Nonostante Alberto Tarallo sia, almeno a partire dalla seconda metà degli anni ’90, uno dei più famosi produttori di fiction televisive, è difficile, per non dire impossibile, reperire una sua foto recente. Le uniche sue immagini in circolazione, ricavate da antiche foto di scena o da frames di vecchie pellicole, lo ritraggono immancabilmente in abiti muliebri. Un alone di mistero, sicuramente alimentato dallo stesso Tarallo, rende le attuali fattezze di questo produttore più misteriose di quelle del regista Terence Malick o dello scrittore Thomas Pynchon.
I lettori dei più sguaiati rotocalchi, ma anche quelli dei più paludati quotidiani, hanno avuto notizia dell’esistenza di questo sfuggente uomo di spettacolo grazie a uno scandaletto che, nell’estate 2012, ha coinvolto, oltre al nostro valente produttore, la diva Sabrina Ferilli e il neoattore Francesco Testi (ex giocatore di pallavolo e concorrente della settima edizione del Grande Fratello). Pettegolissimi gossip, fomentati peraltro da alcune incaute dichiarazioni della Sabrina nazionale, hanno addirittura favoleggiato di un triangolo tra lui (Testi), lei (la Ferilli) e l’altro (Tarallo), nato sul set della fiction Né con te né senza di te (2012), sulla cui veridicità, a causa di querele e controquerele, si pronunceranno i tribunali. Ma non è il gossip, questo novello oppio dei popoli, la chiave giusta per narrare la vita e le opere di Alberto Tarallo. Ripercorrere la sua biografia equivale, infatti, a ricostruire una parte rilevante della storia (non solo) della televisione italiana.
Nato a Napoli il 23 settembre 1953, Tarallo esordisce sul grande schermo interpretando un piccolo ruolo (Bellachioma, un neghittoso modello che posa, insieme a Claudia Mori, per uno scultore) in una grande produzione come Rugantino (1973, Pasquale Festa Campanile). Ma è in virtù del sodalizio stretto con il principe attore Franco Caracciolo, figura mitologica della comunità gay capitolina ben introdotta a Cinecittà, che il futuro produttore intensifica le sue apparizioni cinematografiche.
Tarallo, seguendo il solco tracciato dallo stesso Caracciolo e, prima ancora, dal “capovolto nazionale” Giò Stajano, si specializza nel ruolo del travestito. La sua filmografia en travesti annovera complessivamente sei titoli: L’uomo della strada fa giustizia (1975, Umberto Lenzi), in cui interpreta un travestito (soprannominato Liala) che aiuta un giustiziere della notte a scovare gli assassini della figlia, Labbra di lurido blu (1975, Giulio Petroni), in cui capeggia un terzetto di travestiti (gli altri due sono Caracciolo e Paolo Pazzaglia) che brutalizza la protagonista Lisa Gastoni,
Un amore targato Forlì (1976, Riccardo Sesani), in cui stupisce un giovane provinciale per la sua disinibita minzione nel bagno degli uomini, Mimì Bluette fiore del mio giardino (1976, Carlo De Palma), in cui ricopre la parte di Doralice (al suo fianco il succitato Pazzaglia), La banda del gobbo (1977, Umberto Lenzi), in cui è un travestito da marciapiede (nome d’arte Ursula) costretto dal gibbuto antieroe a smerciare orologi di marca fasulli (tra i compagni di meretricio si riconosce Caracciolo), e Quel pomeriggio maledetto (1977, Mario Siciliano), in cui incarna il travestito malavitoso Mandy (suo braccio destro il solito Caracciolo). Tarallo appare inoltre in Maria R. e gli angeli di Trastevere (1975, Elfriede Gaeng), melodramma pasoliniano che lo relega nel ruolo del gay vicino di casa della protagonista (nel cast ancora una volta Caracciolo), e La verginella (1975, Mario Sequi), l’unico film che interpreta in abiti virili (un compagno di classe dell’eroina eponima).
In questi giorni si è indirettamente parlato di Alberto Tarallo, produttore cinematografico e capo dell’Ares Film, l’agenzia che produceva fiction TV di enorme successo poi fallita dopo il suicidio di Teodosio Losito (suo compagno nella vita e sul lavoro).
Chi è Alberto Tarallo? Dalle fiction di successo al fallimento dell’Ares
Dopo le sconvolgenti dichiarazioni di Massimiliano Morra e Adua Del Vesco, concorrenti del Grande Fratello Vip, l’ombra di una possibile setta dai risvolti inquietanti, prende sempre più forma. Si è citato anche un uomo apostrofandolo “Lucifero” e, secondo Dagospia, potrebbe essere identificato proprio in Alberto Tarallo.
