capture 021 03022021 104330C’è uno scarto significativo tra quello che McGregor sa di essere, e quello che dà a credere agli altri.

Adesso che diranno i fan di Conor McGregor? A fine incontro il pensiero è andato a loro, piuttosto che al fighter che aveva bisogno dello sgabello – piuttosto che, cioè, a quel simbolo di onnipotenza e megalomania che non riusciva a tenersi in piedi, all’uomo elegantissimo e ricchissimo, con un completo su misura (strettissimo) che è uscito di scena, dopo essere andato KO per la prima volta nella sua vita, zoppicando appoggiato a una stampella. 

Non perché ci siano solo due posizioni possibili – i tifosi di Conor e gli “hater” di Conor, come molti pensano – quanto piuttosto perché sembra esserci uno scarto significativo tra quello che McGregor sa di essere, e quello che dà a credere agli altri. Tra l’uomo incredibilmente talentuoso e carismatico ma, a conti fatti, fragile e fallibile, e il fumo di perfezione e successo perenne che getta negli occhi già innamorati di chi lo guarda. Oppure, se preferite, tra lo sportivo dalla personalità ipercompetitiva, e il suo marketing.

In realtà, il presupposto dovrebbe essere l’opposto di quello che pensano i fan più accaniti di Conor McGregor: per chi lo ha seguito in questi anni è impossibile non tifare sempre, almeno in parte, per lui. 

Persino quando ci ha trascinato in quell’esibizione a metà tra cinema e circo con Floyd Mayweather, per quanto critici, abbiamo mantenuto quel minimo di ingenuità necessaria per sperare che magari, chissà, Conor sarebbe riuscito a battere il pugile più vincente (e paraculo) di sempre. Era impossibile, lo sapevamo, ma che sogno sarebbe stato: il pugile-idraulico che passa attraverso le fiamme delle arti marziali miste per poi, con un giro lunghissimo, diventare il primo a sconfiggere – se possibile mandandolo KO – il pugile più intoccabile degli ultimi decenni? 

 

Si sapeva anche che Khabib Nurmagomedov non si sarebbe fatto distrarre dai carrelli di ferro che Conor gli tirava contro, né ubriacare dalle sue parole (o dal whisky che gli ha offerto durante la promozione, oltrepassando quella linea sottile che separa la provocazione dall’offesa pura e semplice), ma una parte del cuore di tutti quelli che lo hanno visto elevare le MMA fino a farne una forma d’arte e di spettacolo, pensava che magari la “magia” di McGregor avrebbe avuto la meglio. Che il suo mix di tempismo, precisione, gestione delle distanze, mani pesanti come mazzette di ferro, e carisma – perché anche il carisma conta – avrebbe resistito alla fredda opera di demolizione di Khabib, compiuta con la solita efficacia inumana.

In fondo, al di là della macchietta capitalista che ormai ha tutti i soldi e gli oggetti che desiderava quando ha cominciato a combattere, come ha detto Dana White dopo l’incontro, Conor McGregor ha sempre rappresentato lo stile e la capacità di immaginarsi come qualcosa di più di quello che siamo – di quello che gli altri vogliono convincerci a restare – in quell’invisibile ed eterna battaglia contro la crudezza della realtà che ognuno di noi combatte ogni giorno. 

Come con Floyd e con Khabib, anche stavolta era impossibile non tifare per lui. Pur sapendo che un avversario come Dustin Poirier, che si è fatto strada superando uno a uno i migliori della categoria (tranne uno), sempre da sfavorito, da co-protagonista, e che negli ultimi quattro anni ha combattuto otto volte (McGregor solo due), rappresentava un altro passo forse più lungo della gamba. Sarebbe stata una bella storia da raccontare, quella del come-back di McGregor, invecchiato sì, ma con il proprio fascino intatto – un fascino che Dustin Poirier non potrebbe togliergli neanche mandandolo KO una volta la settimana, senza offesa. 

