d’armi al Viminale, ma sempre – secondo l’accusa – quelle prelevate al Ministero degli Interno non sono le sole armi a disposizione dei golpisti: quasi 200 uomini – 197 per l’esattezza – partirono nella tarda serata del 17 Dicembre dalla caserma di Città Ducale al comando di Luciano Berti, apostrofato dal Monti come «un uomo tutto d’un pezzo, d’intelligenza superiore, di una fedeltà assoluta e di una lealtà assoluta».

Fu accertato infatti, dalla requisitoria del Pubblico Ministero – Claudio Vitalone, che l’auto colonna lungi dal dirigersi lungo i Colli Albani, punta dritta su Roma, arrestandosi sulla via Olimpica a poca centinaia di metri dagli impianti della televisione. Il segnale d’arresto è impartito dal Berti, il quale fermatosi dietro un autoveicolo in sosta, dal quale discendono due individui e con i quali intrattiene una discussione, fa riprendere la via del ritorno verso la caserma di Città Ducale. Non ci fu nessuna spiegazione agli ufficiali, sulle motivazioni della “mancata esercitazione”.

Secondo l’accusa, accanto agli uomini di Borghese e di Avanguardia Nazionale, c’era un gruppo di guardie forestali proveniente da Rieti, che a pochi metri dalle sedi Rai di Via Teuladia, avrebbe misteriosamente ricevuto un contrordine. Ma davvero poche centinaia di uomini, avrebbero potuto creare un regime militare in Italia? Qual era allora il vero obiettivo di quella azione? Ancora secondo Claudio Vitalone, l’ipotesi più plausibile è in una ricostruzione della strategia golpista. Creare le premesse per un intervento di tipo autoritario: una volta che si fossero accesi vari focolari di infezione nella Capitale, probabilmente sarebbe stato legittimo l’intervento degli apparati dello Stato e se mai uno di questi “apparati” fosse stato coinvolto nella strategia golpista, avrebbe avuto un titolo di apparente legittimazione dell’intervento. Rimuovere la condizione eccezionale, nella quale ci si era venuti a trovare, per effetto della “provocazione” e della reazione “legittima”, dipendeva soltanto da chi gestiva il progetto eversivo.

L’ipotesi più plausibile, chiama in causa le presunte complicità di apparati dello Stato, eppure nella notte tra il sette e l’otto Dicembre 1970, queste complicità non ci sono o forse – per così dire – non scattano.

Ancora dalle intercettazioni a Remo Orlandini capiamo come l’ordine di rientro arriva all’01:00 di notte. Orlandini era al comando del “reparto B”, mentre al “comando A” vi era il comandante Borghese, che comunica al suo amico l’ordine perentorio di “far rientrare tutti”.

Inquietante e irrisolto l’interrogativo di chi impartì a Borghese l’ordine di cessare l’attività golpista: nemmeno nella ricostruzione accusatoria il quesito trova una risposta sensata. Secondo Orlandini la mancata presa del Ministero della Difesa nei termini previsti, avrebbe fatto “saltare” le operazioni.

Il principe Borghese, riparato nella Spagna franchista, non rientrerà mai in Italia, poiché morì all’età di 68 anni a Cadice in circostante mai veramente chiarite nell’Agosto del 1974. Adriano Monti, anche lui assente al processo, ha testimoniato nel 2012 il suo ruolo all’interno dei cospiratori: doveva fungere da “ambasciatore” in Europa – attraverso le sue personali conoscenze internazionali – per capire se il cambio “presidenziale” fosse gradito in determinati ambienti europei, poiché l’Italia aveva degli accordi internazionali con l’Occidente, soprattutto con gli Stati Uniti d’America.

Il 19 Dicembre del 2004, grazie al Freedom of Information Act (FOIA), il quotidiano La Repubblica, acquisisce documenti esplosivi: 5 informative che l’ambasciata americana a Roma, spedisce a Washington tra l’Agosto e il Settembre 1970: oggetto di queste informative – fino ad oggi segretate – è proprio il progetto di Borghese. Gli americani, dunque, sapevano del colpo di Stato. Tra le informative si fa riferimento ai cospiratori e ad una personalità americana in attività a Roma che di questi contatti riferisce all’ambasciatore a Roma Graham Martin.

