Il tripartitismo tenta di entrare nella stanza dei bottoni dell’Unione Europea, ce la fa a mezzogiorno quando oltre il 78 per cento della base M5s benedice online l’alleanza con i liberali di Guy Verhofstadt, candidato alla presidenza di Strasburgo, ma batte in ritirata a sera quando il gruppo dello stesso Verhofstadt si ribella e vota contro. Pse e Ppe tirano un respiro di sollievo. La corsa per il dopo-Schulz resta una gara tutta italiana tra Gianni Pittella e Antonio Tajani che il 17 gennaio si spartiranno le ‘spoglie’ (politiche) di Verhofstadt per essere eletti al timone dell’Europarlamento. Tanto che Pittella scrive su Twitter "Condividiamo con i colleghi liberali i valori europei. Giusta la scelta di bloccare un'operazione incomprensibile con i 5 Stelle". Ma cosa c’è dietro la ribellione dei liberali francesi e tedeschi? E cosa c’è dietro la retromarcia di Verhofstadt, il convinto europeista, ultraliberale, ex premier belga e vecchia ‘gloria’ dell’Ue che in questi giorni a cavallo dell’Epifania ha tentato una nuova scalata al potere europeo?
Raccontano a Bruxelles che dietro la candidatura di Verhofstadt ci siano sia il presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker che l’ex presidente dell’Europarlamento, il tedesco Martin Schulz che ha lasciato anzitempo ufficialmente per tornare alla politica nazionale in Germania. Motivo: tentare di salvare l’alleanza tra socialisti e popolari, stretta a inizio legislatura nel 2014, asse portante della presidenza Juncker, messo in crisi dalla candidatura irremovibile sia di Pittella che di Tajani, l’uno contro l’altro. Ma l’esperimento Verhofstadt è durato poco. Maturato dopo Capodanno, sfuma insieme alle feste natalizie. Soprattutto: scoppia dopo l’accordo tra il belga che dice di sé di essere noto per “le idee forti” e il M5s di Beppe Grillo e Davide Casaleggio. Un accordo “tecnico”, si pregia Luigi Di Maio. Poche ore dopo, l’accordo salta.
In pratica, accogliere nell’Alde i 17 eurodeputati pentastellati avrebbe dato forza alla candidatura di Verhofstadt: i liberali sarebbero diventati terzo gruppo a Strasburgo con 85 eletti, dopo Ppe (217) e Pse (189). Un po’ troppa forza: insufficiente per eleggere Verhofstadt, vero. Ma abbastanza per impedire l’elezione di Pittella o di Tajani, entrambi italiani, esponenti dei partiti avversari del M5s, Pd e Forza Italia, inviperiti dal salto nel buio del liberale belga e allo stesso impossibilitati a sparargli contro perché bisognosi dei suoi voti per essere eletti. Un vero caos. Verhofstadt con Grillo e Casaleggio l’avevano indovinata sottovalutando però le appartenenze e le ideologie nei rispettivi gruppi.
Se nel M5s la decisione passa a maggioranza con un voto online sulla piattaforma Rousseau, nella più concreta e fisica riunione dell’Alde l’intesa con i pentastellati viene bocciata. I liberali sbattono la porta in faccia ai grillini, il tripartitismo per ora resta fuori dalla stanza dei bottoni dell’Ue, Verhofstadt ne prende atto e torna ad essere un ‘vecchio arnese’ di una vecchia Europa: anche lui con tutti gli altri leader consumati dal tempo e dalla crisi di un continente più vecchio che mai.
Il punto però è che mentre si consumava il dramma dei candidati italiani, lo psicodramma dei grillini che non volevano confluire nell’Alde e la tragedia dei liberali arrabbiati con Verhofstadt, la preoccupazione si è fatta strada anche negli uffici dello stesso Juncker. Caos troppo ingestibile, a rischio quella stessa maggioranza che con Schulz aveva tentato di salvare salutando in maniera benevola la discesa in campo del liberale Verhofstadt, uno che ha in mano la partita parlamentare europea sulla Brexit. A settembre Schulz lo ha infatti nominato negoziatore ufficiale delle trattative con Londra per l’uscita del Regno Unito dalla Ue. E lui non si è fatto scrupoli a redarguire subito la premier britannica Theresa May: “L’Europarlamento può anche fermare le trattative sulla Brexit se non si terrà conto dei suoi punti di vista…”.
Insomma, un buon biglietto da visita per presentarsi come candidato alla successione a Schulz: nel ruolo di convinto difensore delle prerogative parlamentari. Senza sottovalutare anche la sua carica anti-russa: Verhofstadt è inviso a Mosca, ha messo Putin, Erdogan e Trump nello stesso “anello di autocrati”. E magari appoggiarlo sarebbe servito ai pentastellati per ripulirsi dalle voci di chi li descrive finanziati dal Cremlino.
Fatto sta che tutto questo non c’è più. La candidatura di Verhofstadt resta in piedi, ma il 17 gennaio i maggiori contendenti saranno Pittella, attuale capogruppo del Pse, e Tajani, vicepresidente vicario del Parlamento europeo. Entrambi daranno la caccia ai voti liberali in uscita. Ma certo il fallimento della strana intesa tra M5s e Alde non sgombera il campo dalle incertezze sul voto. E’ probabile che il nuovo presidente venga fuori solo in quarta votazione, vale a dire al ballottaggio tra i due più votati dei primi tre scrutini. E se sarà Tajani, tutte le istituzioni europee saranno guidate da un Popolare (Commissione, Parlamento, Consiglio) con un’inevitabile rottura degli equilibri con il Pse.
A quel punto i paesi socialisti potrebbero puntare ad avere la presidenza del Consiglio, ora guidata da Donald Tusk, polacco, perfettamente in asse con la Cancelliera Angela Merkel. Si capisce così perché la carta Verhofstadt piaceva tanto a Berlino, non solo a Schulz. E a Varsavia, in chiave pure anti-russa. Poteva essere quella giusta per non creare scompigli a metà legislatura. Ma il belga ha voluto strafare. “Il compromesso non è il diavolo”, diceva nel video di presentazione della sua candidatura su Facebook. “Abbiamo bisogno di visionari e di costruire ponti…” per l’Europa. Ecco, i suoi non l’hanno pensata così.
di Angela Mauro per huffingtonpost.it