Chiamateli eroi, anzi Eroi. Più che una raccolta di racconti, il libro pubblicato a metà ottobre da Idrovolante edizione (282 pagine – 20 euro) è un percorso tra il freddo delle trincee della Prima Guerra Mondiale e il calore di un patriottismo innato che richiamò, nel momento di partire per il fronte, la migliore gioventù italiana. Con L’Intraprendente abbiamo fatto due chiacchiere con l’editore del volume, Daniele Dell’Orco.
Daniele, un libro che cade in un anniversario importante, la vittoria della Prima Guerra Mondiale del nostro esercito contro l’Austria – Ungheria. Una ricorrenza tanto importante quanto ignorata…
«Ed è proprio per contrastare questo tentativo di far passare sotto traccia la nostra vittoria che abbiamo deciso di pubblicare questo testo. Eroi è prima di tutto un’operazione culturale».
In che senso?
«Raccogliendo 22 storie di soldati che hanno combattuto la Grande Guerra, abbiamo cercato di fornire una chiave di lettura diversa rispetto questo avvenimento: la guerra tout court ha assunto i contorni di qualcosa da rinnegare. Ma la prima guerra mondiale l’abbiamo vinta. Non è un operazione di revanchismo. E’ un tentativo di riconsiderare l’identità nazionale e il valore della Patria. Insomma, riappropriarsi di un’identità che la prima Guerra mondiale ha contribuito a formare. Noi siamo figli delle trincee».
I piani di Giulio Cesare nella Conquista della Gallia
Nel 58 a.C. Giulio Cesare ottenne il proconsolato¹ della Gallia Narbonense e della Gallia Cisalpina. Esse erano province di ben poco rilievo rispetto a quelle ricche orientali, che tutti aspiravano a governare per arricchirsi. Ma Cesare aveva un progetto preciso che spiegava le ragioni di questa scelta: intendeva avviare una grande campagna di conquista della Gallia, per guadagnare gloria, ricchezze e il controllo di un proprio esercito, premesse indispensabili per mettersi alla pari con la forza di Pompeo e Crasso e poter realizzare le sue ambizioni di potere.
L’avvio della Conquista della Gallia
Nel 58 a.C. Giulio Cesare si recò nelle province assegnate. Prese a pretesto per iniziare la guerra, come alleato dei Galli, alcuni sconfinamenti degli Elvezi, una popolazione dell’attuale Svizzera occidentale, e li sconfisse nella battaglia di Bibracte (58 a.C.), e poi dei Suebi (o Svevi), un popolo germanico proveniente dall’area del Mar Baltico. Dopo ancora le sue legioni attaccarono i Galli belgi, veneti, aquitani, tanto che sul finire del 57 a.C. gran parte della Gallia sembrava sotto il controllo romano.
Intanto a Roma…
Giulio Cesare, prima di lasciare Roma in mano a Crasso e a Pompeo, con i quali nel 60 a.C. aveva sottoscritto un accordo privato e segreto (all’insaputa del senato romano) di reciproco aiuto (il Primo Triumvirato), aveva preso le sue precauzioni: aveva infatti fatto eleggere tribuno un uomo spregiudicato e di stretta sua fiducia, Publio Clodio, che ottenne il favore della plebe urbana con una serie di elargizioni e fece esiliare Cicerone (sempre più apertamente anticesariano), con l’accusa di illegalità nella condanna a morte dei segaci di Catilina. In questa situazione il senato cercò il sostegno di Pompeo, preoccupato come Crasso dei successi di Cesare in Gallia, e fece inoltre richiamare Cicerone dall’esilio.
Cesare capì che era il momento di rinnovare gli accordi triumvirali; i tre si incontrarono a Lucca nel 56 a.C. e fu deciso che Cesare avrebbe avuto il proconsolato in Gallia per altri cinque anni e Pompeo e Crasso avrebbero avuto il consolato per l’anno 55 a.C. Pompeo sarebbe poi diventato proconsole in Spagna, Crasso proconsole in Oriente per combattere contro i Parti, che avevano fondato un vasto impero sull’altopiano iranico e in Mesopotamia e minacciavano i domini romani.