Da ciò uscirà, come detto, il nome di Adriano Monti: una figura di spessore e rilievo nell’inchiesta, poiché avrebbe fatto da tramite tra il gruppo dei golpisti e l’ambasciata americana. Da parte statunitense avrebbe mediato, con Monti, Ugo Fenwich riferito nelle informative genericamente come un importante uomo d’affari americano, rappresentante in Italia per il Partito Repubblicano statunitense, in stretto contatto con Henry Kissinger e Richard Nixon. Fenwich era apparentemente un ingegnere che si occupava di questioni imprenditoriali e commerciali, ma in realtà era indicato come uno dei fornitori di danaro ai congiurati.

Il giorno degli arresti Ugo Fenwich e la sua famiglia lasciano Roma d’urgenza, richiamati negli States: dunque la Casa Binaca di Nixon era a conoscenza di tutto il piano golpista di stampo militare, ma solo una parte della Cia, ha spinto in tale direzione, poiché parte dell’intelligence americana, sognava una cintura italiana militare anti-sovietica, riprendendo i modelli dell’America Latina, che gli Stati Uniti proteggevano.

Monti non si limitò solo ad intrattenere rapporti con gli americani, ma compì diversi viaggi in Spagna, a Madrid, per incontrarsi più volte con Otto Skorzeny (1908 – 1975), ex ufficiale delle Waffen-SS, uomo artefice della liberazione di Benito Mussolini dalla reclusione sul Gran Sasso, nel Settembre del 1943 e grande amico del principe Borghese. Ma che ruolo ricopre Skorzeny in questa storia? Otto Skorzeny era uno dei fiduciari dell’Organizzazione Gehlen – una organizzazione di intelligence tedesca, che aveva operato molto bene negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale e che fu praticamente cooptata dagli americani e fu inserita come una delle forze di intelligence fiancheggiatrici della Cia.

Otto Skorzeny (Vienna, 12 giugno 1908 – Madrid, 5 luglio 1975) è stato un militare austriaco. Soldato della Germania nazista, acquistò grande notorietà durante la seconda guerra mondiale per aver partecipato alla liberazione di Mussolini dalla sua prigionia del Gran Sasso d’Italia del 1943, l’operazione Quercia.

Adriano Monti, dunque, vuole accertarsi se l’ex ufficiale nazista poteva dare al principe Borghese la conferma, da parte di certi ambienti dell’intelligence americana, di una ipotetica approvazione statunitense verso questo tipo di iniziativa.

La risposta di Skorzeny fu positiva, ma la condizione era pesante: la presenza di Giulio Andreotti, come presidente del nuovo Governo militare, un personaggio che avrebbe potuto garantire un passaggio indolore per il cambio istituzionale. L’ex Senatore Andreotti recentemente scomparso, nella vicenda Borghese, ha sempre negato la conoscenza di queste trame, e siamo sicuri che queste, come altri suoi segreti, rimarranno in sospeso nella storia della Repubblica italiana.

Difatti Adriano Monti, non è a conoscenza di un coinvolgimento di Giulio Andreotti e tutte queste trame furono svelate solo nel 2012 ed erano sconosciute agli atti del processo.

A Roma il 14 Luglio del 1978, i giudici della corte d’assise che giudicavano i presunti golpisti di Valerio Borghese, con il pubblico Ministero Claudio Vitalone, dichiararono nella requisitoria la condanna di sessanta imputati per complessivi 495 anni di carcere. La corte d’assise in realtà deciderà per pene molto più miti, poiché cadde l’accusa più grave: quella di insurrezione armata contro i poteri dello Stato.

Rimane in piedi solo la cospirazione politica: Adriano Monti viene assolto per insufficienza di prove, così come l’ex Capo del SID Vito Miceli. Remo Orlandini viene condannato a dieci anni, Stefano Delle Chiaie e Amos Spiazzi a cinque anni, Sandro Saccucci a quattro anni. Assolto anche Luciano Berti: la marcia del Corpo Forestale su Roma, è considerata infatti soltanto una “coincidenza”.

La corte di Primo Grado, ritiene anche che non sussista l’invasione del Ministero degli Interni. Quanto al progetto golpista, la corte scrive: «Per quanto in astratto non peregrina, l’allegazione di una congiura ad alto livello non avrebbe però ricevuto ulteriori conferme e rimane nella sua essenza frutto di una analisi generica non ancorata a sintomi tangibili».

Per i giudici di primo grado non c’è stata nessuna macchinazione, nessuna congiura. Ad alto livello insomma, nessun tentativo di golpe e con i successivi processi, cadrà anche l’accusa di cospirazione politica. Il 27 Novembre del 1984, la corte d’assise d’appello di Roma, ribalta il giudizio di primo grado e manda tutti assolti. Nel 1985 la Cassazione conferma quella assoluzione: «la corte ritiene che i clamorosi eventi della notte in argomento si siano concretati nel conciliabolo di quattro o cinque sessantenni».