Ma chi è Alberto Tarallo? A inizio anno l’Ares Film è fallita e, dopo mesi, di lui non si era più parlato. Sceneggiatore e produttore cinematografico, ha dato vita a numerosissime fiction di estremo successo come: Il Bello delle Donne, L’Onore e il Rispetto, Il Peccato e la Vergogna, Furore, Il vento della speranza e Pupetta.
Tra i nomi a cui Tarallo ha dato popolarità citiamo: Gabriel Garko, Eva Grimaldi, Manuela Arcuri, Francesco Testi, Adua Del Vesco e Massimiliano Morra. Così come scrive Money.it:
Alberto Tarallo oggi è il nome più cliccato del web; l’uomo è parte del gossip lanciato inconsapevolmente da Adua Del Vesco e Massimiliano Morra nella casa del GF Vip. Dagospia ha indagato su questa figura misteriosa e c’è da ammettere che ciò che è emerso è davvero inquietante. Secondo i due gieffini Tarallo sarebbe Lucifero, il Male supremo, nonché dirigente della setta satanica sotto il nome di Ares Film.
Alberto Tarallo è Lucifero
Dagospia ha indagato e ha fatto emergere dei particolari davvero inquietanti; ecco cosa si legge sul portale:
Così, per dover di cronaca, non si registrano al momento commenti da Alberto Tarallo che l’attrice nella casa definisce indirettamente Lucifero. Nessuna denuncia, a quanto ci risulta. Dagospia ha provato a capire qualcosa in più su quel mondo, finito improvvisamente al centro della scena.
Il caso oggi è stato chiamato AresGate, citando proprio il nome della società di produzione che per anni ha realizzato le fiction di Canale 5 dove hanno recitato moltissimi attori coinvolti in questa oscura vicenda, fra cui proprio Adua Del Vesco, Massimiliano Morra, Gabriel Garko e molti altri.
“Ha vinto il governo?”. È la domanda che Bianca Berlinguer ha rivolto a Matteo Salvini, ospite di #Cartabianca per commentare l’esito della tornata elettorale tra regionali e referendum sul taglio dei parlamentati. Il segretario della Lega parla di numeri reali e non di sensazioni: “Se ha vinto il governo, allora evidentemente i marchigiani, i valdostani, i veneti non esistono. In Liguria dove c’era l’alleanza Pd-M5s hanno perso con 20 punti di scarto. Ma se vuole che dica ‘il governo ha vinto’, lo dico. Poi però ridiamo e andiamo in pubblicità”. Salvini ha continuato la sua analisi basata su dati oggettivi: “La Lega con il centrodestra governa 15 regioni, il Pd con il centrosinistra solo 5. I 5 Stelle governano in zero regioni. Inoltre ci sono 2 regioni su 7 che hanno cambiato colore, in entrambi i casi la Lega ha vinto ed è primo partito. In più abbiamo conquistato i due terzi del consiglio in Veneto, mentre Di Maio e Renzi zero. I ‘problemi’ dovrei averli io? O altri?”.
Parla di "giochetto", Alessandro Di Battista, e prepara l'assalto finale al Movimento 5 Stelle. L'appoggio di Davide Casaleggio inizia a vacillare (il riavvicinamento molto sospetto di Beppe Grillo al figlio del fondatore su Rousseau è più di un campanello d'allarme), e così il pasionario grillino si ritrova isolato e con quasi tutto l'establishment del Movimento contro. Al suo fianco, solo uno sparuto manipolo di "talebani" a 5 Stelle, da Ignazio Corrao a Barbara Lezzi e Max Bugani. Ma Dibba, spiega un retroscena della Stampa, non ha perso le speranze di ribaltare il tavolo e perlomeno sfruttare gli Stati generali per lanciare ufficialmente la propria sfida (qualcuno la traduce come: scissione): "Ho capito quale è il giochetto - è il ragionamento dell'ex deputato riportato dal quotidiano torinese -. Vogliono arrivare agli Stati Generali con tutto già pronto, il direttorio, i nomi... senza uno straccio di discussione. Io invece pretendo un congresso vero, non una farsa".