Notte del 23 ottobre 1942: il sole è tramontato da poco nel deserto egiziano, 100 chilometri a ovest di Alessandria, vicino al mare. A un tratto oltre mille cannoni di grosso calibro iniziano a martellare le postazioni tedesche e italiane.
Non si sa perché quel luogo si chiami El Alamein, in arabo ‘le due bandiere’; sta di fatto che da mesi nella zona si fronteggiano le forze dell’Asse e quelle degli Alleati: in gioco c’è il controllo del Nord Africa, via naturale per attaccare la ‘fortezza Europa’. La sproporzione a favore degli angloamericani comandati da Montgomery è tale che lo scontro dovrebbe chiudersi in poche, eppure Regio Esercito e Afrikakorps riescono a bloccare l’offensiva per giorni, a prezzo di perdite enormi. Un costo altissimo soprattutto per la Divisione Folgore: quando finalmente il 4 novembre le armi tacciono a ricevere l’onore delle armi sono poche centinai di soldati, unici superstiti di 5.000 loro compagni.
Italia 8 Dicembre 1970, alle ore 07:59, la nazione avrebbe dovuto ascoltare questo comunicato: «Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di Stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato e ha portato l’Italia verso lo sfacelo economico e morale ha cessato di esistere. Le forze armate, le forze dell’ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della Nazione, sono con noi, mentre possiamo assicurarvi, che gli avversari più pericolosi, quelli che per intendersi, volevano servire la Patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi. Nel riconsegnare nelle vostre mani, il glorioso tricolore, vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno d’amore: Italia! Italia! Viva l’Italia!».
Il proclama appena scritto, è un documento autentico: il proclama alla nazione che l’otto Dicembre del 1970 avrebbe dovuto annunciare al Paese il colpo di Stato realizzato dal principe Julio Valerio Borghese (1906 – 1974), un golpe che avrebbe dovuto rovesciare la democrazia e instaurare in Italia un regime militare. Una storia oscura, piena di misteri, di colpi di scena, ma anche di tanti interrogativi, a cominciare da quello che accadde davvero a Roma la notte tra il sette e l’otto Dicembre 1970.
Dalla storia delle grandi epidemie un'amara lezione su che cosa fare o non fare per combattere e fermare la COVID-19, anche se oggi ci sembra inarrestabile.
Con il coronavirus sono montati anche miti e fake news (bufale, informazioni errate), diffuse soprattutto attraverso social media. Per esempio, benché la mascherina non serva a proteggere se stessi dal contagio, almeno le mascherine più semplici perché i virus sono "troppo piccoli" per venire bloccati, centinaia di migliaia di persone (sane) in tutto il mondo si sono precipitate a comprarla.
Le fesserie sono anche di carattere sociale, come la bufala (fake news) della donna di Wuhan che avrebbe cucinato e messo in tavola una zuppa di pipistrello, e aperto così la strada al coronavirus. Anche se i pipistrelli potrebbero (forse) essere all'origine dell'espandersi dell'epidemia, la storia della "zuppa di pipistrello" nasce nel sud del Pacifico, non in Cina, per un noto programma di viaggi di una blogger cinese, Wang Mengyun.
Nonostante gli esperti abbiano lavorato duramente per sfatare molti di questi miti, quella storia è preziosa per inserire l'epidemia di CoViD-19 in un contesto che dovremmo conoscere bene. Cosa che, in teoria, dovrebbe aiutare a ribattere alle falsità e a placare le nostre paure: insomma, peste nera, influenza spagnola e anche il vaiolo possono insegnarci molto.
I militanti romani di Azione Frontale, nel pomeriggio di lunedì 27 aprile, in diversi quartieri della città eterna hanno affisso un volantino intitolato Piovon fiori su Piazzale Loreto, in ricordo di Benito Mussolini e Claretta Petacci ed altri 19 massimi esponenti del regime fascista i cui corpi furono esposti il 28 aprile del 1945 a Milano Il senso di questa iniziativa ci viene chiarito, con una nota, che riportiamo per intero. Piovono fiori su Piazzale Loreto. Che cosa è il 28 Aprile 1945? Il 28 Aprile 1945 è il giorno dell’infamia,della codardia,dell’odio che prevale su quel poco di umanità che risiede dentro ogni essere umano. Una piazza vomitevole che si accani' su corpi esanimi a terra. Mussolini,il Duce d’Italia che fece diventare una terra di contadini una delle maggiori potenze Mondiali,venne trattato come un animale insieme alla Petacci e ai maggiori esponenti del Fascismo.
