PARMA- Non si può non essere colpiti dalla drammaticità di quanto viene raccontato dal Giornalista e Scrittore Giampaolo Pansa su quanto è accaduto durante la guerra civile in Italia, tra partigiani e fascisti e quanto di terribile ha continuato ad accadere negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra.
Giampaolo Pansa riporta il numero di 2.365 donne uccise, spesso prima stuprate dai partigiani, di cui si conosce il nome e la vicenda. A cui bisogna aggiungere le centinaia di donne violentate che sono riuscite a sfuggire alla morte e che per un comprensibile senso di pudore hanno taciuto. E quelle picchiate, rapate a zero ed esibite come trofei per la sola colpa di essere fidanzate di soldati fascisti.
Giuseppina Ghersi era una bambina di appena 17 anni quando fu picchiata, stuprata e uccisa dai partigiani con l’accusa di essere al servizio del regime fascista. Studentessa delle magistrali alla “Rossello” di Savona scrisse un tema che la maestra inviò al Duce ottenendone i complimenti: questa la sua colpa.
Il 25 aprile si dà molta enfasi alla guerra partigiana. Ora le formazioni partigiane per l’80% erano formate dalle Brigate d’Assalto Garibaldi.
Le brigate d’assalto “Garibaldi” furono, durante la Resistenza italiana, delle brigate partigiane legate prevalentemente al Partito Comunista Italiano (PCI)e partito socialista italiano, raramente anche esponenti del partito repubblicano.
Dimenticati – tratto da: Il Timone, n. 11 Gennaio/Febbraio 2001. – Paolo DE MARCHI
Una pagina rimossa della nostra storia. Centinaia di cattolici, sacerdoti e laici, uccisi dai partigiani comunisti nell’immediato dopoguerra. In odio alla fede e alla Chiesa. I testimoni tacciono. I libri di testo nascondono la verità. Viltà, paura o complicità?
Una delle accuse più squalificanti che possano essere rivolte a chi si occupa di storia è senz’altro – nell’attuale temperie culturale – quella di essere revisionista: che equivale quanto meno a impudente falsario o a spericolato negatore di verità conclamate e di tesi pacificamente ammesse dalla gente che conta.
Uno storico vero dovrebbe invece essere revisionista per definizione, perché il passato è sempre suscettibile di una pluralità di letture, e la valutazione dei fatti, per essere il più possibile serena, va sgombrata da pregiudizi ideologici e luoghi comuni non verificati.
Il revisionismo, insomma, dovrebbe essere strumento ordinario di lavoro per uno storico, se non altro per evitare il formarsi di miti e leggende che piano piano finiscono per sovrapporsi alla verità dei fatti.
Era l’11 maggio del 1945 quando nel piccolo comune di Pieve di Cento sono stati rapiti, e nel pomeriggio selvaggiamente uccisi, i 7 fratelli Govoni. Il primogenito, Dino, aveva 41 anni, mentre la più giovane, Ida, ne aveva appena 20; solamente due di loro avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana, ciononostante sono stati tutti massacrati di botte, e infine strangolati, da un drappello di comunisti che facevano parte della Brigata Garibaldi e si definivano partigiani.Gran parte degli italiani sa poco o nulla degli eccessi perpetrati dalle frange più estreme dei ‘partigiani’ comunisti italiani al termine della Seconda Guerra Mondiale, eccessi che per molti anni sono stati minimizzati dalla stampa in quanto azioni di guerra, o di vendetta nei confronti di coloro che avevano commesso nefandezze sotto il regime nazifascista della Repubblica di Salò.
Tuttavia il quadro reale è ben diverso; secondo Alberto Fornaciari «le fosse comuni, le foibe e buona parte degli omicidi portati brutalmente a termine dalle brigate di partigiani comunisti avevano lo scopo ben preciso di eliminare fisicamente i possibili avversari del comunismo di stampo sovietico che si voleva instaurare a guerra finita».
