parolacceAvvertenza: in questo articolo non si leggerà nemmeno una parolaccia. Né quel «ca... che me ne frega», con tanto di puntini pudici, che Fabio Rovazzi ha deciso di censurare nell’ultimo suo pezzo, Tutto molto interessante («Sapete com’è, mi ascoltano tanti bambini»); e nemmeno l’avvertimento, questo invece scandito eccome, che fa Luciano Ligabue nel terzo singolo del suo album Made in Italy, cioè «È venerdì non mi rompete i co...». È vero: sia l’una che l’altra espressione, senza puntini, ogni tanto fanno comodo. Perché la parolaccia è liberatoria, aiuta a sopportare il dolore, come ha decretato una ricerca di Richard Stephens, docente di Psicologia alla Keele University, Regno Unito: il «vaffa» è una specie di aspirina.

Sarà anche per questo che ne diciamo tante? Troppe? Sempre più acuminate, anche nelle occasioni ufficiali? Oddio, di certo, l’ultima assemblea nazionale del Pd non verrà ricordata tanto per la «fase zen» annunciata da Matteo Renzi quanto per il «faccia da c...» che Roberto Giachetti ha rivolto all’evanescente Speranza. E ci fermiamo qui, perché se proseguiamo negli scranni parlamentari incrociamo il Movimento che del «vaffa» ha fatto un programma politico, i 5 Stelle. E poi non servirebbe: basta prendere una metropolitana per ascoltare ogni giorno una specie di rosario pagano, con discorsi infarciti di membri virili o di rimandi a signorine di dubbio mestiere. Più che nel passato. Perché? Adriano Zamperini, docente di Psicologia della Violenza all’Università di Padova, dice una cosa sensata: «Viviamo in una democrazia. Che è pur sempre un sistema non violento, però fondato sul conflitto. Nel momento in cui la violenza fisica viene condannata, non ci resta che la parola». La parolaccia come sostituto della spada? «Sì, basta guardare i talk show: c’è sempre un’escalation di aggressività parolaia fine a se stessa cosicché chi ascolta, quasi sempre, non capisce nulla». Chissà, forse nasce qui quella sensazione che hanno molti cittadini di non sentirsi mai pienamente informati su nulla. Ma la parolaccia è anche altro. «In un mondo — prosegue Zamperini, autore di La bestia dentro di noi, Il Mulino — in cui tutti parlano e, soprattutto, scrivono, la parolaccia è un carico simbolico che dà peso alla parola, altrimenti troppo leggera, incapace di imporsi nel magma dei discorsi infiniti».

Un po’ come, nei messaggi, usiamo sempre più spesso gli emoji; provate a mandare un messaggio senza: verrebbe subito letto come freddo, grave, ostile. O, peggio ancora, anziano (orrore). D’altra parte in quest’epoca scurrile possiamo consolarci: Dante nella Commedia si sollazza con parole quali bastardo, bordello e così via, come nota Pietro Trifone nel suo Pocoinchiostro, sempre del Mulino. E il linguista Giuseppe Antonelli, se da una parte loda la scelta di Rovazzi, dall’altra difende quella di Ligabue («Sta facendo parlare dei personaggi con la loro lingua») e racconta un aneddoto: «Mia figlia di sei anni e le sue amichette, a una festa, ascoltano Andiamo a comandare. Quando arriva il momento in cui J-Ax dice “Rovazzi, che c... fai?”, tutte insieme si mettono le mani sulle orecchie per non ascoltare e si mettono a gridare per coprire il turpiloquio. Morale: i bambini capiscono e devono capire bene qual è una parolaccia e quale no; la censura non fa che amplificare il loro interesse. L’importante però è guidarli all’ascolto, spiegare loro che una certa parola è disdicevole». D’altra parte, loro ascoltano i rapper che fanno del turpiloquio una forma poetica, dettata dall’urgenza di rispondere per le rime. Anche qui, parola come spada? «Sì — conclude Zamperini — anche se io, ottimista, sono sicuro che presto torneremo a essere uomini e donne di parola. Cioè ai quali si può affidare il potere infinito del discorso».

di Roberta Scorranese per corriere.it  

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