I soggetti sotto accusa ovviamente sono Grillo e Luigi Di Maio, l'ex amico sempre più vicino al Pd per motivi strategici e di poltrona. La grande e insospettabile alleata di Di Maio, visti i precedenti dissapori, è Paola Taverna, pure lei interessata all'abbraccio coi dem e in totale conflitto con Di Battista. In rotta con i vertici del Movimento, completamente assente dal dibattito sul referendum e le regionali, se non a disastro avvenuto ("La più grande sconfitta della nostra storia"), Dibba punta tutto sul sostegno della base, lo zoccolo duro delle origini. E magari pure su una fetta di parlamentari. Nelle chat grilline, spiffera ancora la Stampa, girerebbe un fotomontaggio di Di Maio versione "The young Pope", con con la scritta "The young Mastella". Più di un insulto, per loro. E che nei 5 Stelle la situazione sia al limite lo conferma la clamorosa e polemica assenza del reggente Vito Crimi all'assemblea congiunta dei deputati e dei senatori grillini.
"Mai più errori così". Giancarlo Giorgetti fa autocritica e delinea la strada da seguire per la "nuova" Lega. Il giorno dopo l'annuncio di Matteo Salvini riguardo a una "segreteria" a cui delegare il controllo e l'organizzazione del partito, il suo numero 2 è al centro di un retroscena pesante del Corriere della Sera. L'obiettivo di Giorgetti, si legge, è "costruire un solido sistema di relazioni con le maggiori cancellerie internazionali e un rapporto più stretto e non conflittuale con l'establishment europeo", obiettivo che deve essere comune anche a Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia. Una coalizione che non ragionasse in questi termini "non riuscirebbe a governare. Anzi, non arriverebbe a governare".
A Salvini, spiega il Corsera, Giorgetti avrebbe fatto di esempio proprio l'errore a cui si accennava: "In Europa, non aver votato la mozione contro il dittatore Lukashenko è stato un errore strategico". Giorgetti è il responsabile Esteri della Lega e dunque ha informazioni di primissima mano al riguardo. "Non posso continuare ad andare in giro se ci comportiamo così, perché non ci rendiamo credibili" agli occhi di considera la Lega solo un "partito populista amico di Putin". Lo schema di Giorgetti prevederebbe anche una Lega in grado di sostituirsi gradualmente a Silvio Berlusconi come garante della coalizione presso il Ppe e a Bruxelles. Tra i dirigenti leghisti, scrive ancora il Corsera, in queste ore è tornato d'attualità un pensiero del numero 2 di via Bellerio: "Se vorremo in futuro governare, Matteo dovrà incontrare Draghi e poi chiedere l'iscrizione al Ppe". Un cambio di prospettiva copernicano, degno di tempi difficili e avveturosi.
Dopo l'addio al MoVimento Cinque Stelle il presidente dell’aula Giulio Cesare lancia il suo progetto. Ieri sera l'ex grillino Marcello De Vito ha presentato il nuovo movimento raccogliendo l'adesione o per lo meno la curiosità di numerosi militanti M5s soprattutto dell'area della Lombardi. Il presidente dell'Assemblea capitolina, in una prima fase allontanato dai pentastellati dopo l'arresto per corruzione nell'ambito di uno dei filoni di inchiesta nati dall'indagine sullo stadio della Roma, non aveva mai escluso l'addio ai grillini e la volontà di creare una formazione politica nuova in vista della corsa in Campidoglio. "Crea Movimento" è la nuova associazione che punta a sviluppare il "progetto per Roma 2021" con il duplice obiettivo di visione e sviluppo della Capitale.
L'attivista di Hong Kong Joshua Wong, leader dell'opposizione al governo espressione di Pechino, è stato arrestato con l'accusa di "assembramento illegale". Fratelli d'Italia chiede alla Farnesina di richiamare l'ambasciatore italiano in Cina: "L'Italia di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio da che parte sta?"
“Il presidente Conte e il ministro degli Esteri Di Maio da che parte stanno? Il titolare della Farnesina richiami il nostro ambasciatore italiano in Cina e convochi l’ambasciatore cinese in Italia", dichiara in una nota il vicepresidente della Camera dei deputati Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia che ricorda di aver votato per Joshua Wong come giudice della Corte Costituzionale.
"Questi continui attentati alla libertà individuale perpetrati dal regime comunista cinese, che oggi ha arrestato e poi liberato Josha Wong, dimostrano l’assoluto arbitrio della Cina che ha ancora una visione padronale dei suoi cittadini trattati da sudditi e ora cerca di estendere la sua violenza contro la persona umana anche all’isola felice di Hong Kong. L’Italia e l’Europa devono prendere una posizione chiara sulla Cina che continua a seminare terrore sull’isola di Hong Kong nell’indifferenza globale. Verso il dio denaro neoliberista, cui si può aderire in spregio ai valori occidentali come è capitato alla Cina entrando nell’Organizzazione mondiale del commercio, è evidentemente consentito ogni sacrificio", si legge nella nota.