Forse per questo la scena finale è stata così forte. Non solo tutte quelle foto di McGregor durante e dopo il KO – in fin dei conti non troppo diverse dalle foto di McGregor sottomesso da Khabib o da Nate Diaz – ma soprattutto (parlo per me) il video in cui, con il suo completo doppiopetto blu/viola, la pochette al taschino e i mocassini con la fibbia di metallo, dice «Great job» a Poirier, che indossando una maglietta psichedelica, dei jeans chiari presi da H&M e delle scarpe da ginnastica bianche, lo guarda come un operaio guarderebbe un politico in visita alla fabbrica. 

Dustin Poirier non sembrava solo invecchiato meglio di McGregor, o avere una strategia migliore della sua – «La mia gamba è completely dead» ha detto Conor in conferenza stampa, dopo – ma rappresentava un tipo di combattente opposto.

Se McGregor è arrivato ad Abu Dhabi su uno yacht Lamborghini lungo novanta metri, Poirier ci è arrivato promuovendo, insieme all’incontro, la sua fondazione caritatevole. Se Poirier è diventato quello che è imparando a «non dar retta al rumore di fondo, alle cose poco importanti» (un cambiamento di mentalità che fa risalire, anzi, proprio al loro primo incontro, alla sconfitta che aveva subito sette anni fa), Conor McGregor ha sempre contribuito volentieri a quel rumore. Conor McGregor, anzi, è diventato parte di quello stesso rumore. 

È stato sottolineato un po’ da tutti come Conor McGregor si sia presentato stavolta in una versione amichevole, o più amichevole del solito. Non ha tirato in ballo il primo incontro con Poirier per mettergli pressione, non ha tirato in ballo la sua famiglia, l’agente o gli amici per provocarlo in nessun modo, come invece aveva fatto – con una cura dei dettagli ammirevole, va detto – con Khabib. In compenso, ha continuato a promuoversi come quello che sa di non essere, manipolando la realtà a suo piacimento.

Il pezzo di realtà più duro da modificare anche per le sue mani fortissime, è quello che riguarda l’incontro con Nurmagomedov, ovviamente. Ma ci ha provato lo stesso, con risultati disastrosi. Intervistato da Ariel Helwani la settimana scorsa Conor ha detto di essere ancora il campione dei Pesi Leggeri, visto che dopo l’incontro con Khabib non c’era stato il momento rituale in cui Dana White stringe la cintura attorno alla vita del vincitore e Bruce Buffer grida con tutta l’aria che ha in corpo «And New…» eccetera eccetera (perché Khabib, dopo aver scatenato la rissa che aveva coinvolto entrambi gli staff, era stato trascinato via a forza; tra l’altro, lui stesso teneva molto a quel piccolo cerimoniale, visto che mentre lo portavano via ripeteva: «Datemi la cintura e poi mettetemi in galera»).  

McGregor ha aggiunto anche che Nurmagomedov non vuole incontrarlo di nuovo perché ha paura di lui, e che non lo biasima per questo: «Ho gli strumenti per distruggerlo». Ed è questo il momento in cui ho iniziato a pensare che i suoi fan avrebbero avuto un problema, in caso di sconfitta contro Poirier, venire a patti con la realtà. Perché se qualcuno, dopo aver visto l’incontro con Nurmagomedov, può dar retta alle parole di McGregor, allora significa che Conor può indicare un cane e dire che si tratta di un gatto senza venire contraddetto.

Durante il primo round con Poirier, in realtà, il talento di McGregor è sembrato resistente sia all’invecchiamento che all’inattività. È durata poco, ma è stata una bella illusione. Prima che i calci al polpaccio gli togliessero mobilità, è stato lui a mettere i colpi migliori, soprattutto un montante destro tirato con il busto piegato quasi del tutto di lato, da un angolo davvero “artistico”. E c’è un momento in cui Poirier, a circa cinquanta secondi dalla fine della ripresa, arriva a bersaglio con un destro di rimessa e poi si ferma e punta il dito contro McGregor. Sottolinea il suo colpo con una spavalderia un po’ artificiale che fa capire anche quanto per lui sia stato un sollievo rendersi conto che sì, aveva davvero colpito McGregor. 

Poi però è accaduto quello che accade spesso nella nostra realtà. Che un dettaglio piccolo e marginale si rivela fondamentale. In questo caso, si è trattato del sottile strato di carne che ricopre la parte esterna dello stinco, che a forza di subire calci si è gonfiata fino a togliergli il gioco di gambe, fondamentale per essere elusivo. Immaginate che un paio di mani invisibili il destino tenesse la testa di McGregor ferma davanti alle mani di Poirier. 

