capture 061 01052021 091851Chissà se prima di invitare Clint Eastwood sul palco della convention repubblicana, gli organizzatori della campagna elettorale di Mitt Romney, il candidato alle prossime elezioni presidenziali degli Stati Uniti, avevano letto quell’intervista in cui Marlon Brando disse: «se un attore riesce a far vendere deodoranti, potrà essere altrettanto utile per vendere idee». Il premio Oscar del Padrino lo disse nel ’63, dopo aver sollecitato il popolo americano a partecipare alla “marcia di Washington” in cui Martin Luther King pronunciò il suo discorso I have a dream. Ma il coinvolgimento politico di Hollywood era iniziato molto prima.

Già nel 1918 – spiega Edward Ross nel suo libro Hollywood Left and Right – i capi dell’Fbi erano talmente spaventati che alcuni attori potessero influire sulla coscienza politica della nazione che ordinarono ai loro agenti di tenere sotto stretta sorveglianza i radical. I politici della Guerra fredda, che crearono il Comitato investigativo per le attività Anti-americane, non furono meno preoccupati dei loro predecessori. Capirono che i fan del cinema erano anche elettori e si chiesero: che succede se Charlie Chaplin, Humphrey Bogart, Katharine Hepburn e Edward Robinson iniziano ad utilizzare la propria fama per diffondere idee filo-comuniste?

Negli anni, questo tipo di paura si è trasformata nella convinzione che Hollywood è sempre stata un bastione della sinistra. Idea, che secondo Edward Ross, è falsa per due motivi. Primo: è stato il Partito repubblicano e non quello democratico a tessere per primo rapporti intimi con alcuni personaggi chiave dell’industria cinematografica più famosa al mondo, alla fine degli anni ‘20. Il produttore Louis B. Mayer fu il primo personaggio hollywoodiano ad accedere nelle stanze decisionali della Casa Bianca, invitato dall’allora presidente Repubblicano Herbert Clarck Hoover. Secondo: se gli attori democratici sono stati più visibili e numerosi ma quelli repubblicani – come George Murphy, Ronald Reagan e Arnold Schwarzenegger – hanno avuto un impatto molto più diretto nella politica americana. E l’esempio più lampante è proprio quello di Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti dal 1981 al 1989, che avviò quella rivoluzione conservatrice che smantellò pezzo per pezzo il New Deal rooseveltiano.

Nella storia di Hollywood, non tutti gli attori si sono esposti politicamente per paura di perdere quel pubblico che preferisce sognare ad occhi aperti piuttosto che ascoltare sermoni. Ma ce ne sono stati alcuni – nel suo libro Ross ne cita dieci, cinque democratici e cinque repubblicani – che dimostrano come l’engagement politico dello star system americano è stato lungo, profondo e vario. Lungo, perché è iniziato negli anni ’20 con Charlie Chaplin, che fu il primo ad utilizzare i film come un’arma politica: film come “Il grande dittatore” contribuirono a rendere consapevoli gli americani di quello che stava accadendo in Europa sotto il dominio di Hitler e Mussolini, e altri come “Tempi Moderni” denunciarono la crudeltà e l’alienazione della catena di montaggio dell’industria taylorista. È stato profondo, perché ci sono stati attori che hanno messo in gioco la propria carriera per difendere i loro ideali. Edward Robinson, il gangster di “Little Caesar”, organizzò manifestazioni e show radiofonici in cui condannava pubblicamente Hitler e finì con l’essere considerato persona non grata nei salotti di Hollywood. Fu poi accusato di essere comunista e andò in rovina dopo aver speso più di 100 000 dollari in spese legali. Ed è stato un impegno vario, perché ognuno di loro promosse le proprie idee in modo diverso.

 

Charlie Chaplin ne “Il Grande dittatore”

Harry Belafonte, “la prima star nera di Hollywood”, lasciò il cinema all’apice della sua carriera per lottare accanto a Martin Luther King. Jane Fonda, seppur tacciata di essere ignorante in materia, scese in piazza per lottare contro la guerra in Vietnam. Fino ad Arnold Schwarzenegger che fu il primo a capire che la televisione era diventata talmente potente che un attore, per essere eletto, non aveva bisogno del sostegno di un partito ma di quello dei varietà televisivi.

Rispetto a questo impegno politico delle star, c’è chi è stato molto critico. L’ex marito di Jane Fonda, l’attivista Tom Hayden, disse che poteva indebolire la democrazia perché trasformava un cittadino in un fan, un pensiero critico in un’adorazione. Ma d’altra parte, le star sono anche riuscite a richiamare l’attenzione di persone che probabilmente senza di loro non si sarebbero mai interessate alla vita politica del paese: quando Schwarzenegger si presentò alle elezioni di governatore della California del 2003, parteciparono 1,7 milioni in più di elettori rispetto alle elezioni precedenti. Andando ad Haiti, Sean Penn ha sicuramente ricordato che ci sono ancora molte vittime del terremoto 2010, e George Clooney volando in sud Sudan ha ricordato il problema del Darfur. Probabilmente è vero che quando Hollywood parla, il mondo lo ascolta. E quando Washington parla, il mondo sbadiglia. Ma ci sono delle eccezioni: in dieci giorni, il video di Clint Eastwood che parla “alla sedia vuota di Barack Obama” è stato visto da 2.033.132 persone su youtube. Quello di Bill Clinton invece, che parla alla convention democratica è stato visto nel giro di tre giorni da 2.428.075. Perché alla fine, quando un politico è amato, è anche ascoltato.

di Francesca Caruso per www.linkiesta.it