Quel che è certo è che una parte consistente delle vittime non erano state collaboratori del regime nazifascista. Molti sono stati uccisi solo perché avevano espresso pubblicamente una certa avversione per il comunismo, e per le violenze causate da questa ideologia; numerosi sacerdoti cristiani sono stati trucidati principalmente per via della propria fede; in nome della ‘lotta di classe’ proprietari terrieri e funzionari pubblici sono stati seviziati e massacrati con l’accusa di essere fascisti.
Molti altri ancora, come ad esempio i fratelli Govoni, sono stati uccisi al solo scopo di «seminare il terrore, per continuare ad avere il controllo della situazione, anche a guerra finita», come ha scritto lo storico Giordano Bruno Guerri in un articolo pubblicato dal Giornale in memoria dei sette fratelli.
Oggi ricorre l’anniversario di uno dei crimini più odiosi dei partigiani. L’assassinio di Giovanni Gentile, un filosofo di 70 anni la cui unica colpa era quella di essere fascista. Ed era uno che al fascismo aveva dato tantissimo. Mite, colto, equilibrato, studioso, autorevole, conciliante: questo era Gentile. Ma anche convintamente fascista, tanto che aderì alla Repubblica Sociale italiana per ribadire il giuramento fatto venti anni prima. Ed è questo che i partigiani rossi non gli hanno mai perdonato.
Gentile rimane un gigante nella storia d’Italia
Gentile è un gigante nella storia d’Italia. Ministro, senatore, filosofo, docente universitario, accademico d’Italia, fondatore della enciclopedia Treccani, autore della riforma della scuola, e molto altro ancora. Su di lui si sono scritti trattati, libri, articoli, saggi, ma il suo assassinio non è mai stato condannato ufficialmente dalla sinistra né dai suoi intellettuali. All’epoca, il Partito Comunista non condannò l’omicidio, anche se l’efferato assassinio divise il fronte dei partigiani, che peraltro era egemonizzato dal Pci.
Qualche giorno fa sono stato bannato da facebook per aver postato una lettera di Mussolini,scritta di suo pugno, un documento storico verso cui la censura non dovrebbe operare.Essere bannati, significa in sostanza ricevere una vera e propria condanna, senza alcun processo né giudice né diritto al contraddittorio, che consiste nella impossibilità di scrivere post, di mettere like, di scrivere commenti negli altri post e il divieto di usare messenger,l’applicazione di chat e messaggistica privata di proprietà facebook. Tale condanna assume connotati ben più rilevanti e gravosi se si considera il periodo storico che stiamo vivendo ossia l’essere costretti a stare in casa dove i social assolvono la funzione di dare a tutti noi, come dei “condannati agli arresti domiciliari”, la possibilità di restare in contatto con amici e conoscenti nonché comunicare col mondo esterno. Ebbene facebook, una società di capitali privata americana, ha di fatto il potere di togliere la parola a chiunque, in tutto il mondo, di censurare qualsiasi pensiero che non sia a loro gradito, in totale contrasto con i nostri diritti costituzionalmente garantiti come il diritto alla libertà di parola e pensiero tutelati dall’art 21. Ma entriamo nel merito e andiamo a vedere il “motivo”, se esiste un motivo (ed esiste certamente) della mia condanna. Come dicevo poc’anzi, il “reato” da me commesso consisterebbe nell’aver postato, tra l’altro senza neppure aggiungere alcun commento, (quindi il documento “nudo e crudo”, come la storia ci ha consegnato), una lettera di Mussolini all’ingegner Romeo, quello dell’Alfa Romeo. Ma come è possibile, dico io, che si tolga la parola ad un cittadino, soltanto per il fatto di aver postato un documento storico? Chi ha paura della storia e perché? Come può, mi sono chiesto, un documento storico far così tanta paura, tale da giustificare un atto così grave come la censura, che consiste non soltanto nel togliere la parola ad un cittadino, ma che arriva addirittura a censurare il documento stesso ritenuto da facebook “impubblicabile!”