Sulla cattura di Mussolini, nel corso di 70 anni, sono stati versati fiumi di inchiostro, ma forse non li conosceremo mai nella loro verità fattuale. Sono decine e contrastanti, le versioni fin qui pubblicate sulle ultime ore del duce. Anche perché se Mussolini fosse riuscito a fuggire l'eventale e successivo processo probabilmente non lo volevano nemmeno gli inglesi, il premier Winston Churchill in particolare (a prescindere dall'esistenza o meno di un carteggio compromettente con Mussolini che nessuno ha mai trovato).
Al crollo della «linea gotica», Benito Mussolini si trasferì a Milano (17 aprile 1945) e tentò di contrattare la propria incolumità con il Comitato di Liberazione Nazionale. In fuga verso Como, in divisa da soldato tedesco, fu arrestato dai partigiani e passato per le armi per ordine del Cln il 28 aprile 1945. Il suo cadavere (insieme a quelli di Claretta Petacci, la donna cui era legato dal 1936, e di altri gerarchi fucilati) fu esposto dai partigiani a Milano in piazzale Loreto, a simbolo della fine del fascismo.
Sulla morte di Benito Mussolini (28 aprile 1945) esiste una versione ufficiale, secondo cui il duce fu ucciso a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como, non lontano dal luogo dove era stato catturato, da un plotone di partigiani comandato da un esponente comunista, il colonnello Valerio, al secolo Walter Audisio, per ordine dei capi del Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia. Questa versione è stata spesso contestata e presenta, in effetti, secondo più storici, non poche contraddizioni. Sono stati messi in dubbio l'identità degli esecutori e la legittimità dell'ordine impartito dal Cln. Ed è stato anche ipotizzato un intervento dei servizi segreti inglesi nella morte del dittatore fascista. Come ha ricordato lo storico Giovanni Sabbatucci, «la verità è che Mussolini fu ucciso dai partigiani perché era importante che fosse la Resistenza italiana ad assumersi l'onere dell'esecuzione; e perché, in caso di consegna agli Alleati ci sarebbe stato un processo che avrebbe chiamato in causa responsabilità e complicità diffuse, in un momento in cui i governanti italiani tendevano a separare le responsabilità del paese da quelle del fascismo».
L’esecuzione del Duce – La testimonianza di Walter Audisio (nome di battaglia “colonnello Valerio”), il partigiano che eseguì la sentenza
Il giorno prima Mussolini era stato arrestato a Dongo e la direzione del CLNAI aveva deciso senza indugio per la sua esecuzione immediata. Prelevato dai suoi giustizieri a Bonzanigo, l’ex duce, insieme alla Petacci, fu portato nel pomeriggio in auto in un un piccolo vialetto davanti a Villa Belmonte, un’elegante residenza di Giulino, dove fu fucilato. Questi gli ultimi minuti di vita di Mussolini secondo la testimonianza di Audisio: “Sull’auto lo feci sedere a destra, la Petacci si mise a sinistra. Io presi posto sul parafango in faccia a lui. Non volevo perderlo di vista un solo istante. La macchina iniziò la discesa lentamente. Io solo conoscevo il luogo prescelto e non appena arrivammo presso il cancello ordinai l’alt. Dissi di aver udito dei rumori sospetti e mi mossi a guardare lungo la strada per accertarmi che nessuno venisse verso di noi“. “Quando mi volsi la faccia di Mussolini era cambiata: portava i segni della paura. (…) Feci scendere Mussolini dalla macchina e gli dissi di portarsi tra il muro ed il pilastro del cancello. Obbedì docile come un canetto. Non credeva ancora di morire: non si rendeva conto della realtà. Gli uomini come lui temono sempre la realtà, preferiscono ignorarla (…). Improvvisamente cominciai a leggere il testo della sentenza di condanna a morte del criminale di guerra Mussolini Benito“. “Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontario della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano”. “Credo che Mussolini non abbia nemmeno capito quelle parole: guardava con gli occhi sbarrati il mitra che puntavo su di lui. La Petacci gridò enfatica: “Mussolini non deve morire”. Dico alla Petacci che s’era appoggiata a Mussolini: “Togliti di lì se non vuoi morire anche tu“. La donna capisce subito il significato di quell’anche e si stacca dal condannato. Quanto a lui, non disse una sola parola: non il nome di un figlio, non quello della madre, della moglie, non un grido, nulla.