Il numero dei contagi sale, i cluster idem e la riapertura delle scuole non fa che segnalare continui contagi, per Roma ipotesi di mini lockdown. Zone rosse: palazzi, strade per isolare le possibili aree contagiate. Ne parla il responsabile Unità Speciale di Continuità Assistenziale Regionale (Uscar) Pierluigi Bartoletti al Il Messaggero: "Ci sono diversi cluster che stiamo seguendo, in molti casi si tratta di parenti che si sono contagiati tra loro». Sale l'allerta nelle scuole. "Già due positivi al giorno e casi destinati a moltiplicarsi".
Il timore è che con il salire del numero dei malati possano crescere anche gli ingressi nelle terapie intensive. "Al momento non c'è nessun allarme e la curva è sotto controllo, dobbiamo prepararci ai mesi invernali", avverte Bartoletti, "Oggi sono i cluster familiari a preoccupare. I contagi nelle famiglie possono esplodere e potrebbe accadere ciò che abbiamo registrato all'inizio della pandemia nelle case di cura".
L'ipotesi è procedere con mini lockdown. Piccole zone rosse come strade e palazzi dove isolare le famiglie o i pazienti che risulteranno contagiate: "Il piano - sottolinea il responsabile Uscar - è quello di isolare i nuclei familiari e i possibili contatti. In questo momento ci sono diversi cluster che stiamo seguendo, in molti casi si tratta di parenti che si sono contagiati tra loro. Stiamo cercando di contenerli. Per questo stiamo valutando delle mini chiusure a zona".
Quando esprimi il ministro dello Sviluppo Economico (il triestino Patuanelli) e pure il vice ministro (il milanese Buffagni), ti aspetti come minimo che la parte produttiva dell’Italia sia sensibile. Invece il 2,7 per cento preso dal Movimento Cinquestelle in Veneto è una clamorosa e dolorosissima porta sbattuta in faccia. Come a dire: lasciate perdere, ragazzini, il gioco è troppo duro per voi.
Il 2,7 veneto fa poi il paio con il 4 per cento a Venezia dove il governo schierava l’impopolare sottosegretario Baretta in quota Pd, già trombato alle politiche per via della ferma opposizione dei risparmiatori fregati dalle banche che speranzosi di giustizia votarono copiosamente i Cinquestelle come alternativa alla Lega. Proprio perché non hanno ancora visto un solo centesimo di restituzione promesso, quella speranza oggi si è trasformata in opposizione dura contro appunto i grillini di governo: dalla torinese Laura Castelli viceministro al Mef al ministro per i rapporti col parlamento Federico D’Incà, bellunese.
Lo stesso vale per il trentino Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla presidenza del Consiglio: nella sua città la lista civica promossa dall’ex M5S Filippo Degasperi ha strappato il seggio proprio ai Cinquestelle lasciandoli fuori dal consiglio comunale a leccarsi le ferite.
La debacle trova conferma nelle laboriose Marche (polo industriale in crisi), nella stessa Liguria del ponte Morandi simbolo di una battaglia politica (la revoca delle concessioni autostradali ai Benetton) è una delle tante favolette raccontate dai grillini, come pure l’inganno sull’Ilva di Taranto (non a caso in Puglia il Movimento ha registrato un crollo di consenso). Ma anche in Campania dove il Movimento ha preso presci in faccia ovunque nonostante le truppe parlamentari; e pure a Pomigliano d’Arco(re) non è bastato al cardinale Di Maio piazzare mezzo paese per vincere al primo colpo alleandosi col Pd e sette liste civiche. Insomma laddove c’era un pezzo di questione industriale e occupazionale la forza politica che detiene i ministeri chiave è crollata.
Beppe Grillo, fondatore del Movimento 5 Stelle, avrebbe bisogno di una buona iniezione di consulenza aziendale. Perché la Beppegrillo srl, che ha costituito per gestisce il sito del comico-politico, non mostra ancora risultati sfavillanti. Il suo primo secondo bilancio significativo, quello dell’intero 2019 essendo la società stata costituita a fine del 2017, si è infatti chiuso con un utile di soli 65mila euro (riportato a nuovo) in calo dai 73mila euro dell’anno prima e i ricavi sono aumentati pochino, da 230mila a 240mila euro derivanti dalla vendita di «spazi su portale web».