In questa storia senza fine, vi è ancora un ultimo colpo di scena e ne sono protagonisti il giudice istruttore Guido Salvini e di nuovo il capitano Antonio Labruna: siamo a Milano il 7 Novembre del 1991. Durante un’indagine sulle stragi degli anni sessanta e settanta, soprattutto la strage di Piazza Fontana e gli altri episodi eversivi di quella stagione, attribuiti a gruppi di estrema destra come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, ne verrà fuori che Labruna aveva in suo possesso tutti i nastri originali delle intercettazioni sul golpe Borghese e che queste registrazioni – copiate dal Carabiniere prima di consegnarle al suo superiore – risultassero difformi da quelle ascoltate dalla Magistratura, la quale riceveva nelle registrazioni i nomi di ufficiali militari in fase di pensionamento, mentre altri – pienamente in carriera – furono tacitamente cancellati e omessi, rimanendo in servizio con ruoli fortemente centrali nello Stato Maggiore.

L’Ammiraglio Giovanni Torrisi (1917 – 1992) – rivela Guido Salvini -, che divenne un importante ufficiale nello Stato Maggiore della Marina e poi diventerà Difesa: un uomo che sicuramente aveva peso nel panorama militare-politico italiano e non era l’unico.

Torrisi, infatti, non sarà l’unico nome a scomparire dai nastri del carabiniere Labruna, consegnati alla Magistratura. Da quei nastri, nel 1974, è scomparso proprio il nome di colui che si sarebbe dovuto occupare del rapimento del Capo dello Stato Giuseppe Saragat. Questa parte del rapimento fu affidata a uomini della Massoneria, appartenenti alla P2 – personalità riscontrate successivamente nelle vicende, anche giudiziarie degli anni successivi -, il che fa comprendere la motivazione di non rendere nota pubblicamente il coinvolgimento di alcune personalità.

Ad occuparsi del rapimento del presidente Saragat, secondo le intercettazioni di Labruna, doveva essere il massone Licio Gelli (1919 – 2015), insieme ad altri affiliati alla Loggia P2. Ma dal Dossier del 1974, sono scomparsi anche altri particolari fondamentali, ad esempio chi avrebbe dovuto assassinare il Capo della Polizia dell’epoca: Angelo Vicari. In questo caso si trattava di uomini, provenienti da Palermo, appartenenti alla Mafia siciliana e sempre dai nastri si è recentemente appreso come i killer fossero già presenti a Roma, pronti ad agire.

Dell’adesione della Mafia al progetto Borghese, parlano oltre a Tommaso Buscetta (1928 – 2000) anche altri pentiti e tra loro, sono emersi i nomi di Luciano Liggio (1925 – 1993) e Antonino Calderone (1935 – 2013) che dalle loro confessioni, hanno fatto emergere come il governo post-golpista, in cambio di questo appoggio, avrebbe concesso un’amnistia e alleggerito le situazioni processuali di alcuni importanti Boss mafiosi.

Dunque la mafia, la P2, i più alti vertici militari, i servizi segreti e poi anche imprenditori, politici: uno scenario ben diverso da quei “quattro sessantenni nostalgici” di cui parla la sentenza finale di assoluzione, ma perché allora nel 1974 – prima di consegnarlo alla Magistratura – dal Dossier di Labruna, furono tolte delle parti, così importanti? Andreotti ricorda: «Sono passati molti anni, ma ricordo c’erano alcune cose che non erano essenziali agli effetti di responsabilità di carattere penale, ma la cui pubblicità avrebbe potuto essere nociva, sotto altri aspetti, di conoscenze, di rapporti con altri servizi. Di questo ricordo ci fu, una necessità di questo genere».

Nel 1995, la procura di Roma ha incriminato Licio Gelli per cospirazione politica, insurrezione armata contro i poteri dello Stato, attentando all’incolumità e alla libertà personale del Presidente della Repubblica. Per la manipolazione dei nastri, sono stati incriminati, il generale Maletti, il capitano Labruna e il colonnello Romagnoli: a loro è stato contestato il reato di omissione dell’atto d’ufficio, per sottrazione di documenti relativi alla sicurezza dello Stato.

Il procedimento contro di loro, è stato archiviato, per prescrizione il 30 Ottobre del 1997, dal Giudice Otello Lupacchini. Anche il procedimento contro Licio Gelli è stato archiviato per l’impossibilità di acquisire nuovi elementi d’indagine.

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