? E allora andiamolo a vedere questo documento, vediamo insieme cosa c’è scritto di così tanto pericoloso da spaventare il colosso americano. La lettera è del 1928, 92 anni fa. Quasi un secolo. Mussolini, capo del Governo, scrive all’Ing. Nicola Romeo, allora Presidente dell’Alfa Romeo: “Pregiatissimo ingegner Romeo, ieri tornando da Firenze ho guardato con attenzione gli strumenti della mia Alfa (che va, del resto, molto bene) e ho fatto le seguenti constatazioni: i magneti sono tedeschi, l’orologio è svizzero, la tromba (che non funziona) è francese. Non escludo che nell’interno ci siano altri “esotismi”. È così che si aiutano i prodotti nazionali? Non si fanno – dunque – in Italia magneti, orologi, trombe?” Eccola qua, la lettera che fa così tanta paura. Personalmente trovo questa lettera straordinaria. Di una attualità disarmante, con una punta di ironia nei confronti degli amati/odiati cugini francesi. Si può pensare quel che si vuole sul Duce e non è questa la sede per un eventuale dibattito. Limitiamoci al contenuto della lettera. Come si può non condividere quel che è scritto? Una lettera così dovrebbe essere insegnata nelle scuole. Dovrebbe essere affissa nelle nostre piazze, come fosse un manifesto pubblico. Dovrebbe essere pubblicata un giorno sì e l’altro pure nei quotidiani nazionali, presa da esempio di come si dovrebbe gestire l’economia di un paese. E invece viene censurata, perché fa paura, perché è dirompente, perché si pone in contrasto con l’economia e il sistema attuale che professa l’esatto contrario. Un pensiero siffatto distruggerebbe le attuali leggi del mercato, sarebbe contro quel liberismo economico che professa la globalizzazione, che si traduce nel produrre nelle zone più economiche, a discapito dei diritti dei lavoratori, o dell’età dei lavoranti, costretti sin da bambini a massacranti ore di lavoro alle dipendenze delle multinazionali.
Cultura, economia, amministrazione, scienza Studiosi serissimi rivalutano il Ventennio
Mai come negli ultimi tempi si è parlato così tanto del rapporto tra fascismo e antifascismo. Fino alla noia, se pensiamo che siamo nel 2019. Che però è il centenario della nascita dei Fasci di Combattimento.
Sul tema - caldissimo sia nei media che nella società civile - si spendono i migliori editorialisti (ieri sul Corriere della sera Ernesto Galli della Loggia ha dedicato un lungo pezzo al monopolio della Sinistra sull'antifascismo), i politici dell'intero ventaglio parlamentare (che si danno reciprocamente del «fascista»), gli intellettuali democratici (ossessionati da un ritorno «strisciante» del fascismo, il cui fantasma ha rovinato anche l'ultimo Salone del Libro di Torino), i romanzieri (chissà se lasceranno che Antonio Scurati vinca il premio Strega con un romanzo su Mussolini), gli antagonisti dell'ultrasinistra (Matteo Salvini è un fascista a prescindere) e gli storici, i quali - in modo più serio - tendono a escludere paragoni irriverenti fra la dittatura di Mussolini e l'attuale governo.
Soprattutto, da noi, sembra impossibile affrontare con le dovute sfumature di giudizio il capitolo «colpe» e «meriti» del Regime. Sulle prime, non ci sono discussioni: il fascismo ne ha commesse abbastanza per essere condannato in eterno, dall'omicidio Matteotti alle leggi razziali fino alla guerra in cui ha trascinato il Paese. La controversia è invece sui secondi, i meriti. Qui, al di là di pamphlet «a tesi» che sfruttano l'onda polemica del momento, come quello recente di Francesco Filippi («Mussolini ha fatto anche cose buone». Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo, Bollati Boringhieri), il confronto dovrebbe rimanere aperto. E invece, ultimamente, è pressoché impossibile avanzare anche solo l'ipotesi che il fascismo, dietro la sua maschera più violenta e intollerante, possa aver avuto volti o espressioni diverse.
La formazione politica di Manlio Morgagni fu molto influenzata dalla figura paterna. Il padre era un fervente mazziniano e, ben presto, anche Morgagni iniziò ad aderire alla visione paterna. La famiglia divenne molto illustre nel corso degli anni. Basti pensare che il fratello di Manlio, Tullo Morgagni, fu la mente alle spalle della realizzazione del Giro d’Italia. Morgagni divenne, in breve tempo, un convinto socialista ma, al contempo, era anche persuaso che l’entrata in guerra dell’Italia fosse necessaria.