Anche in base ai conti di Bocca un partigiano su due partecipò alla Resistenza solo dal 15 al 25 aprile 1945
“Siamo comunque grati agli americani per averci liberato, col concorso dei partigiani”. Curiosamente in un centro sinistra che spara contro Bush per la sua visita del 4 giugno, è quasi Fausto Bertinotti quello che si mostra più pacato. Ma anche lui usa poi un giro di parole la cui implicazione sembra essere che il lavoro sia stato per lo meno fifty-fifty, se non che addirittura siano stati i partigiani a fare lo sforzo principale. Prima ancora di essere il mito fondante dei partiti della Prima Repubblica, e in particolare del Pci, questo as- sunto fu fatto proprio dallo stesso Stato italiano, proprio per ottenere condizioni di pace meno gravose. “Anche l’Italia ha vinto”, era il famoso titolo di un numero speciale del 1945 del Mercurio, rivista culturale allora di grande prestigio.
Sui vantaggi che l’Italia aveva ottenuto nel “pagare il biglietto di ritorno nella democrazia” (frase di Edgardo Sogno), scrisse diffusamente Paolo Emilio Taviani, che aveva iniziato la sua carriera politica presiedendo a 32 anni il Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) della Liguria, e che oltre a essere un noto pezzo grosso della Dc fu anche a lungo il presidente della Federazione Italiana Volontari della Libertà (Fivl): un’organizzazione di ex-partigiani cattolici, liberali, ex-badogliani, militari e moderati in genere, che in quella particolare “triplice resistenziale” modellatasi sull’esempio di quella sindacale era un po’ l’omologa della Cisl (con la “rossa” Anpi, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, come la Cgil; e la Fiap, Federazione Italiana delle Asso- ciazioni Partigiane, fondata da ex-azionisti, e corrispondente alla Uil).
La richiesta dell'Anvm alle amministrazioni di Terni e Polino
Le hanno chiamate “marocchinate”. Sono le donne che durante la Seconda guerra mondiale, quando gli alleati riuscirono a fondare la linea Gustav, subirono le violenze della divisione franco-marocchina, composta da nordafricani agli ordine del generale Alphonse Juin. Analoghe violenze furono perpetrate dalle truppe coloniali inglesi. Tra le loro vittime anche bambine, anziane e suore. Ma anche uomini non furono risparmiati dalla violenza sessuale.
Ma in quei mesi, con l’Italia diventata un campo di battaglia, episodi di barbara violenza ci furono da una parte e dall’altra del fronte che si spostava verso nord. Come dimostrano le storie di due donne, Rina e Annita, entrambe assassinate nel 1944, a pochi chilometri di distanza l’una dall’altra. La prima per mano partigiana, la seconda dai soldati alleati.
Si tratta della tragica fine di Rina Petrucci e Annita Aquilanti. A prendersi carico del loro sacrificio è l’Associazione nazionale vittime delle marocchinate (Anvm) che ha scritto una lettera al sindaco di Polino per chiedere di intitolare una via e un concorso letterario a Rina Petrucci, uccisa dai partigiani il 25 aprile 1944. Analoga missiva è stata spedita al primo cittadino di Terni, per chiedere un eguale ricordo di Annita Aquilanti, la povera mamma assassinata il 19 luglio 1944 dai soldati indiani per aver difeso la figlia da uno stupro.