Proprio pochi giorni prima dell’incontro, sui propri canali social la UFC aveva fatto un sondaggio chiedendo chi fosse il più grande peso leggero tra McGregor, Poirier, Nurmagomedov e – non ricordo neanche il quarto. Un commentatore ha risposto una cosa del tipo: «Be’, forse quello imbattuto?», per non dire Khabib. Subito sotto è arrivato un fan di McGregor che ha risposto: «Forse quello che è stato campione di due categorie di peso diverse contemporaneamente». E in uno dei post successivi alla sconfitta con Poirier ho letto qualcuno che scriveva: «Anche con Diaz è stato preso di sorpresa, e nell’immediato re-match non c’è stata storia. Con Poirier sarà lo stesso».

Solo che stavolta non c’era ragione di essere preso di sorpresa (Diaz era subentrato pochi giorni prima per sostituire Rafael Dos Anjos, un avversario molto diverso) e non sarebbe neanche così interessante vederlo combattere di nuovo contro Poirier. La realtà è che Conor McGregor non può combattere ogni tanto, quando non ha di meglio da fare, contro il numero 2 della categoria, e se vuole anche solo riavvicinarsi alla cintura dovrà mettersi sul serio sotto e costruire un finale di carriera diverso da questa parte centrale.

Sono sicuro che McGregor questo lo ha capito, almeno quella parte di McGregor a cui in effetti piace combattere. Bisogna capire, però, quanto gli interessi tornare veramente competitivo a 32 anni. Quanto gli interessi la realtà. È da quando ha tolto la seconda cintura a Eddie Alvarez, nel novembre del 2016, che la carriera sportiva di McGregor ha preso una strana piega, e tra il tempo speso dietro al superfight con Mayweather, le sconfitte con Nurmagomedov e Poirier, oggi dobbiamo chiederci se ne è valsa davvero la pena. Se non è stato solo un incredibile spreco di talento. 

Durante la conferenza precedente all’incontro, col suo solito linguaggio vagamente trumpiano fatto di profezie (tipo quella secondo cui avrebbe battuto Poirier in 60 secondi) ed esagerazioni («Ho un milione di colpi, ho moltissime armi nel mio arsenale»), a un certo punto ha detto: «La gente mi chiede: “Cos’altro vuoi, sei ricco, cosa ci fai ancora qui?”» e la sua risposta è stata che alla fine quello che resta di un fighter sono gli highlights: «Io ancora oggi guardo quelli di Roy Jones, Mike Tyson e Muhammad Ali. E voglio che i miei highlights siano lunghi quanto un film». Il fatto è che gli highlights di Conor McGregor negli ultimi anni non sono granché, e sicuramente sono di più i meme delle sue sconfitte. I suoi fan si chiedono cosa avrebbe potuto fare in questi quattro anni, se anziché usare la sua fama per fare soldi e alzare un po’ di casino si fosse allenato seriamente e avesse affrontato i migliori fighter che la UFC poteva proporgli? 

Quando è arrivato ad Abu Dhabi con il suo yacht, e dallo yacht all’hotel è stato trasportato da una Rolls Royce, Conor McGregor ha trovato ad accoglierlo un gruppetto di persone e fotografi completamente coperti da tute anti-virus bianche con cappuccio, guanti e visiere protettive. Uno di quelli si è messo a gridare in arabo con le braccia alzate. Lui è sceso a torso nudo con dei pantaloni verdi e le ciabatte, ha preso in braccio suo figlio ed è entrato nell’hotel. Sembrava la scena di un film di fantascienza.

McGregor ormai è un personaggio leggermente fuori dalla realtà in cui viviamo tutti noi (che è anche quella della causa, e possibile processo, per stupro che dovrà affrontare nei prossimi mesi). È anche per questo che è interessante ed è impossibile tifargli contro, ma l’incontro con Poirier serve a ricordarci che persino uno come lui, uno col suo talento, il suo carisma e il suo livello di fama, può sfuggirle solo fino a un certo punto. 

di   per  www.ultimouomo.com