Fascista della prima ora
Per questa ragione, Manlio abbandonò la sua iniziale vicinanza al Partito socialista per avvicinarsi al neocostituito movimento di Benito Mussolini e al suo giornale Il Popolo d’Italia. Divenne, da quel momento, un amico intimo di Mussolini e della sua compagna, Rachele Guidi.
Alla fondazione del movimento politico dei Fasci Italiani di Combattimento, Manlio Morgagni vi si avvicinò subito e vi aderì. Alcune fonti lo annoverano, addirittura, tra i personaggi che hanno fondato lo stesso movimento e che erano presenti in Piazza San Sepolcro. In quegli anni lasciò l’incarico di direttore amministrativo del Popolo d’Italia ad Arnaldo Mussolini per potersi dedicare alla pubblicità.
Fascisti. Fascisti ovunque. Con l’approssimarsi del 25 aprile, come ogni anno, ritorna più minaccioso che mai lo spauracchio in fez e camicia nera. Ovviamente in prima fila a denunciare questo pericolosissimo ritorno di fiamma tricolore (si scherza, suvvia…) è l’ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia che, negli ultimi giorni, si è trovata coinvolta nell’ennesima e “attualissima” battaglia: la decadenza di Benito Mussolini da cittadino onorario di alcuni comuni italiani. Cittadinanza onoraria ovviamente conferita nella totalità dei casi durante il ventennio. Per non parlare di quel sindaco PD che, a Cremona, ha vietato una messa di suffragio in onore del Duce. O di chi, allarmato, lancia strali contro Giorgia Meloni colpevole di aver candidato alle elezioni europee un pronipote di Benito.
Del resto è inutile ripetersi, su questo blog lo si scriveva un anno fa e non è cambiato assolutamente nulla, il 25 aprile, “lungi dall’essere un momento in cui storicizzare i fatti del secondo conflitto mondiale, ne consente invece sempre più spesso la politicizzazione”. Politicizzazione che, non c’è bisogno di dirlo, anche in virtù della tradizionale coincidenza di questa festività con le maggiori tornate elettorali, torna sempre utile per una parte politica, la sinistra, che ultimamente di argomenti da sfruttare a proprio vantaggio ne ha pochini.
Si perdoni dunque a chi qui scrive l’autocitazione, ma del resto non avrebbe senso trovare un nuovo modo di esprimere un concetto così cristallino e financo banale. Ciò che però francamente preoccupa non è tanto questo, quanto il fatto che nessuno, soprattutto tra le fila della cosiddetta destra, che dovrebbe tendenzialmente essere la parte colpita dalla propaganda avversaria, muova un dito per mettere finalmente a tacere queste deliranti baracconate. Per consegnare finalmente il ventennio alla storia e lasciare riposare i morti in pace. Perché, va detto, parlare oggi di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini Benito, nato nel 1883, è un po’ come se gli inglesi chiedessero ai francesi di rimuovere l’intitolazione delle vie a Napoleone Bonaparte: una cosa ridicola. Punto.
La fine del grande scienziato che lavorò con Enrico Fermi e "i ragazzi di via Panisperna" alle prime ricerche sull'atomo torna di attualità. Misteriosamente scomparso nel 1938, secondo la Procura di Roma era vivo e vegeto in Venezuela dal 1955 al 1959. Ma chi era Majorana? E che cosa sappiamo della sua scomparsa?
Chi l’ha visto? Era questo il titolo di una rubrica della Domenica del Corriere sulle cui colonne, il 17 luglio 1938, apparve il seguente annuncio:
“Ettore Majorana, ordinario di Fisica all’Università di Napoli, è misteriosamente scomparso. Di anni 31, metri 1,70, snello, capelli neri, occhi scuri, una lunga cicatrice sul dorso di una mano. Chi ne sapesse qualcosa è pregato di scrivere”.