La srl di Grillo ha pagato tasse per 23mila euro fra Ires e Irap e ha debiti tributari per una pari cifra mentre la liquidità s’è dimezzata anno su anno da 107mila a 54mila euro. La società di cui Grillo è socio e amministratore unico ha visto Enrico Marai Nadasi come segretario dell’assemblea che ha approvato il bilancio. Commercialista e amico di Grillo, Nadasi è anche «segretario» del Movimento, secondo uno degli statuti del M5S, quello del dicembre 2012 che fu firmato nello studio di Cogoleto del notaio Filippo D’Amore, poi superato dalla revisione del dicembre del 2017 che ha fatto di Luigi Di Maio il capo politico del Movimento.
Uno scontro a dir poco clamoroso si è consumato a #Cartabianca, in diretta su Rai3. “Non si permetta di dirmi gallina”, tuona Bianca Berlinguer nel tentativo di mettere in riga Mauro Corona, che alza la voce e perde le staffe: “Senta Bianchina, se mi vuole qui tutta la stagione mi fa dire le cose. Altrimenti la mando in malora e me ne vado. Da stasera la trasmissione se la conduce da sola, gallina!”. Tutto è nato per un riferimento esplicito ad un albergo che lo scrittore ha tentato di fare, venendo bloccato dalla conduttrice: “Non possiamo fare pubblicità. Non posso accettare che lei diventi maleducato e sgradevole, insultandomi mentre conduco la trasmissione. Ci sono regole che anche lei deve rispettare”. Corona ha completato il suo intervento, dopodiché ha chiuso così: “Non dico più niente, tutto qui, arrivederci e mi stia bene”.
Dall'Europa ancora schiaffi all'Italia sul tema-immigrazione. Da Ursula von der Leyen e dalla Commissione solo parole. Anzi, peggio: prese per i fondelli, messe nero su bianco. "È tempo di gestire le migrazioni insieme, con un nuovo equilibrio tra responsabilità e solidarietà. Il vecchio sistema di gestione non funziona più. Questo è un nuovo inizio per l’Ue. Oggi proponiamo una soluzione europea per ricostruire la fiducia tra Stati membri e per ripristinare la fiducia dei cittadini nella nostra capacità di gestire come Unione", premette in pompa magna. E ancora: "Bisogna bilanciare molti interessi. L’Europa deve abbandonare le soluzioni ad hoc. Questo pacchetto complesso riflette un ragionevole equilibrio: condividiamo tutti i benefici, condividiamo tutti il fardello. L’Ue ha già dato prova in altri settori della sua capacità di fare passi straordinari per conciliare prospettive divergenti. Ora è tempo di alzare la sfida per gestire la migrazione in modo congiunto, col un nuovo equilibrio tra solidarietà e responsabilità".
Peccato però che poi il piano venga presentato nel dettaglio dalla vicepresidente, Margaritis Schinas, e dalla commissaria Ylva Johansson. Un piano che non prevede trasferimenti obbligatori di immigrati sbarcati sulle coste Ue verso gli altri paesi dell'Unione, così come richiesto dall'Italia. Insomma, se arrivano da noi, da noi restano. La solita vergognosa farsa. La Commissione Ue propone al contrario un nuovo sistema su tre pilastri. Il primo, screening pre-ingresso, una "procedura di frontiera integrata" per identificare chi entra da frontiere extra Ue senza autorizzazione o per identificare chi sbarca dopo operazioni di ricerca e salvataggio. Insomma, una supercazzola. Come supercazzola è la conclusione del primo "pilastro", per cui si legge: "Tutte le altre procedure saranno migliorate e soggette a un monitoraggio più forte e al sostegno operativo delle agenzie dell’Ue". Sì, come no.
È vero che spesso forse non si è profeti in patria, ma le performance elettorali di Teresa Bellanova nella sua Puglia in occasione delle recenti regionali vanno ben oltre questo semplice detto. La sua è stata una disfatta, assieme a quella di Italia Viva, il partito di Matteo Renzi che pure sull'attuale ministro dell'Agricoltura e sul suo presunto radicamento territoriale in Puglia puntava parecchio.