Buongiorno amici. La foto di Giuseppina Ghersi, una bambina di 13 anni, che il 30 aprile 1945 fu assassinata dai partigiani con un colpo di pistola, dopo essere stuprata e picchiata insieme a sua mamma con il papà costretto a suon di botte ad assistere a quell’atrocità, e il cui corpicino fu ritrovato su un mucchio di altri cadaveri di civili innocenti barbaramente trucidati dai partigiani davanti alle mura del Cimitero di Zinola, alla periferia di Savona, dove i Ghersi erano proprietari di un piccolo negozio di frutta e verdura, è emblematica della grande menzogna sulla “Festa della Liberazione”.
La versione del tutto ideologica che a liberare l’Italia dal nazismo e dal fascismo sarebbero stati gli stessi partigiani comunisti che violentarono e assassinarono Giuseppina Ghersi e perpetrarono degli efferati crimini contro la popolazione civile inerme, ci impone di riscrivere la verità sulla nostra Storia. Il fatto che l’Anpi, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, monopolizzi il merito della liberazione e gestisca in esclusiva la “Festa della Liberazione”, è una radicale mistificazione della realtà e un oltraggio della memoria delle decine di migliaia di vittime dei partigiani comunisti. Così come è paradossale che l’Anpi, che ha fatto dell’antifascismo e dell’antirazzismo la sua ragion d’essere, connotandosi come movimento ideologico della sinistra globalista e multiculturalista, di fatto più che salvaguardare l’Italia e difendere la nostra civiltà, predica l’apertura incondizionata delle frontiere, la fine dell’Italia sovrana e in prospettiva la morte della nostra civiltà.
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 37/16 del 26 aprile 2016, Madonna del Buon Consiglio
Elenco parziale dei sacerdoti uccisi dai partigiani comunisti e dimenticati dalla storiografia ufficiale
Don GIUSEPPE AMATEIS, parroco di Coassolo (Torino), ucciso a colpi d’ascia dai partigiani comunisti il 15 marzo 1944, perché aveva deplorato gli eccessi dei guerriglieri rossi.
Don GENNARO AMATO, parroco di Locri (Reggio Calabria), ucciso nell’ottobre ’43 dai capi della “repubblica rossa” di Caulonia.
Don ERNESTO BANDELI, parroco di Bria, ucciso da partigiani slavi a Bria il 30 aprile 1945.
Don VITTORIO BAREL, economo del Seminario di Vittorio Veneto, ucciso il 26 ottobre 1944 da partigiani comunisti.
Don STANISLAO BARTHUS, della Congregazione di Cristo Re (Imperia), ucciso il 17 agosto 1944 perché in una predica aveva deplorato le “violenze indiscriminate dei partigiani”.
Don DUILIO BASTREGHI, parroco di Cigliano e Capannone Pienza, ucciso la notte del 3 luglio 1944 da partigiani comunisti che lo avevano chiamato con un pretesto.
Don CARLO BEGHE’, parroco di Novegigola (Apuania), sottoposto il 2 marzo 1945 a finta fucilazione che gli produsse una ferita mortale.
Don FRANCESCO BONIFACIO, curato di Villa Gardossi (Trieste), catturato da miliziani comunisti iugoslavi l’11 settembre 1946 e gettato in una foiba rimasta sconosciuta.
Don LUIGI BORDET, parroco di Hóne (Aosta), ucciso il 5 marzo 1946 perché aveva messo in guardia i suoi parrocchiani dalle insidie comuniste.
Don SPERINDIO BOLOGNESI, parroco di Nismozza (Reggio Emilia), ucciso da partigiani comunisti il 25 ottobre 1944.
Don CORRADO BORTOLINI, parroco di Santa Maria in Duno (Bologna), prelevato da partigiani il 1° marzo 1945 e fatto sparire.
Don RAFFAELE BORTOLINI, canonico della Pieve di Cento, ucciso da partigiani la sera del 20 giugno 1945.
Don LUIGI BOVO, parroco di Bertipaglia (Padova), ucciso il 25 settembre 1944 da un partigiano comunista.
Don MIROSLAVO BULLESCHI, parroco di Monpaderno (Diocesi di Parenzo e Pola), ucciso il 23 agosto 1947 da comunisti jugoslavi.
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