Le ultime notizie sul giovane scienziato erano datate 26 marzo, quando da un hotel di Palermo aveva annunciato a un suo collega l’intenzione di imbarcarsi sul primo traghetto per Napoli. Poi non se ne seppe più nulla, e sulle varie congetture che seguirono gravò costantemente l’incertezza dell’avverbio “forse”: forse Majorana si suicidò gettandosi in mare; forse fu assassinato; forse scese dalla nave (o non vi mise affatto piede) e si ritirò in un convento; forse rimase in Sicilia, sua terra d’origine; forse si rifugiò in Sud America... «O forse in Germania, dove condusse studi top secret sull’energia nucleare al soldo dei nazisti» aggiunge Federico Di Trocchio, docente di Storia della scienza all’Università La Sapienza di Roma e autore di varie pubblicazioni sul caso Majorana.
L'ultimo tassello di questa misteriosa vicenda è di questi giorni. Majorana fuggì segretamente in Sud America. Lo afferma la Procura di Roma che dal 2008 sta indagando sulla vivenda. La tesi dei giudici si basa sull'analisi di una foto scattata in Venezuela nel 1955, in cui appare un signore, conosciuto con il cognome Bini. L'uomo ritratto risulta compatibile con i tratti somatici del fisico catanese.
Dove sta la verità? Per tentare di capirne di più proviamo a ricostruire lo svolgersi degli eventi cominciando dal primo elemento di ogni indagine: il profilo della vittima. O meglio, dello “scomparso”.
Benito Mussolini avvertiva l’ambasciatore italiano a Shangai, il genero che poi avrebbe fatto fucilare, Galeazzo Ciano, di un “pericolo giallo”: “Invaderanno il mondo con la loro smisurata prolificità, con i loro prodotti a basso costo e con le epidemie che coltivano al loro interno”.Per l’epoca, è soprattutto la seconda ‘profezia’ a sorprendere. Prolifici sono sempre stati e tutte le grandi pandemie sono nate in Cina. Ma all’epoca la Cina era un paese agricolo che aveva mancato la rivoluzione industriale. E così è stato fino a pochi decenni fa.
Purtroppo a causa dell’emergenza Coronavorus è stato rinviato in data ancora da definire l’appuntamento dedicato al ricordo di “Angelo Mancia, 40 anni di un delitto impunito”. Sensibile come sempre Domenico Gramazio titolare del Cis di Viale Etruria/piazza Tuscolo, dove si sarebbe dovuto tenere l’incontro, ha deciso responsabilmente di attenersi alle nuove disposizioni che in questi giorni si stanno seguendo ovunque.
All’incontro di giovedì 12 era prevista una numerosa affluenza, vista l’adesione continua di persone che avrebbero voluto essere presenti. E’ giusto però ascoltare le indicazioni di chi invita a restare nelle proprie abitazioni in questa “guerra” che i medici stanno combattendo contro il coronavirus. E’ una questione di prudenza e di rispetto.
All’incontro avrebbe dovuto partecipare Giuseppe Valentino presidente della Fondazione Alleanza Nazionale; lo scrittore e giornalista Adalberto Baldoni, storico della Destra e direttore di “StoriaRivista”; Domenico Gramazio, direttore di Realtà Nuova. Avrebbe dovuto intervenire Francesco Storace, direttore del “Secolo d’Italia”, Tommaso Luzzi e Massimo Boni.
Da domani in edicola con Il Giornale, a 11,90 euro più il prezzo del quotidiano, "Il libro nero del comunismo", a cura di Stephane Courtois e autori vari. In regalo anche "Che fare?", summa del pensiero comunista di LeninUna collana di testi storici per capire che cosa è stato il comunismo potrebbe sembrare una operazione nostalgica all'inverso, cioè tenere in vita un nemico vinto e abbattuto, almeno in quella parte del mondo da noi abitata o abitualmente frequentata.
Ah, Sandro Pertini, il presidente della repubblica più amato dagli italiani. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il presidente-partigiano che esce dal protocollo. L'Impertinente. Il Puro. A quarant'anni dalla sua elezione al Quirinale, in un diluvio celebrativo, uscirà domani al cinema un film agiografico su di lui. Noi vorremmo integrare il santino raccontando l'altro Pertini.Alla morte di Stalin nel '53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell'Avanti! e all'epoca capogruppo socialista celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa disse su l'Avanti!: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L'ultima sua parola è stata di pace. (...) Si resta stupiti per la grandezza di questa figura... Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l'immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell'elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli.