Appena pochi giorni prima dal voto, l'ex presidente del consiglio in visita nella regione dichiarava che se il Pd avesse candidato Teresa Bellanova avrebbe vinto a mani basse e senza problemi. Una stoccata al presidente uscente Michele Emiliano niente affatto profetica, visto che quest'ultimo è riuscito invece a riconfermarsi. Italia Viva ha provato a ostacolare la corsa del candidato democratico, presentando Ivan Scalfarotto assieme ad altre due liste. L'obiettivo minimo era l'ingresso in consiglio regionale, magari sperando nell'effetto trascinamento del ministro dell'agricoltura in carica.
Al contrario, quanto uscito fuori è una sconfitta sonora con il candidato renziano che non è riuscito ad arrivare nemmeno al 2%. Come lista, Italia Viva si è fermata all'1.08% e quindi a una cifra che ha posto il partito nell'alveo della marginalità politica. E dire che i renziani, con in testa la stessa Bellanova, hanno girato in lungo e largo la Puglia. Segno che a un risultato più importante e di rilievo evidentemente ci credevano.
Se la disfatta di Italia Viva è evidente, quella personale di Teresa Bellanova ha dimensioni ancora più ampie. Basta citare il dato del suo paese natale per rendersene maggiormente conto. A Ceglie Messapica, cittadina di ventimila abitanti di cui l'esponente renziana è originaria, in totale dalla lista di Italia Viva sono stati raccolti appena 48 voti. Come sottolineato da Repubblica, sono stati meno di quelli del candidato presidente di Rifondazione Comunista. In poche parole, il ministro che doveva rappresentare il cavallo vincente del centro – sinistra in Puglia, nonché l'esponente capace di trascinare al meglio Italia Viva nella sua regione, ha mosso soltanto una manciata di voti.
Le Regionali hanno dato un'ulteriore spinta a Giorgia Meloni che, stando ai sondaggisti, si conferma l'unica leader in grado di crescere assieme al suo partito. Eppure, se la vittoria nelle Marche del candidato di Fratelli d'Italia Francesco Acquaroli è meritevole di festeggiamenti, lo stesso non si può dire per la Toscana e la Puglia. Qui la sconfitta del centrodestra unito ha lasciato la Meloni e Salvini con l'amaro in bocca. Ma è soprattutto il leader della Lega a essere scontento per quanto accaduto nella terra di Giuseppe Conte, dove - a suo dire - è stato scelto un nome debole, quello del meloniano Raffaele Fitto.
"Se volessi partecipare a questo gioco - mette subito le mani avanti la leader di FdI in un'intervista a La Stampa - segnalerei che Fitto non ha preso meno voti delle liste della coalizione, anzi ha preso 30 mila in più. Fdi più la lista del candidato presidente hanno totalizzato oltre il 20 per cento". Poi la precisazione sul voto del 20 e 21 settembre: "Ecco, noi abbiamo fatto la nostra parte, in Puglia come in Toscana. Se fosse stato così per tutti, se fossimo tutti cresciuti, avremmo vinto nonostante tutto il clientelismo di Emiliano. A me piace fare gioco di squadra e la squadra si vede quando le cose vanno male. Quel che più mi dispiace è che qualcuno stia al gioco di chi vuole dividerci".
Dopo il buon risultato delle regionali, il Partito democratico di Nicola Zingaretti ha già iniziato a fare delle richieste, alle quali ovviamente il premier Giuseppe Conte non potrà sottrarsi. Secondo un retroscena di Repubblica, il presidente del Consiglio avrebbe chiamato il presidente del Lazio per congratularsi dell'esito delle elezioni in Campania, Puglia e Toscana. Conte sa bene che questo non è il momento del rimpasto, ma della stabilizzazione, soprattutto dopo la disfatta dei grillini e dei renziani alle urne. Intanto ha già deciso di accontentare Zingaretti su Mes e decreti sicurezza. Il leader del Pd, infatti, a spoglio ancora in corso, ha parlato del fondo salva-Stati, messo a disposizione dall'Ue per far fronte all'emergenza Covid. I dem sono a favore di questo strumento, a differenza dei 5 stelle. Come riporta Repubblica, anche Conte - in astratto - è convinto che vada attivato e in privato ha già promesso al governatore del Lazio un'immediata discussione politica. L'altro punto su cui il Pd insiste è la modifica dei decreti sicurezza, che sembra esser stata programmata a ottobre. Infine l'ultimo prezzo politico che Zingaretti chiederà al premier è la legge elettorale, fondamentale per i dem dopo il via libera al taglio dei parlamentari.
Dall'altra parte, però, ci sono i pentastellati che, nonostante la vittoria del sì al referendum, hanno dovuto incassare un'amara sconfitta alle regionali. Pare, inoltre, che rischino di collassare al Senato e che molti di loro siano tentati dal passaggio alla Lega di Salvini. Quantomeno per assicurarsi una poltrona nel caso in cui il governo cadessee si tornasse al voto (con parlamentari dimezzati, sicuramente per i grillini). Se questo realmente accadesse, la maggioranza che sostiene l'esecutivo di Conte, già risicata a Palazzo Madama, non ci sarebbe più.
"Perché il sottosegretario Carlo Sibilia scappa alla domanda sul suo processo per vilipendio contro Napolitano?". La domanda è quella del vicedirettore de Il Tempo Francesco Storace che, ospite in tv nella trasmissione Rai "Agorà" inchioda il sottosegretario grillino al ministero dell’Interno rinviato a giudizio lo scorso 17 settembre per le offese sul web all'ex presidente della Repubblica . "Voglio sapere - tuona Storace - rinuncerà alla prescrizione come feci io o se la prenderà per paura del verdetto del giudice? Esempio Viminale..."
"Ci dissociamo da qualsiasi evento ed iniziativa che strumentalizzi la memoria di Willy Monteiro Duarte". La famiglia del giovane morto dopo essere stato massacrato di botte a Colleferro non intende sopportare oltre e lo scrive a chiare lettere sui social. Una lezione durissima a politicanti e influencer come Fedez e Chiara Ferragni: se volete ricordare Willy, smettela di strumentalizzare con fascismo e razzismo che non c’entrano nulla. La famiglia proprio per dire questo e dissociarsi da comizi e manifestazioni che usino memoria del povero Willy per tornaconto politico ha aperto una pagina Facebook (il sorriso di Willy) postando la supplica: "Carissimi, si stanno svolgendo molte iniziative lodevoli nei confronti del nostro amato Willy. Dediche, murales, eventi, manifestazioni, poesie. Vi ringraziamo veramente tanto - scrivono i familiari - per l'impegno mostrato nell'unire le forze di tutti contro la violenza e l'ingiustizia. Tra venerdì e sabato, in particolare, si svolgeranno delle manifestazioni pacifiche in varie città italiane per ricordare Willy e chiedere giustizia per lui".
A mettere i puntini sulle proverbiali "i", dopo il voto alle regionali, ci pensa Matteo Salvini. Già, la Lega fa incetta di voti, il centrodestra strappa le Marche e lo sconfitto sarebbe lui. Certo, forse alcune dichiarazioni troppo nette su un cappotto alle urne ora gli si ritorcono contro, ma i numeri parlano chiaro: parlare di sconfitta di Salvini e del Carroccio è follia. E questo concetto, intercettato a Roma a margine della presentazione del nuovo soggetto di rappresentanza degli ambulanti nato dall’accordo di Ana e Ugl, lo spiega nel dettaglio propri Salvini, ribadendo un concetto speso anche nel corso di CartaBianca, di Bianca Berlinguer su Rai 3, in onda martedì 22 settembre: "Il Pd dice di aver vinto perché ha perso meno del previsto", rimarca l'ex ministro dell'Interno. Dalla Berlinguer, aveva affermato: "Fatemi capire... il Pd ha vinto perché ha perso meno del previsto e la Lega ha perso perché ha vinto meno del previsto?". Inappuntabile.
"I simpatici fischi per fiaschi del popolo del No". Questo il titolo del fondo firmato da Giuliano Ferrara su Il Foglio di oggi, mercoledì 23 settembre. Un pezzo in cui L'Elefantino punta il dito contro coloro che profetizzavano l'avvento del populismo e il sostanziale sgretolamento della democrazia parlamentare. Un pezzo lungo, strepitoso come sempre, tutto da leggere, che fa riflettere. Ma in cui spicca l'attacco. O meglio, la cannonata sganciata con grande disinvoltura nelle primissime righe contro Maurizio Molinari, il direttore di Repubblica. Scrive Ferrara: "Quelli del no, a parte i fasulli che sono dappertutto, anche nel sì ovviamente, hanno simpaticamente preso fischi per fiaschi. Molinari deve prendersi un consulente politico, perché il commento di ieri faceva pena - picchia durissimo -. Non è più complicato di così. Hanno detto che ci sarebbe stata una nuova grande festa populista e antiparlamentare. Non c'è. Hanno detto che doveva essere un referendum contro i grillini. Non ce n'era bisogno, come si vede agevolmente oltre la nebbia del risentimento e del temperamento caratteriale". E tanto basta, firmato Giuliano Ferrara.