Il 24 febbraio di trent’anni fa moriva Sandro Pertini, il Presidente della Repubblica più amato dagli italiani, dice l’agiografia istituzionale. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il furetto-partigiano che esce dal protocollo. L’Impertinente. Il Puro. Il Coraggioso. Integriamo quel santino raccontando l’altro Pertini, a cui già dedicammo un controritratto e anche una controrievocazione a Genova aspramente avversata dall’Anpi.Dunque, alla morte di Stalin nel ’53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell’Avanti! e all’epoca capogruppo socialista celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa scrisse su l’Avanti!: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura… Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell’elogio non fu mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin.
La pesante damnatio memoriae cui Margherita Sarfatti (Venezia, 1880 - Cavallasca, 1961) è stata costretta a causa dei suoi noti legami col regime fascista non ha permesso una serena, piena e corretta valutazione della sua dimensione di critica d’arte, ha drasticamente ridotto la sua elevata statura intellettuale, e dovrebbe essere finalmente e totalmente superata (ferma restando l’ovvia condanna per la complicità col fascismo, dal quale comunque lei stessa, ebrea costretta all’esilio nel 1938, fu infine colpita) al fine di consentirci d’apprezzare una delle più eccelse figure del ventesimo secolo, che dev’essere ricollocata al posto che le spetta nell’ambito della letteratura storico-artistica, dalla quale il suo nome è stato quasi del tutto cancellato: sono queste le premesse alla base di Margherita Sarfatti più, l’agile pamphlet, edito da Manfredi Edizioni, con il quale il critico e giornalista Massimo Mattioli pone all’attenzione di pubblico e studiosi il problema della rivalutazione della critica veneziana, nata Margherita Grassini. La pubblicazione del volume giunge a poca distanza dalla doppia mostra che il Museo del Novecento di Milano e il Mart di Rovereto le hanno dedicato tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, e che probabilmente ha sancito, sino a questo momento, il punto più alto del lento cammino verso una riconsiderazione di Margherita Sarfatti: un cammino che, giova ricordarlo, è stato intrapreso solo di recente, e con timidi risultati.
Nata a Venezia l'8 aprile 1880 da una ricca famiglia ebrea, Margherita Grassini (questo era il suo nome da nubile) trascorre un'adolescenza dorata. A 14 anni inizia la sua istruzione superiore con l'aiuto di alcuni dei più noti studiosi della città. Si appassiona alla storia dell'arte e alla poesia del Carducci. L'anno seguente un quarantenne professore socialista, conosciuto al mare, la corteggia e la spinge a leggere le opere di Marx e di altri teorici socialisti, con grande scandalo della famiglia. Nello stesso anno conosce l'avvocato ebreo Cesare Sarfatti, allora quasi trentenne, anch'egli socialista. La simpatia tra i due, osteggiata dalla famiglia, si trasforma presto in amore e non appena Margherita compie 18 anni hanno luogo le nozze.
La falce e il martello come la croce uncinata, come il fascio littorio, come la croce celtica. Marx come Hitler, entrambi tedeschi, Gramsci come Mussolini, entrambi italiani.
Fatico a scrivere e commentare ciò che combatto dalla quinta elementare, l’omologazione, la grande bugia, l’annullamento della verità storica.
Credo di averlo detto e scritto, dagli anni dell’infanzia e della prima adolescenza, dai banchi della Ercole Mosti, e dall’ultima fila della Giuseppe Garibaldi, Stalin fu un dittatore, la sua presa del potere post Lenin, non portò alla dittatura del proletariato, ma alla dittatura dell’apparato, al culto della personalità, quella fu dittatura, non comunismo.
Senza Stalin però e senza i 23.000.000 (ventitrè milioni) di morti sovietici, rileggete il numero e scanditelo a voce alta, la storia d’Europa sarebbe diversa, si marcerebbe col passo dell’oca e al posto di “Bella ciao”, si fischietterebbe “faccetta nera”.