Dalemiano, renziano e ora filo-grillino: il più disinvolto a cambiare casacca
«Sono un populista istituzionale». Dice di sé Michele Emiliano. Entrambe le cose, prese separatamente, sono vere: è un populista ed è dentro le istituzioni. Da decenni.
Emiliano non ne è uscito mai dai palazzi, nemmeno quando ne è uscito. Nel 2003 mollò l'incarico di sostituto procuratore a Bari lasciando alla deriva l'inchiesta su Massimo D'Alema (per poi candidarsi nel partito di Massimo D'Alema) senza mai lasciare la magistratura, incurante delle molli reprimende del Csm. Il suo regno su Bari, dopo il mandato da pm, i due da sindaco e ora il secondo da presidente della Regione, pare non aver mai fine.
Certo, c'è la vocazione populista ante litteram, ma a Emiliano non si può certo negare il fiuto per le alleanze giuste. Lesto a mollare D'Alema quando la sua stella era al tramonto è saltato sul cavallo di un Matteo Renzi nella sua fase più populista, quando si atteggiava a rottamatore proprio di D'Alema, è stato altrettanto lesto a sganciarsi dal leader di Rignano, passando sul sentiero a lui più congeniale, quello che corre parallelo al treno dei grillini.
È in questa fase che Emiliano ha davvero costruito il suo capolavoro: è riuscito a dipingersi come il leader più anticasta all'interno del Pd mentre costruiva la sua forza mettendo insieme tutto il notabilato pugliese più radicato nel potere. Tutto tranne Raffaele Fitto, ex baby prodigio della politica pugliese, ex governatore della Regione, ma anche erede della tradizione politica di famiglia, visto che il papà Salvatore è stato a sua volta presidente di Regione in epoca democristiana.
L’analisi politica del voto di Pier Ferdinando Casini è di altissimo livello. A Stasera Italia il senatore ha spiegato a Barbara Palombelli ed ai suoi ospiti perché alle elezioni regionali si è verificato tutto sommato quello che era ampiamente prevedibile: “È successo quello che succede sempre, ovvero che i sondaggi non ci prendono. Ormai mi sembra che non abbiamo bisogno di altri esempi, a ogni elezione ci troviamo sul fatto che i sondaggi sono fuori da quella che è la realtà delle cose. Davano tra Fitto e Emiliano la parità quando le urne erano già chiuse, invece c’erano 9 punti di scarto e più o meno la stessa cosa è accaduta in Toscana”. Tutto ciò non è però davvero rilevante, quello che conta è che si è verificato lo scenario più probabile: “Il Pd ha tenuto, anche più di quanto si pensasse, però il centrodestra non è che sia andato male. La contabilità delle regioni - ha sottolineato Casini - è comunque largamente a loro favore. I 5 Stelle invece si sono accreditati il risultato del referendum ed era prevedibile che in carenza di voti alle regionali si sarebbero rivalsi su quel voto, che tra l’altro, lo dico sommessamente, non è stato così malvagio neanche per il No rispetto ai pronostici della vigilia”.
“E’ una parola, dal nostro punto di vista, orribile”, dice dallo studio Alfonso Signorini rivolto a Fausto Leali, “colpevole” di aver detto la parola “negro” nella casa del Grande Fratelli Vip. E lui, sconsolato: “Ma guardate che io non sono razzista, Enock è un mio amico, ho un bellissimo rapporto con lui”. Interviene anche la contessa De Blank a difendere Leali: “Ma è una parola che è stata sempre usata, pure nella canzone, Siamo i vatussi, altissimi negri…”. Niente da fare: al termine della serata su Canale 5, a Fausto Leali è stata comunicata l’espulsione.
Fausto Leali “perdonato” da Enock e dal Grande Fratello
Un dibattito surreale, quello andato in onda in studio, su una parola che in passato veniva utilizzata in termini dispreggiativi, ma che Leali utilizza senza neanche rendersi conto di poter irritare la sensibilità di qualcuno. Fausto Leali si era rivolto all’ex calciatore chiamandolo “Negro” e spiegando “Nero è un colore, negro è la razza”. Parole che hanno irritato il fratello di Balotelli: “Da casa ci guardano, non deve passare questa cosa”. “Che cosa dovrei fare con le mie canzoni con i negri?”, si è chiesto Fausto Leali.
Il presunto “ritardo culturale” del cantante
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