Il democratico e intellegibile parlamento Europeo, coi voti pure di sedicenti esponenti di sinistra, ha voluto equiparare Nazismo/Fascismo al Comunismo. Perché? Perché la storia deve essere interpretata, e non studiata?
La falce ed il martello rappresentano le forze del lavoro, gli operai ed i contadini del mondo intero, senza confini e senza frontiere, la croce uncinata rappresenta la pura e bionda razza ariana, il fascio littorio rappresenta i latifondisti e la ricca borghesia italiana degli anni venti, i padroni del vapore, quelli che si nascondevano dietro al privilegio, non il popolo, carne da cannone. Mussolini entrò in guerra “ per portare qualche migliaio di morti al tavolo delle trattative”.
Lo scellerato patto Ribbentrop / Molotov, fu davvero molto diverso dall’immobilismo decennale delle forze occidentali nei confronti di Mussolini prima, Franco poi, ed Hitler dopo?
Ora, elencare i filosofi, pensatori, intellettuali e martiri comunisti e paragonarli a Goebbels, Himmler, Heydrich, Eicke ed altri topi di fogna simili è offensivo e vomitevole, ed infatti, io non lo farò.
È una storia che non passa quella degli “anni di piombo”. Lo ha dimostrato la recente vicenda, legata ad uno dei principali responsabili dell’assassinio di Sergio Ramelli, nominato dalla Regione Lombardia all’interno del Comitato Tecnico Scientifico, chiamato a indicare le linee guida utili per l’uscita dall’emergenza sanitaria e verso la cosiddetta “fase 2”.
È una storia che non passa, quando – di fronte al ricordo delle vittime – c’è chi continua ad alzare barriere, a cercare giustificazioni, a trincerarsi dietro vecchi slogan, in nome dell’antifascismo militante, quello secondo il quale “uccidere un fascista non è un reato”.
Eccoci perciò a ricordare nuovamente, a cinquant’anni dalla stagione dell’odio fratricida, l’ennesimo anniversario, senza rancore, ma nel nome di una verità storica che va alimentata e condivisa, soprattutto per non dare nulla di scontato.
Sono passati cinquant’anni da quel 18 aprile 1970, quando a Genova, in piazza Verdi, nel corso di un comizio di Giorgio Almirante, un gruppo di manifestanti dell’estrema sinistra, con l’intento di impedire il discorso del segretario del Msi, inizia un fitto lancio di sassi e bottiglie.
Ad essere colpito alla testa Ugo Venturini, 32 anni, operaio edile, militante del Msi ed insieme volontario di una pubblica assistenza. L’agonia di Venturini dura fino al 1° maggio e si conclude con la sua morte, proprio nel giorno della “Festa del lavoro”.
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Il Parlamento Ue chiede si fermare la “Mattanza” degli animali da laboratrio: nell’Unione europea, nel 2017, circa 12 milioni di animali sono stati al... -
Instagram è dannoso per la salute mentale delle ragazze. Zuckerberg lo sa e non fa nulla
Facebook sa che Instagram è un social pericoloso per la salute mentale delle ragazze adolescenti, ma non fa nulla per arginare il problema. E’ quanto... -
Carne bovina, due casi di mucca pazza. "Stop alle vendite", torna il terrore: ecco cosa evitare
Torna l'allarme mucca pazza. Certo, non alle porte dell'Italia, ma il caso fa subito paura. In Brasile - il più grande esportatore di carne bovina al... -
Facebook e la lista di vip intoccabili: Zuckerberg ha protetto dalla censura 6 milioni di profili “famosi”
«Gli standard della community di Facebook si applicano a tutti nella stessa maniera», è il mantra che Mark Zuckerberg ama ripetere a tutti. Ma è veram... -
Così muore in pochi secondi il Covid: l'immunologo Clerici ha scoperto l'arma letale che uccide il virus
Una spallata che può essere definitiva nella guerra con il Covid. Mario Clerici, docente di Patologia generale all’Università Statale di Milano e dire... -
Elon Musk da paladino “verde” a inquinatore seriale
Elon Musk proprietario di Tesla e del gruppo Space X ha cercato di rivoluzionare, oltre al mercato automobilistico anche lo stile di vita dei nuovi ri...
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